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IL TRADIMENTO DEI MORTI DI FAME
Di comidad (del 04/05/2023 @ 00:14:52, in Commentario 2023, linkato 8344 volte)
Un giorno il Sacro Occidente si sveglierà, folgorato dalla luminosa evidenza di chi sia il colpevole di tutti i suoi mali: Enrico Mentana. Il nostro eroe tiene da anni un sito internet apposta per smascherare bufale e fake news; ed esattamente un anno fa ad esservi demolita era la versione circolata a proposito di un’intervista rilasciata dal finanziere George Soros all’emittente CNN. Mentana e soci si preoccupavano di smentire la voce secondo cui Soros avrebbe ammesso di essere lui l’organizzatore del colpo di Stato di piazza Maidan in Ucraina del 2014.
A piazza Maidan infatti non c’era Soros ma il senatore John McCain, mentre il governo del dopo-golpe fu selezionato da Victoria Nuland. La preoccupazione di Mentana però è ugualmente sproporzionata e mal diretta. Mentana dovrebbe infatti domandarsi se siano più insidiose le esagerazioni sul ruolo del miliardario ungherese-americano, oppure se sia più letale l’enfasi che proprio i media riservano a quel personaggio, per cui ogni sua intervista, o conferenza stampa, o semplice dichiarazione riesce a calamitare i giornalisti. Se i media insistono entusiasticamente sul fatto che nella politica estera occidentale sono determinanti dei soggetti privati con le loro fondazioni, poi non ha senso scandalizzarsi se qualcuno ci ricama sopra più del dovuto. Se poi Mentana dedica addirittura un sito alle attività dei cosiddetti complottisti, non può nemmeno indignarsi se questi si convincono di essere nel giusto. Non si tratta perciò di fake news, bensì di autointossicazione mediatica.
Mentana si allarma troppo se qualcuno per la guerra in Ucraina dà la colpa alla NATO che avrebbe circondato la Russia. Dovrebbe invece allarmarsi di più per ciò che dichiara proprio la NATO, la quale ci fa sapere di essere un’alleanza difensiva, che però non solo non ha difeso l’Ucraina, ma adesso le affida persino la missione di sconfiggere la Russia, dandole in cambio armi e la promessa di una ricostruzione; tanto con qualche centinaio di migliaia di morti se la cava. A questo punto qual è lo scoop, la notizia da prima pagina? Che Putin è cattivo, oppure che la NATO è inaffidabile? Adesso il “Financial Times” ci fa pure sapere che l’Italia ha spedito all’Ucraina degli obici difettosi. Insomma: mettete Meloni nei vostri cannoni. Ma le figuracce che i media anglosassoni riservano al solito capro espiatorio italico, servono a dissimulare il fatto che il business delle armi non implica necessariamente il riuscire effettivamente ad armarsi. In base ai consueti meccanismi del feticismo della merce, in quest’ultimo anno “armi” è diventata una parola magica, così come era già successo con la parola “vaccini”. Ma le armi richiedono, oltre che un processo produttivo, anche una manutenzione ed un munizionamento. Si scopre però che il Sacro Occidente si è deindustrializzato, perciò non ha più le capacità per produrre a sufficienza munizioni e pezzi di ricambio, perché non fanno profitto. La Russia ha tenuto per anni il sito industriale-militare di Rostec sottoutilizzato ed in pura perdita, mentre oggi lo utilizza a pieno regime; ma ha potuto farlo perché è tutto di proprietà pubblica.

Ci sono angoli del pianeta dove le prime pagine non le decide Mentana, perciò non c’è da stupirsi se in tanti nel mondo si sottraggano alla disciplina occidentalista. Qualche settimana fa persino l’Honduras ha disobbedito a Washington ed ha preferito aprire rapporti diplomatici con Pechino disconoscendo Taiwan. Nel linguaggio politico statunitense c’era l’espressione: “non lo si può trattare come l’Honduras”; come a dire: non si può darne per scontata la sottomissione. Oggi Washington può dare per scontata soltanto la sottomissione dell’Europa; ma se le cose dovessero mettersi davvero male per la NATO, anche gli oligarchi europei correranno a prostrarsi al nuovo padrone.
L’India è stata la peggiore delusione: si è scoperto che aiuta la Russia ad aggirare le sanzioni e che in un anno ha aumentato di otto volte le importazioni di materie prime russe, approfittando dell’opportunità offerta dalle sanzioni per ottenere prezzi di saldo. Molti commentatori ci sono rimasti male, anche perché l’India è un Paese democratico; infatti, come si è visto con l’uccisione di Indira Gandhi e di suo figlio, da quelle parti i cambi di regime avvengono “democraticamente”, cioè affidando l’eliminazione dei leader incomodi ad opportuni “estremisti”. Esattamente come è successo negli USA con Kennedy, in Israele con Rabin e, da noi, con Moro.
La cosa più grave è che ormai certe transazioni commerciali avvengono senza servirsi del dollaro statunitense come mezzo di pagamento. L’ISPI è l’istituto nostrano di studi geo-strategici, quello che già consigliava Mussolini, col brillante risultato che si è visto; ora l’ISPI si allerta per il tramonto del petro-dollaro e per l’avvento del petro-yuan. In realtà, se è vero che non esiste più il petro-dollaro, è comunque ancora presto per parlare del petro-yuan come nuovo punto di riferimento. Per ora, al di fuori del Sacro Occidente, ognuno fa i propri interessi economici e stringe gli accordi che ritiene vantaggiosi.
