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Cos’è peggio per il sionismo in termini di comunicazione? Che si possa criticare liberamente Israele, oppure associare la propria immagine a quella di Maurizio Gasparri? La risposta dovrebbe essere ovvia, eppure il sionismo ufficiale ha dato il suo pieno appoggio al DDL Gasparri, che da un lato identifica l’antisionismo con l’antisemitismo, ma dall’altro lato identifica la difesa del sionismo con la faccia di esponenti della fintocrazia, cioè personaggi privi di una propria consistenza, e che si accreditano solo in quanto cheerleader del potente di turno. Il fatto che la politica non abbia più iniziativa propria ma si muova solo per sollecitazioni lobbistiche, comporta l’impossibilità di produrre una propaganda narrativamente coerente, e quindi il ripiego su spot pubblicitari ad hoc. In questi spot si verifica però uno strano rovesciamento della logica pubblicitaria: non è più il testimonial dello spot a trasmettere la propria credibilità al prodotto, ma è il prodotto a dover accreditare il testimonial, con l’effetto scontato di deteriorare ulteriormente l’immagine di entrambi. Una sorta di suicidio iconografico.
Anche il contenuto dello spot è un controsenso pubblicitario; visto che è diventato impossibile parlare bene del prodotto, allora si vorrebbe impedire di parlarne male. Gasparri ha trovato emuli e imitatori anche all’interno del PD. D’altra parte c’è nella cosiddetta “sinistra” una tradizione di politicamente corretto che ha aggirato e raggirato la mitica certezza del diritto, inventando i reati d’odio.
In base al DDL proposto da Gasparri, sarebbe antisemita chi mette in discussione il diritto di Israele a esistere; ma l’esistere è indissociabile dal definirsi. Nel momento in cui Israele non si decide a dichiarare i propri confini, e neppure dove dovrebbero fermarsi le proprie aspirazioni territoriali, è Israele stesso a negarsi il diritto di esistere; e non solo perché sta minacciando i suoi vicini di muovergli una guerra infinita, ma soprattutto perché sta minacciando le tasche del contribuente americano, che dovrebbe sostenere i costi infiniti di questo espansionismo illimitato. Probabilmente dire “Israele” è ormai una semplificazione eccessiva, dato che i coloni sono diventati un potere a sé stante, dotato di propri armamenti e di propri canali di finanziamento; d’altra parte le varie fazioni del sionismo hanno comunque un denominatore comune, che non è solo la violenza sanguinaria ma anche la voracità finanziaria. Così ci si spiega una destra americana che da filo-sionista diventa sempre più antisionista; perché si è insinuato il sospetto che Israele non sia altro che la proiezione di una cleptocrazia, cioè un pretesto per derubare i contribuenti. Il termine “contribuente” ormai si identifica con i ceti più poveri, dato che i ricchi eludono sempre più il fisco, sia grazie alla mobilità dei capitali, sia per i continui sgravi di imposta concessi alle corporation a causa della crescente concorrenza fiscale tra gli Stati; concorrenza anch’essa dovuta alla mobilità dei capitali. La fiaba liberista spaccia la mobilità dei capitali come una Provvidenza che fluttua per il pianeta ad offrire opportunità e a premiare i virtuosi; nella realtà invece la mobilità dei capitali ha sradicato completamente le oligarchie dalle proprie popolazioni, per cui le oligarchie sono diventate cleptocrazie integrali. ... Continua a leggere...
