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"Se la pace fosse un valore in sé, allora chi resistesse all'aggressore, anche opponendosi in modo non violento, sarebbe colpevole di lesa pace quanto l'aggressore stesso. Perciò il pacifismo è impotente contro la prepotenza colonialistica che consiste nel fomentare conflitti locali, per poi presentarsi come pacificatrice."

Comidad
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.

Di comidad (del 26/10/2023 @ 00:09:35, in Commentario 2023, linkato 7798 volte)
Chi non è convinto dalla versione ufficiale sui massacri di civili attribuiti ad Hamas, fa benissimo ad avere dei dubbi, dato che i precedenti storici di “fuoco amico” da parte israeliana sono piuttosto eclatanti e documentati, sebbene del tutto ignoti all’opinione pubblica. Il cosiddetto ”incidente” della USS Liberty avvenne in data 8 giugno 1967, in piena “guerra dei sei giorni”. Aerei e cacciatorpediniere israeliani compirono più attacchi contro una nave della Marina statunitense che navigava in acque internazionali effettuando intercettazioni per conto della National Security Agency. Gli attacchi israeliani provocarono trentaquattro morti e centosettantuno feriti tra i marinai americani. Aerei statunitensi, che erano stati mandati a difesa della USS Liberty, furono richiamati dal segretario alla Difesa McNamara e dal presidente Johnson. Secondo il rapporto ufficiale, redatto dalla CIA e reperibile negli archivi del governo statunitense, l’attacco fu un semplice “errore” di valutazione da parte di Israele, che aveva creduto si trattasse di una nave egiziana.
Paradossalmente l’ipotesi dell’errore è persino più inquietante di quella dell’attacco intenzionale, viste la ferocia e l’insistenza dell’azione israeliana, per di più in un contesto nel quale l’eventualità di incontrare navi statunitensi o britanniche era tutt’altro che remota. Secondo la testimonianza dei superstiti della USS Liberty l’attacco israeliano configurò gli estremi del crimine di guerra, poiché furono mitragliate persino le zattere di salvataggio che l’equipaggio americano aveva calato in mare. Inquietante fu anche l’inerzia pluridecennale del Congresso USA, che non effettuò una propria inchiesta sull’accaduto, limitandosi a decorare il comandante della nave. Ancora più sconcertante fu il silenzio dei media americani e occidentali sulla sorte della USS Liberty, cosicché l’epopea sull’eroico Israele della guerra del 1967 non subì alcuna macchia. Se i media non riferiscono neanche fatti accertati e documentati negli archivi ufficiali, non ha senso prenderli sul serio quando ci narrano di stragi di civili da parte di Tizio o di Caio.
Sebbene nel 1967 Israele fosse già un alleato degli USA, il comportamento remissivo di Johnson e McNamara rimane difficilmente spiegabile, dato che tra alleati ci sono comunque gerarchie da rispettare; perciò, se un alleato minore si allarga troppo pensando di cavarsela con un “oops!”, l’alleato maggiore di solito lo ridimensiona, magari motivando a sua volta la propria reazione con un altro “oops!”. Il fatto che ciò non sia avvenuto, ha rappresentato oggettivamente un via libera ad Israele per qualsiasi altro crimine di guerra. Ci si può anche domandare se Israele sia davvero un “alleato” esterno degli USA, oppure un avamposto coloniale, la diretta emanazione di una lobby d’affari interna all’oligarchia statunitense. L’unica certezza riguardo ad Israele è infatti il costante flusso di denaro che vi arriva dagli Stati Uniti, della cui entità si stupisce persino la BBC. Molti hanno notato che nel suo ultimo discorso ufficiale il presidente Biden si è richiamato alla retorica di Madeleine Albright sugli USA come nazione indispensabile. In tal modo però non si va al nocciolo della dottrina Albright. Si dice spesso che tutti sono utili e nessuno è indispensabile; ma, in fondo, ognuno ha il diritto di considerarsi indispensabile, semmai il vero problema è che nessuno è utile. Il punto è che Biden agisce come un venditore di polizze che adesca il merlo proponendogli un affare: investi duecento miliardi di dollari di pubblico denaro per respingere la minaccia di Putin e di Hamas. Mentre Mussolini si limitava a dire “molti nemici, molto onore”, la dottrina della Albright e dei Neocon è: “molti nemici, molti soldi”.