Sul piano ideologico e mediatico, il caso dell’India rimane il più interessante. Negli anni ’60 una delle coppie semantiche più fortunate era quella di “India-fame”. Nel 1966 il Vaticano, per diretta iniziativa di papa Montini, lanciò una grande raccolta di fondi per andare in soccorso delle popolazioni indiane colpite dalla carestia. In Italia il “rinforzo” televisivo per la campagna del Vaticano fu enorme, infatti vennero impegnati i giornalisti di punta come Sergio Zavoli, ed anche tanti divi dello spettacolo. I giornali si riempirono di storie edificanti, come quella del ragazzino che voleva regalare ai bimbi indiani la sua merenda di pane e frittata; ma non mancarono i dibattiti demenziali, nei quali ci si chiedeva perché nell’India affamata non si mangiassero le vacche sacre. Tutta la generazione di Mentana subì un vero e proprio lavaggio del cervello, tanto che assorbì come un riflesso condizionato lo schema della superiorità del Sacro Occidente destinato a correre in soccorso dei popoli inferiori, che altrimenti, lasciati a se stessi, morirebbero di fame. Per gli Indiani, che non avevano chiesto nulla, la situazione risultò imbarazzante, al punto di offrirsi di pagare il riso che gli arrivava.
Mentana all’epoca era uno scolaretto sprovveduto (anche se meno sprovveduto di adesso). Ma questa suggestione collettiva nei riguardi dell’India coinvolse persino Pasolini; che pure era Pasolini, l’uomo capace di replicare alle più vili aggressioni morali e giudiziarie senza una punta di acrimonia; cose che appaiono leggendarie oggi che si reagisce alle critiche come se fossero una lesa maestà. In questi anni però si è mitizzato Pasolini facendone una sorta di profeta o gnostico, mentre invece era un osservatore della società non incanalato dal pregiudizio delle “magnifiche sorti e progressive”; ma all’inizio degli anni ‘60 c’era in atto un processo di decolonizzazione che appariva univoco, per cui non si erano ancora sperimentate tutte le declinazioni del neocolonialismo, nelle quali l’ingerenza viene giustificata come aiuto allo sviluppo, come difesa dei diritti umani o come lotta alla corruzione. Nel 1968 la RAI mandò in onda un documentario di Pasolini, presentato alla Mostra di Venezia, basato su appunti per un film sull’India, che poi non fu prodotto. C’era la storia dei figli di un maharaja che affrontavano una sorta di viaggio spirituale nel proprio Paese, e che alla fine, tanto per cambiare, morivano di fame.
Pasolini si occupava della fame dell’India da molto prima, e si era persino spinto ad avanzare certe analogie con la fame di Napoli; anche in questo caso agiva il mito di un nucleo etno-culturale, preindustriale e pre-consumistico. In realtà si è visto che anche la “diversità etnica” è un prodotto mediatico di consumo; per cui i media creano aspettative, euforie ed occasioni di business che sono solo merci ma possono essere spacciate per una sorta di “volksgeist”. Nel 1961 Pasolini fu anche lo scopritore di Madre Teresa di Calcutta, che all’epoca si occupava di assistenza ai lebbrosi e che venne da lui descritta con toni celebrativi.

A proposito di fortunate coppie semantiche: Madre Teresa e Calcutta; come a dire che la capitale dello Stato federale del Bengala Occidentale esiste solo in quanto oggetto di carità. Attraverso il filtro mediatico, la compassione diventa gerarchizzazione antropologica, cioè razzismo. Calcutta è così diventata a livello popolare una metafora iperbolica di miseria e degrado, utilizzata anche da Paolo Villaggio nei film di Fantozzi (“alito agghiacciante, tipo fogna di Calcutta”). In realtà uno dei distretti di Calcutta è storicamente sede di un’industria cinematografica in lingua Telugu; un’industria che, per volume produttivo, è seconda solo a quella di Bombay, che è in lingua Hindi. Un’altra industria cinematografica di rilievo si trova nello Stato indiano del Punjab, quindi in lingua Punjabi. Negli anni ’60 il numero dei film prodotti in India era impressionante, tanto da far impallidire Hollywood o Cinecittà buonanima. Si trattava di prodotti della lunghezza minima di due ore e che contenevano obbligatoriamente siparietti musicali e coreografici. Nata agli inizi del ‘900, già dagli anni ’50 l’industria dell’intrattenimento cinematografico aveva assunto in India livelli abnormi, spropositati rispetto alla pur notevole demografia indiana. I film indiani venivano anche provvisti di sottotitoli ed esportati in Asia, ma il grande target per quelle migliaia e migliaia di pellicole rimaneva lo spettatore indiano, grazie al bassissimo prezzo del biglietto.
In India si moriva spesso di fame, ma non ci si era specializzati in questo; per cui si era supplito alle scarse risorse a disposizione, industrializzando persino la futilità e l’oblio; ciò in quanto la cultura industriale non era un’importazione occidentale. Sino al XVIII secolo l’India deteneva i suoi primati nella produzione tessile e cantieristica e, come rilevato da Noam Chomsky in “Capire il Potere”, proprio il Bengala era l’area più industrializzata. La colonizzazione britannica ha fatto passare la deindustrializzazione forzata dell’India come immobilismo preindustriale e come esotismo; per cui si è inventata una “tradizione”, con la falsa immagine di un “popolo contemplativo” (tradotto: massa di fannulloni). Il Sacro Occidente ha subìto un’autointossicazione ideologica rispetto all’India, per cui è ovvio che oggi percepisca il riemergere di certe abilità economiche come una sorta di ingratitudine e di tradimento.