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Mai sottovalutare le riscoperte dell’acqua calda. La prima ovvietà da considerare è l’assurdo di un premio Nobel per la pace assegnato da un organo politico di un paese che fa parte di un’alleanza militare. La Norvegia è un membro della NATO e ne persegue la politica “occidentalista” (eufemismo di suprematismo bianco) anche attraverso le pubbliche relazioni, nel cui ambito c’è da annoverare appunto il premio Nobel. Il premio è stato negato a Trump, ma non per voler fargli torto, bensì per istigarlo a proseguire sulla strada dell’aggressione economica e militare al Venezuela. Magari a qualcuno del Pentagono potrebbe sorgere il timore che gli USA si stiano sovraesponendo sul piano militare; meno male che arrivano gli europei a presentare il regime di Maduro come una minaccia intollerabile alla sopravvivenza dell’umanità. La signora insignita del Nobel, Maria Corina Machado, peraltro è entusiasta di Trump e ne appoggia gli obbiettivi e i metodi, quindi le stanno bene le sanzioni, i tentativi di colpo di Stato e di decapitazione del regime; e persino l’attività di calunniatore e assassino nei confronti di persone che navigano su piccole imbarcazioni a grande distanza dalle coste del Venezuela.
Era prevedibile e scontato anche il plauso di Roberto Saviano per il riconoscimento assegnato ad una delle principali esponenti della cosiddetta “opposizione” (un altro eufemismo che sta per golpismo) al regime di Maduro, il quale sarebbe corruzione mascherata da socialismo. Magari un giorno Saviano ci rivelerà quale sia a questo mondo il regime non corrotto. Più realisticamente occorrerebbe dire che ci sono regimi della cui corruzione è lecito e conveniente parlare, e regimi della cui corruzione non è il caso di parlare troppo se non vuoi guai, visto che sono quelli che comandano dalle nostre parti. ... Continua a leggere...
Al di là dei contesti radicalmente diversi, si può riconoscere lo schema ricorrente, l’invarianza; che in questo caso è la cosiddetta “arte di governo”, ovvero l’eludere le proprie responsabilità tramite il vittimismo, la contrapposizione pseudo-ideologica e la gazzarra da talk-show. L’arte di governo è trasversale ai vari governi ed ai differenti schieramenti politici, che convergono nella pratica di non precisare i confini tra lecito e illecito. La trasparenza della contestazione e della sanzione dell’eventuale illecito viene sostituita con una generica colpevolizzazione dei cittadini, con la quale giustificare pressioni indebite, terrorismo psicologico e discriminazioni. In epoca psicopandemica si è costruito su queste basi di incertezza giuridica e linguistica una sorta di virtuale obbligo vaccinale, la cui attuazione è stata condotta con strumenti arbitrari di limitazione dei diritti civili. Persino quando l’obbligo vaccinale è stato apparentemente proclamato per legge, si è però continuato nella farsa di voler estorcere la firma al “consenso informato”, negando la somministrazione del siero a coloro che volevano aderire all’obbligo manifestando chiaramente il proprio dissenso. L’ossimoro dell’obbligo che presuppone il consenso, è stato però avallato e santificato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 14/2023, per cui si è creata una sorta di giurisprudenza in funzione dell’irresponsabilità del governo e della colpevolizzazione generica del cittadino comune. Lo schema funziona all’incontrario del famoso aforisma dell’Uomo Ragno, perché più potere si ha e più si riesce a scaricare sugli altri ogni responsabilità. Non c’è da stupirsi che la nostra Consulta si sia avventurata in tali forzature del senso logico, visto che in precedenza aveva persino riformato l’aritmetica, stabilendo che la maggioranza elettorale non è il 50% +1, bensì il 40%. “Costituzionalista” è diventato infatti sinonimo di ciarlatano.