Ai soldi va anche sacrificata la possibilità di una vera difesa e di una vera sicurezza, infatti il grilletto facile delle forze armate israeliane non fa alcuna discriminazione etnica, per cui i militari israeliani non esitano a spararsi tra loro e gli incidenti a riguardo sono numerosi e frequenti. Quando le vittime del “fuoco amico” sono militari, vengono effettuate delle inchieste ufficiali di cui si riesce qualche volta a sapere qualcosa. Non è molto probabile invece che vi siano delle ammissioni ufficiali quando il “fuoco amico” faccia vittime civili di nazionalità israeliana, poiché contrasterebbe con la narrazione epica di cui sopra.
Quel che risulta certo è che le “regole di ingaggio”, cioè l’autorizzazione ad aprire il fuoco, sono sempre più “permissive”. Da qualche anno i militari israeliani hanno avuto licenza di sparare non solo quando vi sia il sospetto di attacchi o infiltrazioni nemiche, ma anche per sventare semplici furti nei depositi e nei magazzini dell’esercito. A parte il fatto che i furti nei depositi militari di solito sono perpetrati proprio da militari, dal punto di vista della disciplina interna all’esercito una norma del genere è disastrosa, poiché la formula “l’avevo preso per un ladro” può essere utilizzata come comodo alibi per attuare regolamenti di conti tra commilitoni.
Questi magazzini dell’esercito in effetti devono essere spaventosamente vuoti, visto che per dotare i riservisti israeliani di protezioni personali come elmetti e giubbotti antiproiettile, si è dovuto addirittura ricorrere ad una colletta internazionale. La logica della proxy war non è esclusiva dei governi, ma ha assunto dimensioni di massa: versiamo tutti un generoso obolo per consentire all’esercito israeliano di invadere Gaza. I soldati israeliani vengono quindi adottati a distanza, come capita ai bimbi africani; in cambio però i soldati devono sentirsi moralmente impegnati ad ammazzare qualche arabo per conto del committente. Purtroppo la moralità è in decadenza e tutto quel ben di Dio di attrezzatura militare potrebbe essere rubato e finire al mercato nero.
Le situazioni sono sempre complicate, ed anche nel caso di Gaza c’è il risvolto dei potenziali affari minerari. Gaza è prospiciente su un mare che ospita un ricco giacimento di gas naturale. Per ora questa risorsa rimane inutilizzata e vari soggetti, tra cui l’Egitto, cercano di accampare diritti.
Certamente la questione del gas ha la sua importanza, ma va rilevato che l’attacco a Gaza rientra pienamente nello schema comportamentale classico di espansionismo territoriale da parte di Israele. In una recente intervista il presidente egiziano Al-Sisi ha delineato molto chiaramente questo schema quando ha avvertito che il tentativo israeliano di spingere i palestinesi di Gaza verso il deserto della penisola del Sinai, può determinare una nuova guerra tra Israele e l’Egitto. Spostando i palestinesi nel Sinai, chiaramente ci si spingerebbe anche Hamas; perciò Israele, dopo aver presa la Striscia di Gaza, potrebbe tra un po’ di tempo usare eventuali attacchi di Hamas come pretesto per invadere ed, in nome della propria sicurezza, annettersi di nuovo quel Sinai che ha lasciato nel 1979, in cambio di un sacco di soldi da parte dell’allora presidente USA Jimmy Carter. Per Israele tornare nel Sinai significherebbe controllare nuovamente la grande risorsa della zona, cioè il Canale di Suez.
 