Sta circolando una narrazione secondo la quale l’amministrazione Trump starebbe cercando una via negoziale per uscire dal conflitto in Ucraina, mentre i paesi europei si sarebbero fossilizzati in una posizione bellicista senza sbocco. La premessa di questa narrazione appare inconsistente, dato che gli USA non hanno attualmente la competenza e la determinazione per condurre un negoziato. Il regime russo lo sa benissimo, ma la sua propaganda è impostata su un’immagine di equilibrio e ragionevolezza, perciò Putin non può negarsi a incontri diplomatici, per quanto avviati dagli USA all’insegna della cialtroneria. La propaganda è uno strumento tipico dei regimi ancora in grado di esprimere una mediazione interna e una sintesi politica, mentre negli USA e in Europa la cosiddetta politica procede in base ai colpi di mano ed ai fatti compiuti delle lobby d’affari, per cui non può esserci una propaganda dotata di un filo narrativo unico, ma soltanto spot pubblicitari in funzione di questo o quel business. I governi europei devono far finta di prepararsi ad un conflitto con la Russia perché ciò consente di far circolare qualche centinaio di miliardi per le solite cosche d’affari. Un vero riarmo infatti non è una semplice questione di soldi e appalti, ma riguarda il mettere in campo una serie di risorse in termini di energia, materie prime e impianti. Nel mitico riarmo europeo non si scorge nulla del genere, e la pubblicistica UE a riguardo è, non a caso, fondata su scarsi dati concreti e moltissime elucubrazioni geopolitiche.
Ci si narra anche che le oligarchie europee sarebbero preoccupate che gli USA abbandonino l’Europa, e che la fine della tutela americana possa determinare un riaccendersi dei conflitti intra-europei. Qui la fiaba vale addirittura doppio, dato che per gli USA in primis la NATO è una cosca d’affari, cioè uno dei principali veicoli per vendere armi; quindi è assolutamente irrealistico che gli USA rinuncino alla NATO. Ancora più contrario all’evidenza è che, in assenza della NATO e degli USA, i conflitti in Europa possano riaccendersi, dato che questi conflitti non sono mai cessati. L’anno scorso c’è stato il cinquantenario dell’invasione turca di Cipro, che comportò uno scontro militare tra Grecia e Turchia, paesi entrambi aderenti alla NATO dal 1952. In seguito alla sconfitta militare, cadde anche il regime dei colonnelli, insediatosi in Grecia dal 1967, ad onta dell’altra fiaba secondo la quale l’appartenenza alla NATO sarebbe una garanzia di democrazia e di Stato di Diritto. ... Continua a leggere...
I rituali della fintocrazia prevedono che ogni tanto vi sia un conflitto istituzionale simulato, una tempesta in un bicchier d’acqua che consenta al fantoccio di turno di recitare la parte dell’impavido nocchiero. Quando si tratta di concedere a Giorgia qualche attimo di fittizio protagonismo, il presidente Mattarella si dimostra paterno e comprensivo; l’importante è che sia lui a comandare. Lo si è visto alla riunione del Consiglio Supremo di Difesa del 17 novembre scorso, dove la linea l’ha dettata lui, con Crosetto in funzione di maggiordomo. Il Consiglio presieduto da Mattarella ha rilasciato un documento finale in cui si denuncia la “minaccia ibrida” della Russia, e di altre potenze ostili, ai nostri processi democratici ed alla nostra coesione sociale. Molti hanno interpretato queste dichiarazioni come la manifestazione dell’intento di limitare ulteriormente la libertà di espressione. Sicuramente è così, ma non è questo l’elemento più rilevante da notare in dichiarazioni del genere, che rappresentano invece l’esplicita confessione di non detenere più il primato in ciò che, quando proviene dal campo occidentale, viene definito “soft power”. Secondo Mattarella e soci, il rischio è che la Russia riesca ad esercitare sulla nostra popolazione più fascinazione della NATO e dell’UE. Si tratta di un’ammissione piuttosto grave. Si vorrebbe farci credere che il motivo della fascinazione esercitata da Putin stia nella perfida abilità dei suoi troll. In realtà il crollo del soft power ha cause esclusivamente interne al cosiddetto Occidente.
