Commentario

Legge finanziaria e colonialismo

È iniziato da qualche giorno il rito annuale della discussione ed approvazione della Legge Finanziaria. Sembra ormai una scadenza irrinunciabile, quasi un appuntamento con i cicli della natura. Eppure questo strumento legislativo non ha nemmeno trent'anni di vita, risale infatti alla fine degli anni '70 ed ai governi della cosiddetta Unità Nazionale. Ciò vuol dire che per secoli i governi hanno fatto a meno di uno strumento legislativo che oggi viene considerato indispensabile, come se senza la Legge Finanziaria il bilancio dello Stato dovesse andare inevitabilmente a rotoli.
L'esperienza dimostra semmai il contrario: i "sacrifici" annualmente imposti dalla Legge Finanziaria non hanno mai bloccato il proliferare della spesa pubblica, l'hanno semmai riqualificata in senso sempre meno sociale, ma non l'hanno contenuta.
é certo che la Legge Finanziaria svolge anche una funzione ideologica, poiché essa è un modo di chiamare le classi subordinate a sacrificarsi in nome del cosiddetto "interesse nazionale" (cioè per i privilegi delle oligarchie). Ma anche questo non spiegherebbe del tutto l'importanza generalmente attribuita alla Legge Finanziaria, poiché sino a pochi decenni fa non ce n'era bisogno per ribadire le gerarchie sociali. Il punto è che la legge Finanziaria costituisce un fattore di autodelegittimazione e di autointerdizione per la nazione che l'adotta: è come se ammettesse di essere irrimediabilmente votata allo sperpero e di dover quindi porre annualmente dei limiti preventivi alla spesa pubblica. E infatti proprio questo costituisce il senso autentico della Legge Finanziaria, è il segno del declassamento di una nazione e della sua collocazione tra quelli che John Stuart Mill chiamava i "popoli minorenni", bisognosi di tutela da parte dei popoli superiori.
L'irreversibile declino economico dell'Italia risale ormai a trent'anni fa, perciò Berlusconi ne rappresenta un effetto ed un sintomo, non una causa. Non è Berlusconi che ci ha ridotto a Paese di infimo rango, ma è il declassamento dell'Italia nella gerarchia delle nazioni che ci ha imposto un Presidente del Consiglio come Berlusconi, che rappresenta il testimonial dell'inferiorità antropologica e della sudditanza di una nazione.
L'economia italiana ha cessato trent'anni fa di essere competitiva, da quando l'aumento drastico dei prezzi del petrolio alla metà degli anni '70 ha ricondotto l'Italia ad una condizione di colonia, non dissimile da quella di uno Stato sudamericano.
Quell'aumento di prezzi fu imposto dalle corporation statunitensi - anche se attribuito dalla propaganda agli Arabi - e gelò ogni velleità di autonomia economica di molti Paesi. Da quel momento per governi come quello italiano non vi è stata altra politica economica possibile che quella di contenere l'inflazione e di pagare gli interessi sul debito pubblico. Il Italia il ritiro del governo dalla gestione dell'economia reale è stato assoluto. La propaganda ufficiale ci ha detto che ciò era necessario per ricondurre l'economia alle "leggi di mercato", ma la verità storica è che erano stati proprio dei governi liberali ad avviare un secolo fa l'intervento pubblico in economia, e ad assegnare i pubblici servizi alla gestione diretta dello Stato. La privatizzazioni in campo bancario e industriale e le "aziendalizzazioni" nell'ambito dei servizi pubblici, hanno sì aumentato l'inefficienza e lo spreco, ma, in compenso, hanno eliminato ogni possibile resistenza alle ingerenze colonialistiche. La realtà è che il governo di un Paese colonizzato non può permettersi di interferire nell'economia reale del proprio Paese, ma si deve limitare ad occuparsi del proprio debito pubblico.

Comidad, Napoli 3 ottobre 2005