I rituali della fintocrazia prevedono che ogni tanto vi sia un conflitto istituzionale simulato, una tempesta in un bicchier d’acqua che consenta al fantoccio di turno di recitare la parte dell’impavido nocchiero. Quando si tratta di concedere a Giorgia qualche attimo di fittizio protagonismo, il presidente Mattarella si dimostra paterno e comprensivo; l’importante è che sia lui a comandare. Lo si è visto alla
riunione del Consiglio Supremo di Difesa del 17 novembre scorso, dove la linea l’ha dettata lui, con Crosetto in funzione di maggiordomo. Il Consiglio presieduto da Mattarella ha rilasciato un documento finale in cui si denuncia la “minaccia ibrida” della Russia, e di altre potenze ostili, ai nostri processi democratici ed alla nostra coesione sociale. Molti hanno interpretato queste dichiarazioni come la manifestazione dell’intento di limitare ulteriormente la libertà di espressione. Sicuramente è così, ma non è questo l’elemento più rilevante da notare in dichiarazioni del genere, che rappresentano invece l’esplicita confessione di non detenere più il primato in ciò che, quando proviene dal campo occidentale, viene definito “soft power”. Secondo Mattarella e soci, il rischio è che la Russia riesca ad esercitare sulla nostra popolazione più fascinazione della NATO e dell’UE. Si tratta di un’ammissione piuttosto grave. Si vorrebbe farci credere che il motivo della fascinazione esercitata da Putin stia nella perfida abilità dei suoi troll. In realtà il crollo del soft power ha cause esclusivamente interne al cosiddetto Occidente.
In
un’intervista del 2017, rilasciata un paio di mesi prima di morire, Zbigniew Brzezinski, politologo ed ex consigliere per la sicurezza nazionale, osservava che l’amministrazione Trump, da poco insediata, disinvestiva dal dipartimento di Stato e, contemporaneamente, aumentava le spese militari. Secondo Brzezinski non ci sarebbe in sé niente di sbagliato nel fare in certi momenti più affidamento sulla componente hard della potenza invece che su quella soft; il problema era semmai che nelle dichiarazioni e nelle azioni di Trump non si intravedeva alcun obbiettivo preciso, quindi nulla di serio. A detta di Brzezinski, gli USA si caratterizzavano ormai come una sorta di paese delle meraviglie, nel quale la comunicazione ufficiale diventa estemporanea e mira più a stupire e divertire che a indicare strategie. In base a ciò che diceva Brzezinski, si deve dedurre che alla maggiore spettacolarizzazione della politica negli USA non corrisponderebbe un aumento del soft power, semmai il contrario.
Nel 2017 ricorreva anche il trentennale della pubblicazione dell’opera più famosa di Brzezinski,
“La Grande Scacchiera”; un testo nel quale si cercava di delineare una strategia per gli USA del dopo guerra fredda. Anche se il testo appare ricco di riferimenti, il suo messaggio fondamentale si riduce però al solito assioma, secondo il quale, per conservare la propria supremazia, gli USA dovrebbero impedire l’emergere nell’area asiatica di potenze, o blocchi di potenze, in grado di opporsi al dominio americano. In pratica si trattava di un progetto di balcanizzazione dell’Asia dietro l’alibi ideologico della democrazia e dei diritti umani. Pare proprio che Brzezinski confondesse il “divide et impera” con il destabilizzare e mettere zizzania; lo stesso equivoco che ha condotto al suicidio l’impero britannico.