In un’intervista del 2017, rilasciata un paio di mesi prima di morire, Zbigniew Brzezinski, politologo ed ex consigliere per la sicurezza nazionale, osservava che l’amministrazione Trump, da poco insediata, disinvestiva dal dipartimento di Stato e, contemporaneamente, aumentava le spese militari. Secondo Brzezinski non ci sarebbe in sé niente di sbagliato nel fare in certi momenti più affidamento sulla componente hard della potenza invece che su quella soft; il problema era semmai che nelle dichiarazioni e nelle azioni di Trump non si intravedeva alcun obbiettivo preciso, quindi nulla di serio. A detta di Brzezinski, gli USA si caratterizzavano ormai come una sorta di paese delle meraviglie, nel quale la comunicazione ufficiale diventa estemporanea e mira più a stupire e divertire che a indicare strategie. In base a ciò che diceva Brzezinski, si deve dedurre che alla maggiore spettacolarizzazione della politica negli USA non corrisponderebbe un aumento del soft power, semmai il contrario.
Nel 2017 ricorreva anche il trentennale della pubblicazione dell’opera più famosa di Brzezinski, “La Grande Scacchiera”; un testo nel quale si cercava di delineare una strategia per gli USA del dopo guerra fredda. Anche se il testo appare ricco di riferimenti, il suo messaggio fondamentale si riduce però al solito assioma, secondo il quale, per conservare la propria supremazia, gli USA dovrebbero impedire l’emergere nell’area asiatica di potenze, o blocchi di potenze, in grado di opporsi al dominio americano. In pratica si trattava di un progetto di balcanizzazione dell’Asia dietro l’alibi ideologico della democrazia e dei diritti umani. Pare proprio che Brzezinski confondesse il “divide et impera” con il destabilizzare e mettere zizzania; lo stesso equivoco che ha condotto al suicidio l’impero britannico. ... Continua a leggere...
Dopo una lunga malattia, all'età di 75 anni, è morto (20/11/2025) il compagno Peppe Tassone. Giovanissimo si era trasferito a Parigi per sottrarsi al servizio militare. Lì era entrato in contatto con i compagni spagnoli della C.N.T. in esilio e con quelli dell’O.R.A. (Organisation Révolutionnaire Anarchiste), nella storica sede di rue des Vignoles 33.
Con questi compagni aveva condiviso l’entusiasmo libertario che aveva fatto seguito alle rivolte del 1968.
Tornato a Napoli nei primi anni ‘70, era stato tra i fondatori e tra i principali animatori del gruppo comunista-anarchico Kronštadt. Il nome del gruppo fu scelto su sua proposta, come richiamo ad un episodio storico di critica delle degenerazioni dispotiche e burocratiche del bolscevismo, ma da radici e motivazioni classiste, senza cedimenti alle mistificazioni del liberalismo. Peppe contribuì infatti ad imprimere al gruppo un orientamento decisamente classista, ma fu anche capace di tenere insieme le spinte più movimentiste con quelle anarco-sindacaliste. Insieme con altri, Peppe cercò anche di recepire le istanze operaiste e organizzative del piattaformismo anarchico rimanendo nella tradizione malatestiana. Nel giro di pochi anni, il gruppo Kronštadt, che aderiva alla F.A.I., divenne un punto di riferimento per l’anarchismo napoletano, sia per la consistenza numerica, sia per il rilievo politico. Per questi motivi la collaborazione con il Kronštadt era cercata anche da gruppi della sinistra rivoluzionaria di estrazione ideologica radicalmente diversa.
La sua militanza in Francia permise ai compagni del gruppo di confrontarsi con esperienze anarchiche di più ampio respiro, ma anche con realtà operaie locali con cui Peppe aveva stretto rapporti di fiducia (Mecfond, Olivetti, Enel). Peppe non trovava alcuna difficoltà a farsi ascoltare da tutti; anzi, i suoi interventi erano sempre richiesti e seguiti con attenzione, tanto che era lo stesso Peppe a stroncare con fulminanti cenni di ironia e autoironia ogni rischio di creare sudditanza psicologica. Il suo caustico umorismo era infatti diventato leggendario. Lo stesso umorismo con cui ha affrontato coraggiosamente la malattia e la sofferenza.
Alla Biblioteca Nazionale di Napoli, esiste un fondo Giuseppe Tassone che conserva alcuni documenti relativi a quegli anni.
Su You Tube c’è una sua intervista rilasciata ad Enrico Voccia.
A lui va il nostro ricordo affettuoso.
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