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IRAN IMPERIALISTA PER CASO
Di comidad (del 26/04/2018 @ 00:00:59, in Commentario 2018, linkato 2365 volte)
L’Iran si trova nuovamente al centro del tritacarne mediatico internazionale per una presunta vicenda di veli islamici. L’attendibilità e la effettiva portata della notizia sarebbero tutte da verificare, ma la vigente parodia del politicamente corretto non si pone problemi di vero e di falso, semmai della valenza edificante del proprio messaggio.
Ricondotto al ruolo mediatico del “villain” (uno che impone il velo alle donne ovviamente userà armi chimiche o nucleari), l’Iran si trova anche al centro di un’ulteriore offensiva statunitense, con il proposito del cialtrone Trump di denunciare l’accordo sul nucleare iraniano raggiunto da Obama e Kerry. Al di là del vantaggio propagandistico che gli USA si stanno prendendo, occorrerebbe comprendere i vantaggi sul piano strategico che gli USA intenderebbero ricavare dall’operazione della denuncia dell’accordo. Questi vantaggi apparentemente non ci sono dal momento che l’unico effetto pratico sarebbe quello di rilanciare non solo il programma nucleare iraniano, ma anche il ruolo di potenza regionale a tutto campo dello stesso Iran.
Il paradosso di questa situazione sta nel fatto che l’Iran come potenza imperialistica regionale è stato praticamente “inventato” dagli Stati Uniti, i quali hanno eliminato tutti i contrappesi che potevano contenere la politica iraniana nella sua propria sfera territoriale. Nel 2003 l’invasione statunitense dell’Iraq ha liquidato uno Stato che, disponendo di una popolazione di quasi la metà di quella iraniana, ne conteneva il potenziale espansivo. Il regime etnicamente sunnita, ma laico, di Saddam Hussein teneva a freno una maggioranza sciita che, una volta caduto il regime, è stata attratta nella sfera d’influenza del maggior Paese di religione sciita, il confinante Iran.
La destabilizzazione della Siria del 2011 è stata presentata da molti analisti illustri come un attacco indiretto degli USA all’Iran per far saltare la continuità territoriale della cosiddetta “Mezzaluna Sciita” che attraversa Iran, Iraq, Siria e Libano. In effetti questa teoria presenta una falla evidente: il regime di Assad, pur alleato dell’Iran, costituiva con la sua presenza e la sua potenza militare un oggettivo contrappeso all’Iran. Al contrario, la destabilizzazione della Siria ha consentito ai Pasdaran iraniani di insediarsi in Siria e di saldarsi con la milizia libanese sorella, Hezbollah, anch’essa oggi massicciamente presente in Siria.
Se la politica USA ha determinato le condizioni per un imperialismo regionale iraniano, l’arrivo della Russia in Siria nel 2015 ha costituito al contrario un ridimensionamento oggettivo dello stesso Iran, ridotto al ruolo di alleato secondario. Ciò che ha irritato gli USA è il fatto che la presenza russa abbia ricondotto i vari attori dell’area del Vicino Oriente alle loro dimensioni effettive, determinando indirettamente un riequilibrio. Questo spiega i recenti isterismi missilistici del sedicente Occidente, il quale rischia di vedersi sgonfiare tra le mani i suoi ulteriori progetti di destabilizzazione.

C’è anche molto da dubitare del fatto che l’Iran aspiri davvero ad un ruolo di imperialismo regionale analogo a quello a cui tende la Turchia, e non vi sia invece spinto dagli USA. Anche tutta la teoria sul fanatismo islamico di marca sciita fa molta acqua. L’Iran infatti non ha mai iniziato guerre e si è trovato semmai a fronteggiare aggressioni esterne. Le dichiarazioni apocrife attribuite ai dirigenti iraniani sulla cancellazione di Israele dalla carta geografica, costituiscono un fantasma propagandistico del sedicente Occidente e non corrispondono a precise azioni.
Francesco Guicciardini inoltre ci aveva a suo tempo avvertito circa “la avarizia e le mollizie de’ preti”, ed in effetti il clepto-clero sciita iraniano sembra avere come principale vocazione quella del business del mare di petrolio e del gas su cui è seduto. Le spinte ad una concezione più sociale dell’Islam sciita provenivano infatti da settori laici, come quello che aveva trovato il suo leader in Ahmadinejad. Una volta scalzato Ahmadinejad alle elezioni presidenziali, il clepto-clero sciita aveva immediatamente cercato un accordo con gli USA per poter riprendere la routine degli affari ed oggi sono proprio gli USA a frustrare questa aspirazione. Anche la repressione interna del regime iraniano si indirizza soprattutto verso collaboratori di Ahmadinejad e lo strumento di questa persecuzione è una magistratura che lo stesso Ahmadinejad accusa di essere colonizzata dal Regno Unito.

D’altra parte, sia l’ala sociale che quella clepto-clericale ed affaristica del regime iraniano mostrano più preoccupazioni di carattere interno che velleità espansionistiche. Insomma, per trovare un Iran imperiale occorre risalire alla notte dei tempi e, proprio per volerlo rievocare con una tipica operazione mussoliniana, lo scià Reza Pahlavi a suo tempo si rese ridicolo non solo all’estero ma soprattutto in patria. Ma probabilmente anche se oggi al posto degli ayatollah ci fosse ancora uno scià, ugualmente l’Iran si troverebbe nel mirino statunitense. Per quanto filoamericano e filobritannico, Reza Palahvi aveva pur sempre il grave torto di reinvestire una quota eccessiva dei profitti del petrolio all’interno del suo Paese.
Il vero problema dell’Iran sembra quindi essere lo stesso di Paesi come l’Iraq, il Venezuela o la Nigeria, cioè di avere non solo il petrolio ma anche una popolazione sufficiente per consentire un reinvestimento all’interno dei profitti del petrolio. Per la finanza globale il Paese petrolifero ideale è l’Arabia Saudita, che ha una scarsa popolazione e quindi reinveste automaticamente nel circuito finanziario mondiale quasi tutti i proventi del petrolio. Chi non vuole o non può comportarsi come l’Arabia Saudita, è soggetto ad una destabilizzazione permanente che favorisca la fuga dei capitali.
Lo scopo dell’imperialismo dominante è impedire uno sviluppo economico che trattenga i capitali all’interno di questi Paesi. Gli interessi legati alla mobilità dei capitali impongono che chi è povero rimanga povero e, dove la povertà non c’è, venga inventata attraverso politiche di restrizione di bilancio. Nel periodo più acuto dell’austerità in Italia le fughe di capitali arrivarono infatti a toccare il 15% del PIL.