Ciò che Brzezinski imputava a Trump (la mancanza di strategia) poteva essere contestato anche a lui. Il primo punto debole delle sue teorie è la sottovalutazione dei costi dell’imperialismo, cioè quanto deve pagare il contribuente americano per destabilizzare altri paesi; ma, soprattutto, quanti degli investimenti nella balcanizzazione altrui comportano un profitto, oppure si risolvono solo in ulteriore spesa pubblica. Un esempio di sovraestensione della NATO dai costi certi e dai vantaggi aleatori, è
la partnership con l’Azerbaigian. Ci si può raccontare che l’Azerbaigian è ai confini della Russia e dell’Iran e quindi risulta un’ottima testa di ponte per attaccarli; come in effetti è avvenuto nel giugno scorso con l’attacco israeliano all’Iran. Allo stesso modo ci si può convincere che l’Azerbaigian, in quanto importante produttore di petrolio, potrebbe rappresentare una risorsa per la sicurezza energetica dei paesi NATO. Ciò significa anche che il governo di Baku dispone, grazie al petrolio, di parecchi soldi con cui comprare armi dai paesi NATO; quindi ottime notizie per la cleptocrazia militare. Il problema riguarda però la strutturale debolezza dell’Azerbaigian, che ha un territorio poco esteso ed un’economia basata su pochissime infrastrutture fondamentali. Nell’epoca della tecnologia missilistica non ci sarebbe neanche bisogno di occupare un paese del genere, ma lo si potrebbe neutralizzare a distanza. Il punto è che l’Azerbaigian va bene come amico della NATO per vendergli armi, e per compiere provocazioni e attentati contro Russia e Iran; ma strategicamente è un peso, un costo eccessivo per il contribuente, che la vendita di armi non può compensare, anche perché in caso di guerra occorrerebbe dare le armi a credito senza la certezza di essere poi pagati, come è avvenuto con l’Ucraina.
Nel caso dell’Ucraina è stato evidente che l’imperialismo non riesce ad autofinanziarsi, per cui l’assistenza ai proxy è stata a spese del contribuente americano ed europeo. L’Unione Europea si è imbarcata nell’affare sperando di poter partecipare alla spartizione delle risorse minerarie russe; sta di fatto che finora ha dovuto soltanto rinunciare alle forniture a basso costo da parte della Russia.
Il secondo punto debole delle teorie di Brzezinski stava nel ritenere che il soft power americano consistesse nella democrazia e nei diritti umani. Non è così: democrazia e diritti umani costituivano al massimo il decorativo della torta. L’attrattività degli USA consisteva nel miraggio di poter diventare ricchi come sembravano essere gli americani, non poveri come invece sono diventati oggi. Certo, la ricchezza americana era gonfiata dalla rappresentazione mediatica e negli USA ci sono sempre state vaste fasce di povertà; ma il fatto nuovo dell’ultimo trentennio è un processo di impoverimento crescente, che non conosce pause, e che comporta
la riduzione inesorabile della “middle class”.
Si potrebbe obiettare che gli USA attirano ancora molti immigrati; sì, ma questi migranti non sono attratti dalla prospettiva di diventare americani, bensì dalla sproporzione nel cambio tra il dollaro e le deprezzate valute dei paesi di provenienza; un cambio grazie al quale possono mantenere le famiglie di origine. A differenza che nel passato, gli immigrati attuali non si assimilano e non vogliono assimilarsi in una società non più in grado di garantire una soglia minima di benessere.
Il potere del denaro non sta solo nel comprare, ma anche nella capacità di suggestionare e illudere. Per rendere più efficace questa illusione di ricchezza e benessere, si prende per testimonial pubblicitario la figura di un miliardario come Trump. Da presidente, oggi e nel precedente mandato, Trump fa la stessa politica bellicista dei neocon; ma, per farsi eleggere, ha dovuto promettere falsamente che avrebbe seguito la politica contraria, cioè di evitare le guerre e di perseguire il benessere interno. Trump cerca di mascherare il suo bellicismo con l’inflazione dei piani di pace, immancabilmente conditi da fantasie porno su mega-business da allestire sulle macerie di questo o quel paese; ma si tratta di operazioni di pubbliche relazioni dal fiato corto. Il bellicismo delle cleptocrazie americane ed europee è del tutto comprensibile, visto che l’imperialismo comporta trasferimenti di pubblico denaro verso i loro affari; ed oggi il principale contribuente è quello povero, quello che paga le accise e le altre imposte sui consumi, e non può rivalersi su nessuno. A parte i cleptocrati delle multinazionali e della politica, la massa dei cittadini europei e americani risulta solo spremuta e impoverita dal costo delle guerre. E la povertà non esercita soft power.