Di comidad (del 19/10/2023 @ 00:12:07, in Commentario 2023, linkato 8294 volte)
L’approccio comparativo è importante in quasi ogni analisi, ma ci sono casi in cui potrebbe risultare fuorviante. Gli Stati Uniti ed i loro satelliti occidentali non possono più essere considerati validi termini di paragone, se non a rischio di gravi distorsioni ottiche. A confronto delle dirigenze statunitensi o europee, qualsiasi altra cricca di potere appare un incrocio tra un’Opera Pia e la Scuola di Atene dipinta da Raffaello; e rispetto ai vari Biden, Blinken, von Der Leyen e Scholz, ogni leader politico da loro criminalizzato sembra un santo e un genio. Le sedicenti élite occidentali versano in un tale stato di depravazione che si può cadere nell’errore di adottare il loro caricaturale manicheismo applicandolo all’incontrario. Stabilire gerarchie morali e antropologiche tra male assoluto e mali relativi, per molti risulta divertente, ma comunque rimane un diversivo. Quando un Putin denuncia i guasti ed i crimini combinati in Medio Oriente dagli Stati Uniti risulta persino troppo moderato ed eufemistico nei toni, ma il punto è che anche le dirigenze russe hanno svolto il loro ruolo di sponda nell’incancrenire la situazione.
Per capire di cosa si sta parlando si può partire da alcuni particolari per risalire poi al quadro generale. Nel 2007 la stampa israeliana riferiva delle gesta di una banda di nazisti, tutti di cittadinanza israeliana e di provenienza dall’ex Unione Sovietica. Ovviamente la narrazione del “Jerusalem Post” era condita di stupori ed indignazioni, oltre che di perplessità sulle norme sull’immigrazione che avevano consentito che ciò accadesse.
Quanto fosse seria quell’indignazione lo si è riscontrato nel 2018, tre anni prima della guerra per procura tra Russia e NATO, allorché il governo israeliano ignorò le proteste di un’associazione dei diritti umani che denunciava l’appoggio ed il finanziamento di Israele ai nazisti ucraini del Battaglione Azov. La spregiudicatezza dimostrata in quella circostanza era analoga a quella adottata nelle politiche di immigrazione in Israele.
Negli ultimi anni autorevoli organi di stampa israeliani come “Times of Israel” hanno riportato i dati sulla massiccia immigrazione dall’ex Unione Sovietica favorita da Gorbaciov. Dalle indagini demografiche risultava che l’identità ebraica degli immigrati non era solo dubbia, ma persino sospetta, e si cominciava a porsi domande sulla cosiddetta regola della nonna, in base alla quale bastava una nonna (o, in contrasto con la tradizione matrilineare, addirittura un nonno) di origini ebraiche per potersi qualificare come tale. Del resto un avo ebreo se lo può inventare chiunque, e non si vede come possa essere smentito senza costose ricerche anagrafiche, del tutto improponibili dato che si tratta di emigrazione di milioni di persone. Magari un antenato ebreo alla fine lo si troverebbe davvero a chiunque, dato che la purezza etnica è una chimera. Sta di fatto che oggi gli ex sovietici rappresentano il gruppo più numeroso in Israele, conservano molte delle proprie tradizioni, tra loro parlano il russo e, in base ai calcoli demografici, avranno il sopravvento elettorale entro la prossima generazione.