La vicenda sui contrasti tra il governo Meloni e gli attivisti umanitari in navigazione verso Gaza ha seguito un percorso analogo di sistematica evanescenza dei confini giuridici e linguistici: la “legalità” può proclamare una cosa e il suo contrario, e la comunicazione fa a meno della sintassi, per cui è possibile esprimersi con interiezioni intimidatorie, come “complottista!”, “no-vax!”, “Hamas!”, “7 ottobre!”. Tra le navi degli attivisti umanitari diretti verso Gaza che sono state abbordate dagli israeliani, risultano ben tre vascelli battenti bandiera italiana, sui quali quindi il nostro governo aveva piena giurisdizione. Se il comportamento degli attivisti della flottiglia in acque internazionali avesse configurato un qualunque illecito, il governo Meloni, che ha giurisdizione su queste navi, avrebbe dovuto intervenire per prevenire imbarazzi ed incidenti con il governo israeliano. Se invece non c’era illecito da parte delle navi battenti bandiera italiana, queste andavano tutelate da abusi commessi da governi stranieri. Il governo a guida “sovranista” e i suoi media di supporto hanno scelto invece la strada della colpevolizzazione generica, dei proclami fumosi e della fuga dalla responsabilità; anzi, il nostrano club degli amici del genocidio ha addirittura auspicato che fosse Israele a fare da castigamatti nei confronti di cittadini italiani. ... Continua a leggere...
La storia dei droni e jet di Putin sulla Polonia e sull’Estonia ha suscitato in molti una struggente nostalgia per i bei tempi di una volta, quando gli UFO venivano avvistati nei cieli e gli ufologi erano chiamati a illuminarci su cosa accadeva. La narrativa ufologica, pur ricca di aneddotica, alla fine però rimandava sempre al mistero, come i telefilm della serie “X Files” che, dopo tanto narrare, lasciavano quasi tutte le domande in sospeso. Di Putin invece, grazie ai nostri media, sappiamo tutto: i piani strategici, i desideri repressi, i pensieri nascosti, le intenzioni recondite e i sogni segreti; ma, soprattutto, ne conosciamo alla perfezione la cartella clinica, di cui non ci sfugge nulla. Massimo D’Alema era stato messo alla gogna a causa della sua presenza alla sfilata militare di Pechino per celebrare la vittoria sul Giappone nella seconda guerra mondiale; ma lo scaltro D’Alema ha trovato il modo di rilanciare le sue quotazioni offrendo in pasto ai media la notizia da loro più ambita, cioè succosi dettagli, da lui raccolti in prima persona, sul precario stato di salute di Putin.
L’euforia mediatica per la prospettiva di un Putin moribondo rientra comunque nel mito costruito attorno al personaggio, come se l’eccezionalità, in positivo o in negativo, appartenesse alla sua figura e non a quella del suo predecessore, Boris Eltsin, il russo più amato dal Fondo Monetario Internazionale, e quindi dai media euro-americani. Noto ai più per il suo alcolismo e per il bombardamento del parlamento russo, Eltsin ha caratterizzato la sua presidenza appunto per il rapporto speciale da lui intrattenuto con il FMI, di cui era un beniamino e da cui ha ricevuto direttive e prestiti. La Russia fu ammessa formalmente nel FMI nel 1992. Sei anni dopo gli osservatori registravano il “fallimento” del FMI nel “salvare” la Russia, per cui ogni prestito da parte della prestigiosa istituzione finanziaria internazionale portava regolarmente a disastri ed a nuovi prestiti, quindi ad un indebitamento crescente. All’epoca uno studio della Heritage Foundation (l’influente “think tank” conservatore con sede a Washington) rimproverava al FMI un eccesso di generosità, facendo capire che le corporation statunitensi speravano invece in un crollo totale della Russia per poterla finalmente smembrare in tanti staterelli-feudi delle multinazionali.
