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SE NON HANNO PANE CHE MANGINO GERARCHIE
Di comidad (del 28/01/2021 @ 00:09:50, in Commentario 2021, linkato 7047 volte)
Agli inizi del 2016 la stampa diffuse la notizia che un film biografico sul campione olimpico Jesse Owens, vincitore di quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi di Berlino del 1936, ripristinava la verità storica sul famoso aneddoto secondo cui Hitler si sarebbe rifiutato di stringere la mano al “negro” Owens. Sulla base della testimonianza e dei documenti fotografici forniti dallo stesso Owens, si è potuto ricostruire che in realtà Hitler strinse la mano al campione olimpico statunitense; fu invece proprio il presidente USA Franklin Delano Roosevelt a rifiutarsi di ricevere Owens alla Casa Bianca.
Le anticipazioni di stampa sul film furono poi smentite dai fatti, poiché si vide che la trama di “Race” continuava ad attenersi alla vecchia e falsa versione ufficiale, e non faceva alcun cenno alla discriminazione da parte di Roosevelt. I produttori di “Race” avevano investito una montagna di soldi, per cui non potevano correre il rischio di ritrovarsi il film emarginato dalla distribuzione. Anche tutti i tentativi di Owens di convincere i giornalisti a pubblicare la vera versione dei fatti, avevano ottenuto solo comprensione umana, poiché nessun giornalista se l’era sentita di giocarsi la carriera narrando di un Roosevelt più razzista persino di Hitler.
Eppure quegli avvenimenti, se inquadrati storicamente, risultano del tutto logici. Hitler non aveva nulla da perdere a compiere quel gesto ipocrita di stringere la mano ad Owens; anzi aveva tutto l’interesse a non sollevare incidenti diplomatici e ad accreditare l’immagine rassicurante che la Germania nazista voleva offrire di sé nel 1936. Al contrario, Roosevelt con quell’ipocrisia avrebbe irritato il suo elettorato democratico del Sud, che era rigidamente segregazionista. Oggi negli USA il Partito Democratico è il partito delle minoranze etniche, ma sino agli anni ‘50 era stato molto più zelante del Partito Repubblicano nel difendere le leggi segregazioniste. Ciò fa comprendere quanto sia ridicolo da parte dei commentatori europei attribuire le categorie ideologiche di destra e sinistra ai partiti statunitensi, che sono meri comitati elettorali.
L’intervento statunitense nella seconda guerra mondiale non assunse alcuna connotazione ideologica in senso antirazzista, e le regole segregazioniste rimasero in vigore all’interno delle forze armate. Quella connotazione ideologica antirazzista fu attribuita solo a posteriori in funzione della guerra fredda e del confronto ideologico con il comunismo sovietico. Alla vigilia di un intervento militare nel Sud-Est asiatico, gli USA non potevano più permettersi di concedere alla propaganda sovietica quell’argomento sul razzismo americano, che sarebbe stato molto efficace nei confronti di popoli di colore.

Kennedy e il suo successore Johnson formalizzarono l’abolizione delle leggi segregazioniste. Nonostante le resistenze violente da parte dei segregazionisti, il processo riuscì ad andare avanti, e non solo per gli interessi imperialistici in gioco, ma anche per un motivo interno alla società statunitense. Lo sviluppo economico consentiva infatti un aumento dei redditi ed un ascensore sociale agli americani “bianchi”, per cui le gerarchie erano comunque preservate e garantite dal divario nell’incremento del reddito, in media decisamente più basso per le minoranze etniche, che vedevano comunque anch’esse un certo miglioramento delle proprie condizioni.
Dal punto di vista delle oligarchie quella crescita del reddito dei ceti più bassi fu percepita però come un pericolo per l’assetto gerarchico, poiché per i ricchi il divario razziale non si focalizza sul colore della pelle ma soprattutto sulla ricchezza: sono i poveri ad essere considerati la razza inferiore, cioè la differenza di reddito segna la superiorità o l’inferiorità anche sul piano antropologico. Il “disagio” dei ricchi fu espresso in un documento della Commissione Trilaterale del 1975, “La Crisi della Democrazia”, un vero e proprio manifesto del vittimismo padronale. Ad essere sotto accusa nel documento non era realmente la “democrazia”, che non è mai esistita, bensì quella mediazione politica che aveva consentito ai redditi più bassi di crescere. Era quindi lo sviluppo economico a dover essere frenato, in modo da impoverire le classi subalterne, mentre l’accumulo delle ricchezze dei pochi doveva essere assicurato dalla finanza.
Già alla fine degli anni ’70 l’incremento del reddito delle classi medie e lavoratrici si arrestò e, con la vittoria statunitense nella guerra fredda, si è avviato un processo inverso, addirittura di pauperizzazione. Da circa trenta anni il reddito degli americani “bianchi”, la cosiddetta “middle class”, che negli USA si identifica in gran parte con la classe lavoratrice, tende a precipitare e ad avvicinarsi pericolosamente a quello delle minoranze etniche. Ecco che allora rinasce prepotentemente il problema per i bianchi poveri di “essere almeno meglio dei negri e degli ispanici”.

Nella società gerarchica il non discriminare le minoranze diventa così un lusso, o un vezzo, di chi sta ai vertici della gerarchia sociale, mentre il “popolo” non può più permettersi di non discriminare, se non a prezzo di declassarsi nella scala gerarchica. Il politicamente corretto affronta il dramma della “middle class” con un analogo schema gerarchico, ma ci aggiunge anche un tocco simile a quello della infelice battuta ingiustamente attribuita alla ignara e inconsapevole Maria Antonietta: “Se non hanno pane, perché non mangiano brioche?”. Dalla “middle class” che vede sprofondare le sue aspettative di benessere, il politicorretto pretenderebbe infatti che non rimanga attaccata al proprio passato, che non sia nazionalista e “reazionaria”, bensì che diventi aperta, progressista come i miliardari filantropi.
All’animabellismo dei politicorretti si è falsamente “contrapposto” l’animabruttismo del cialtrone Trump, che però, guarda caso, è anche lui un miliardario e un oligarca, quindi un “santo” della religione politicorretta; perciò anche il suo “rimedio” è consistito nel beneficare i ricchi, perché potessero, bontà loro, dar lavoro ai poveri.