Questo afflusso indiscriminato in Israele di cittadini ex sovietici non risale a Gorbaciov, ma addirittura ai tempi di Stalin. Un organo sionista come “Israel for Ever” disegna un quadro epico e commovente sulla “fuga” degli “ebrei” sovietici dal cattivissimo Stalin. Nonostante le arrampicate sugli specchi e gli svolazzi retorici, un dato però si mostra evidente, e cioè che le varie dirigenze di Mosca hanno sempre considerato Israele una comoda discarica in cui riversare i soggetti indesiderati.
Il dato storico è che Mosca non è mai andata per il sottile nel favorire l’emigrazione delle persone non grate dall’Unione Sovietica, qualificandole di origine ebraica; così come Israele ha fatto finta di non accorgersi di questa incerta provenienza etnica. Il motivo della inevitabilità di tanta disinvoltura lo si scopre nelle litigate che il padre della patria israeliana, Ben Gurion, si faceva con i sionisti americani. Ben Gurion era arrabbiato poiché i suoi confratelli americani, nonostante vantassero inoppugnabili origini Yiddish, pretendevano di fare i sionisti a distanza, senza stabilirsi in Israele come lui avrebbe voluto. Insomma, Ben Gurion se la prendeva con quel tipico “armiamoci e partite” che è diventato oggi il mantra dei cultori del Sacro Occidente e delle loro “proxy war”.
Non c’è tragedia che non abbia un risvolto cialtronesco e ridicolo. Nel 2006, durante l’invasione israeliana del Libano, il giornalista Paolo Guzzanti trasformò il “vorrei ma non posso” dei cultori delle proxy war in un accorato inno in cui si esortava Israele a colpire i suoi nemici ovunque fossero. Purtroppo in quell’occasione i trentamila attaccanti israeliani non riuscirono ad accontentare Guzzanti e dovettero ritirarsi a causa delle perdite loro inflitte da tremila miliziani di Hezbollah.
Dato che i nemici hanno quel brutto vizio di reagire e di ammazzare, allora il buonsenso suggerirebbe di non dare retta agli istigatori a distanza e cercare invece un compromesso per trovare un modus vivendi. Purtroppo non dipende solo dalla buona volontà ma soprattutto da chi controlla i soldi, che sono quelli che plasmano la volontà, sia gestendo la narrativa, sia determinando il fatto compiuto che rende difficilissimo fare marcia indietro. La stampa israeliana segnala spesso che sta crescendo la totale dipendenza del presunto “Stato ebraico” dai flussi finanziari che provengono dai gruppi evangelici statunitensi. In Israele Netanyahu è universalmente riconosciuto come un imbecille, uno psicopatico ed un supercorrotto, eppure da più di venticinque anni vince le elezioni grazie al suo legame con gli evangelici americani. Di provenienza americana ed evangelica è il denaro che finanzia gli insediamenti coloniali in Cisgiordania, con tutto il corollario di ammazzamenti di palestinesi che gli insediamenti comportano. In base al mitico Diritto internazionale quei finanziamenti dovrebbero essere impediti perché diretti a sovvenzionare l’attuazione di un crimine; ma è chiaro che la legalità vale solo se fa comodo ai potenti.
Si potrebbe pensare che il “sionismo cristiano” sia un fenomeno recente. La ricerca storica ha invece scoperto che il copyright ce l’ha proprio il sionismo cristiano, che è addirittura precedente di due secoli al sionismo ebraico di Theodor Herzl, cosa che toglie ogni argomento a chi afferma che antisemitismo ed antisionismo siano la stessa cosa. Il sionismo cristiano in Gran Bretagna ha una storia molto antica, che risale addirittura al XVII secolo. Secondo il mito, il ritorno degli ebrei in Terra Santa dovrebbe forzare la mano al Padreterno ed accelerare la fine dei tempi con la guerra finale tra il Bene ed il Male. Nella concezione apocalittico-cristiana del sionismo agli ebrei è riservato il lavoro sporco ed anche una sorte abbastanza grama. L’influenza del sionismo cristiano di matrice britannica fu determinante nella vicenda della Dichiarazione di Balfour del 1917, con la quale il ministro degli Esteri del Regno Unito riconosceva agli ebrei il diritto di una patria in Palestina. Secondo Gershon Shafir, docente presso l’Università di San Diego in California, il sionismo cristiano corrispondeva all’esigenza dell’imperialismo britannico di usare il mito del ritorno ebraico in Palestina come pretesto per creare degli avamposti coloniali nell’area mediorientale.
Uno storico israeliano come Shlomo Sand arriva addirittura a mettere in discussione la stessa nozione di popolo ebraico, documentando che si tratterebbe di una "invenzione" molto più tarda di quanto si creda. Anche al di là di tali ipotesi, l'identità ebraica di Israele si rivela evanescente. Ma, se opportunamente finanziata, una bolla identitaria può comunque giustificare l'apartheid e la guerra infinita.
 
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


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