Nella vita infatti ci sono anche le botte di fondoschiena. Nel 2000 un Putin appena insediato alla presidenza, accoglie a Mosca una delegazione del FMI per cercare di ottenere un altro prestito. Fortuna vuole che, a causa delle pressioni della Heritage Foundation, il FMI stavolta sospenda il programma di “salvataggio” della Russia deciso l’anno prima e neghi il prestito. Ritrovatasi improvvisamente senza i “salvataggi” del FMI, la Russia un po’ alla volta si salverà sul serio. La Russia deve quindi la sua salvezza non a Putin, ma alla inconsapevolezza della Heritage Foundation. Solo chi faccia parte di un “think tank” americano può essere talmente deficiente da credere che il FMI possa davvero salvare qualcuno. ... Continua a leggere...
L’accordo di mutua difesa firmato da Arabia Saudita e Pakistan lo scorso 17 settembre ha precedenti storici abbastanza noti, dato che è stata proprio la petro-monarchia di Riad a finanziare il programma nucleare militare pakistano, ufficializzato nel 1998. D’altra parte occorre considerare la tempistica dell’annuncio di tale accordo, che arriva pochi giorni dopo l’attacco israeliano al Qatar, sebbene la petro-monarchia di Doha ospiti una grande base militare degli Stati Uniti. In altre parole, l’inaffidabilità degli USA ha costretto il regime saudita a diversificare i “fornitori di sicurezza” ed a favorire l’ingresso di un nuovo soggetto nell’area medio-orientale; il Pakistan, appunto. Il regime di Islamabad ha ufficialmente buoni rapporti con gli USA, quindi il suo ingresso nell’area medio-orientale non assume il carattere di una sfida dichiarata al presunto “ordine” statunitense, sebbene oggettivamente rappresenti un segnale del suo crescente discredito.
Molte analisi geo-strategiche si sono concentrate sulle conseguenze negative che un tale accordo potrebbe comportare per il principale avversario del Pakistan, cioè l’India. Sembra però che in questo ambito non si sia detto finora molto di concreto, specialmente per ciò che riguarda le sorti del corridoio infrastrutturale e commerciale che dovrebbe collegare l’India al Medio Oriente. Il porto israeliano di Haifa avrebbe dovuto essere tra le infrastrutture essenziali per rendere operativo il corridoio con l’India; è stato però lo stesso Israele a bruciare questa prospettiva attaccando l’Iran, i cui missili hanno dimostrato che Haifa è troppo vulnerabile e insicura. La stampa sionista finge che nulla sia cambiato per Haifa, ma intanto il regime israeliano continua a minacciare l’Iran, scoraggiando gli investimenti in un’infrastruttura dal destino così incerto.
Inoltre l’Arabia Saudita non ha mai avuto nessun contenzioso con l’India, ed ha finanziato l’atomica pakistana per avvantaggiarsene in caso di conflitto con l’Iran. Sei anni fa vi furono gravi attacchi con missili e droni agli impianti petroliferi sauditi; quegli attacchi vennero imputati all’Iran. Neppure in quel caso la “protezione” americana funzionò. Riad non ritenne in quella circostanza di ricorrere ad un accordo di mutua difesa col Pakistan, ma scelse di risolvere il conflitto con l’Iran affidandosi alla mediazione cinese, il che ha portato ad un accordo con Teheran che sembra reggere. Infatti il comportamento di Israele, come quello delle altre potenze “occidentali”, non dà la priorità a interessi economici o di sicurezza, bensì di primato nella gerarchia internazionale. Per questo motivo Israele non fa differenza tra amici e nemici; nel momento in cui non è possibile attaccare il nemico (o presunto tale) si può colpire anche un paese praticamente alleato come il Qatar, perché l’importante è ribadire il proprio status, stabilendo che si è al di sopra delle regole. Per questo motivo è impossibile qualsiasi composizione o qualsiasi accordo con Israele, il quale percepisce ogni impegno che possa limitarne i movimenti come un attacco al proprio status. ... Continua a leggere...
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