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PRIVATIZZAZIONE, APPALTIZZAZIONE, PRECARIZZAZIONE E (PERCHÉ NO?) SCHIAVIZZAZIONE
Di comidad (del 26/07/2007 @ 23:01:56, in Commentario 2007, linkato 1453 volte)
L'assunzione a tempo indeterminato di alcune migliaia di precari della Scuola ha determinato la consueta reazione sdegnata da parte della propaganda borghese, per il fatto che si sarebbe andato a ingrossare l'esercito dei "nullafacenti". È chiaro che se il precario ha un rapporto di impiego diretto con la pubblica amministrazione per cui lavora, prima o poi il rapporto di lavoro precario, per somma di diritti acquisiti, diventerà stabile. Per scongiurare questa prospettiva di stabilità, la borghesia vuole che il rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione non sia mai diretto, ma sempre mediato da ditte appaltatrici private.
Nella società deindustrializzata - camuffata sotto lo slogan del "post-industriale" -, la borghesia trova il suo nuovo grande business nella privatizzazione dei servizi della pubblica amministrazione. Le funzioni pubbliche, che in sé non sono privatizzabili, possono però essere appaltate a ditte private, le quali, a loro volta, possono appaltare ad altre ditte private, e così all'infinito. Di appalto in appalto, il rapporto di lavoro diviene sempre meno garantito e sempre più mal pagato.
Sarebbe un errore ritenere che l'ultimo anello di questa catena sia costituito dal precariato. Qualche anno fa si è scoperto che i prodotti Nike, di appalto in appalto, finivano per essere fabbricati da bambini schiavizzati in tanti remoti angoli del pianeta. Come al solito, però, la comunicazione di massa ha creato una sorta di effetto distanza, suggerendo che certe cose "qui" non possano accadere.
Eppure è evidente che l'esito finale di certe politiche del lavoro non può essere che lo schiavismo. Se il rapporto di lavoro scende al di sotto di una certa soglia di convenienza, diviene meno costoso rinunciare a lavorare. Da qui nasce anche la favola secondo cui gli immigrati vanno a coprire lavori che gli occidentali non vorrebbero più fare.
La comunicazione di massa ha creato anche sull'immigrazione una sorta di leggenda: i poveri del pianeta vanno in Occidente in cerca di fortuna e, per questo, si rivolgono a trafficanti senza scrupoli, ecc., ecc.
In realtà gli immigrati non sono persone che fanno una scelta autonoma, seppure dettata dal bisogno, ma vengono reclutati a forza, perché già indebitati in precedenza con le organizzazioni criminali che li deporteranno. Anche nell'antichità si diventava schiavi per debiti, e questa è esattamente la condizione di molti degli attuali emigrati, i quali, privi di documenti e condannati alla clandestinità, diventano di fatto di proprietà delle organizzazioni che li hanno deportati. Per questo motivo, la regolarizzazione immediata degli immigrati clandestini non costituirebbe una porta spalancata all'emigrazione, ma, al contrario, un modo di scoraggiare il traffico di esseri umani, diminuendo il potere di controllo delle organizzazioni criminali (che poi sono statal-criminali, perché sempre intrecciate con servizi segreti).
Ma l'immigrazione non costituisce il solo aspetto dello schiavismo nel cosiddetto Occidente. Si è molto parlato della questione della schiavizzazione dei detenuti in Cina, dove vengono utilizzati nella produzione, ufficialmente a titolo di risarcimento per il fatto che lo Stato è costretto a sfamarli. In realtà, la stessa cosa avviene negli Stati Uniti, dove vi sono circa due milioni di detenuti, cioè l'uno per cento della popolazione, la quota più alta di qualsiasi Paese nella Storia.
Negli Stati Uniti quasi tutte le carceri sono aziende che utilizzano direttamente il lavoro dei detenuti nell'agricoltura o nell'edilizia; altre carceri si limitano invece a vendere ad altre aziende il lavoro dei loro detenuti. Sta di fatto che la privatizzazione delle carceri è oggi negli Stati Uniti uno dei business più appetiti.
I carcerati/schiavi sono per lo più neri o ispanici, ma ci sono anche molti bianchi. I reati riguardano quasi sempre il possesso o lo spaccio di marijuana, ma la realtà è che si tratta di persone troppo povere per potersi difendere dalle accuse. In genere vengono arrestati dei ragazzi analfabeti (gli analfabeti sono oggi oltre il 30% negli USA), che vengono condannati a pene di venti o trenta anni nonostante la piccolezza del reato. Si tratta di persone inesperte che costruiscono la loro vita e le loro relazioni nel carcere, perciò hanno anche difficoltà ad approfittare delle occasioni di fuga. Le loro aspettative si concentrano perciò sulla possibilità di acquisire privilegi all'interno del sistema carcerario. Agli schiavi viene cioè confezionata una psicologia da schiavo.
Anche il termine "carcere" non deve far pensare a mura e sbarre: si tratta quasi sempre di alloggiamenti provvisori, come baracche o anche tende.
Nel 1932 i sequestrati di Stato furono l'argomento di un famoso film: "Io sono un evaso (I am a fugitive from a chain gang)", di Mervyn LeRoy, con Paul Muni nella parte del protagonista. Dopo quasi cinquanta anni di silenzio sull'argomento, nel 1980, Hollywood produsse un altro film sullo schiavismo carcerario, "Brubaker", di Stuart Rosenberg, con Robert Redford nella parte del protagonista.
Il confronto tra i due film è significativo per valutare il cambiamento del punto di vista sull'argomento in mezzo secolo trascorso: alla rabbia ribelle dell'eroe di "Io sono un evaso", corrisponde il riformismo rassegnato del personaggio di "Brubaker", per il quale il carcere/azienda è ormai un dogma intoccabile, e il problema è vedere se si può umanizzarlo. Il capolavoro del 1932 era un vero film di denuncia, mentre il polpettone del 1980 usa la denuncia degli "eccessi" per legittimare il sistema.
Qualche anno fa il Telegiornale di RAI 1 trasmise un servizio su una di questa aziende carcerarie americane: né le condizioni di vita dei detenuti, ammassati in tende, né l'arroganza dello schiavista - uno sceriffo -, smossero l'autore del servizio televisivo da un tono divertito e quasi ridanciano. Si tratta degli stessi giornalisti che fremono di sdegno quando rievocano il gulag staliniano, che pure non aveva mai raggiunto le proporzioni numeriche del gulag americano.
La propaganda borghese può quindi rendere digeribile anche lo schiavismo, come ha già fatto con il precariato ("meglio un lavoro a tempo determinato che nessun lavoro").
Lo schiavismo è rilevante non solo come fenomeno in sé, ma anche perché fornisce una chiave di lettura complessiva della condizione del lavoro nel sistema capitalistico. Secondo Max Stirner lo Stato si fonda sull'asservimento del lavoro, perciò la libertà del lavoro significherebbe la fine dello Stato. Ne "L'Ideologia Tedesca" Marx replicava a Stirner, affermando che nel sistema capitalistico il lavoro è già libero, perciò il vero problema sarebbe l'abolizione del lavoro.
È chiaro che Marx si rifaceva ad una visione del capitalismo idealizzata e condizionata dalla propaganda borghese.
26 luglio 2007