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L’AFFARISMO NON VUOLE OPPOSIZIONE, MA SOLO DESTABILIZZAZIONE
Di comidad (del 24/12/2009 @ 01:54:36, in Commentario 2009, linkato 5609 volte)
La mano tesa offerta da Massimo D’Alema al governo Berlusconi sulla sua offerta di un tavolo per le riforme istituzionali, ha innescato dei commenti prevedibili e fondati. Si è ricordato che già nel 1995 e nel 2006 fu proprio la scelta dei DS prima, e del Partito Democratico poi, di scegliere come interlocutore privilegiato Berlusconi sulla questione delle riforme istituzionali, a resuscitarlo politicamente, dato che il centro-destra si stava sbarazzando di lui. Si è sottolineato anche che da almeno quindici anni esiste un asse Berlusconi-D’Alema che sovrintende alle scelte affaristiche in Italia; perciò anche questo salvataggio di un Berlusconi alla frutta, ridotto ormai ad affidare il suo prestigio personale alle statuette souvenir che gli piovono in faccia, rientra in una prassi politica che D'Alema ha consolidato nel tempo.
Tutto vero, ma è anche vero che le riforme istituzionali costituiscono ormai da trenta anni un richiamo della foresta a cui nessuna forza politica pensa di sottrarsi, infatti anche coloro che oggi criticano la scelta di D’Alema, non mettono in dubbio l’opportunità di avviare delle riforme della Costituzione, ma si limitano a mettere in evidenza la non credibilità di una controparte come Berlusconi, interessata esclusivamente a risolvere vicende di carattere personale. In tal modo si continua a concedere alla politica di D'Alema il retorico alibi del senso di responsabilità che indurrebbe a dover andare a verificare le proposte berlusconiane.
Se si va invece alle origini della questione delle riforme istituzionali, si può forse avere anche una spiegazione del perché il cambiamento della Costituzione venga avvertito come un’esigenza ineludibile, sebbene non si arrivi mai al dunque.
Lo slogan delle riforme istituzionali fu lanciato nel 1979 da Bettino Craxi, ma l’uomo di punta, il vero ideologo di tutta l’iniziativa, fu un altro esponente dell’allora Partito Socialista, cioè Giuliano Amato; quindi lo stesso personaggio che da trenta anni troviamo dietro la campagna per le privatizzazioni, ed anche colui a cui si deve la nascita dell’Antitrust, quella “Authority” incaricata di spianare la strada all’ingresso delle multinazionali in Italia. L’idea che la Costituzione italiana fosse irrimediabilmente invecchiata, e non più al passo con i tempi, fu dunque diffusa da Craxi e da Amato, che proposero a suo tempo l’elezione diretta del Presidente della Repubblica; ma, in generale, lo slogan che emergeva - ed emerge ancora adesso, ogni volta che si parla di riforme istituzionali -, era che occorresse “rafforzare l’esecutivo”, andando a togliere al parlamento anche i labili poteri che ancora detiene. Il filo conduttore ideologico del riformismo costituzionale si riduce in definitiva all'antiparlamentarismo, non per colpire il parlamento in quanto tale, data la sua condizione di inettitudine e inerzia, ma a prevenire qualsiasi ipotesi di opposizione e controllo.
Prima della sortita di Craxi e Amato non regnava in Italia la convinzione che le costituzioni fossero come barattoli di pomodoro che portano la scadenza incisa sul fondo; semmai, in base alle norme del Diritto costituzionale, varrebbe la considerazione contraria, e cioè che dovrebbe avere una scadenza, o almeno dei tempi certi, il processo di riforma di una Costituzione, altrimenti il tutto si risolve in una mera delegittimazione della Costituzione vigente, o addirittura in una pratica di eversione e destabilizzazione. La Costituzione italiana ha poco più di sessanta anni, ma il periodo in cui è risultata delegittimata, ed indicata come bisognosa di cambiamento, ha superato la metà della sua vita complessiva. La conclusione è che, con tutta evidenza, l’obiettivo politico che si prefiggevano, e si prefiggono, i sedicenti “riformatori”, non è mai stato davvero quello di cambiare la costituzione, ma solo di screditarla, quindi di destabilizzare il quadro istituzionale.
Che l’ideologo delle riforme istituzionali fosse anche l’ideologo delle privatizzazioni, risulta perciò perfettamente conseguente, poiché il potere dell’affarismo privato non può permettersi l’esistenza di una vera opposizione parlamentare, perciò i gruppi dirigenti delle opposizioni vengono cooptati nell’oligarchia affaristica, magari in funzione subordinata e marginale. L’affarismo privato necessita invece di un assetto istituzionale destabilizzato e incerto, in cui prevalgano sempre più le regole non scritte, dato che non è possibile attuare nessuna privatizzazione rispettando la legalità ufficiale. Le privatizzazioni sono furti, colpi di mano istituzionali, prodotti dell’illegalità di Stato, procedono perciò per fatti compiuti, per legalizzazioni a posteriori. Nel frattempo una propaganda spregiudicata e pretestuosa deve bollare come vecchiume, o come attaccamento al passato, qualsiasi tentativo di difesa dei diritti sociali e della legislazione di garanzia.
Per condurre questa opera eversiva in favore delle privatizzazioni, il Fondo Monetario Internazionale scelse a suo tempo di infiltrare e cooptare il gruppo dirigente del più antico partito operaio italiano, il Partito Socialista, trasformato in pochi anni in un partito degli affari, ma successivamente liquidato, quando la sua esistenza poteva costituire un ostacolo per altre privatizzazioni.
Il più antico partito operaio si presentò come partito dei “ceti emergenti”, dato che la propaganda ufficiale presentava la classe operaia come un gruppo sociale in via di inesorabile scomparsa. Niente classe operaia, e quindi niente socialismo, perciò via libera alle privatizzazioni.
In realtà, la questione della scomparsa o della marginalizzazione della classe operaia costituisce non solo una ipotesi ancora tutta da dimostrare, ma anche una divagazione pretestuosa, che non tocca la sostanza della situazione attuale, segnata dall'offensiva dell'affarismo privato, come sempre assistito finanziariamente dallo Stato, e quindi impegnato a spremere il contribuente per fargli pagare le privatizzazioni.
La difesa dall’aggressione dell’affarismo privato, l‘esigenza di una economia pubblica, non interessa infatti solo la classe operaia, ma tutto il lavoro dipendente, quindi anche gran parte di quello che viene definito "ceto medio". Chi ha inventato una categoria ambigua e sfuggente come "piccola borghesia", ha fornito all'affarismo privato una micidiale arma propagandistica, atta a determinare un notevole grado di confusione mentale nel cosiddetto "ceto medio". Un impiegato comunale o un insegnante, in quanto "piccoli borghesi", dovrebbero così sentirsi dei parenti poveri di Rothschild, piuttosto che dei lavoratori che condividono la sorte dei lavoratori manuali.
Il comunismo rappresenta perciò un interesse oggettivo di tutto il lavoro dipendente ed anche dei contribuenti - dato che sono gli affaristi privati a potersi permette di evadere il fisco -, e la confusione indotta dalla propaganda ufficiale può riuscire a nascondere questo dato, ma certo non ad eliminarlo.