Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Sta circolando una narrazione secondo la quale l’amministrazione Trump starebbe cercando una via negoziale per uscire dal conflitto in Ucraina, mentre i paesi europei si sarebbero fossilizzati in una posizione bellicista senza sbocco. La premessa di questa narrazione appare inconsistente, dato che gli USA non hanno attualmente la competenza e la determinazione per condurre un negoziato. Il regime russo lo sa benissimo, ma la sua propaganda è impostata su un’immagine di equilibrio e ragionevolezza, perciò Putin non può negarsi a incontri diplomatici, per quanto avviati dagli USA all’insegna della cialtroneria. La propaganda è uno strumento tipico dei regimi ancora in grado di esprimere una mediazione interna e una sintesi politica, mentre negli USA e in Europa la cosiddetta politica procede in base ai colpi di mano ed ai fatti compiuti delle lobby d’affari, per cui non può esserci una propaganda dotata di un filo narrativo unico, ma soltanto spot pubblicitari in funzione di questo o quel business. I governi europei devono far finta di prepararsi ad un conflitto con la Russia perché ciò consente di far circolare qualche centinaio di miliardi per le solite cosche d’affari. Un vero riarmo infatti non è una semplice questione di soldi e appalti, ma riguarda il mettere in campo una serie di risorse in termini di energia, materie prime e impianti. Nel mitico riarmo europeo non si scorge nulla del genere, e
la pubblicistica UE a riguardo è, non a caso, fondata su scarsi dati concreti e moltissime elucubrazioni geopolitiche.
Ci si narra anche che le oligarchie europee sarebbero preoccupate che gli USA abbandonino l’Europa, e che la fine della tutela americana possa determinare un riaccendersi dei conflitti intra-europei. Qui la fiaba vale addirittura doppio, dato che per gli USA in primis la NATO è una cosca d’affari, cioè uno dei principali veicoli per vendere armi; quindi è assolutamente irrealistico che gli USA rinuncino alla NATO. Ancora più contrario all’evidenza è che, in assenza della NATO e degli USA, i conflitti in Europa possano riaccendersi, dato che questi conflitti non sono mai cessati. L’anno scorso c’è stato il
cinquantenario dell’invasione turca di Cipro, che comportò uno scontro militare tra Grecia e Turchia, paesi entrambi aderenti alla NATO dal 1952. In seguito alla sconfitta militare, cadde anche il regime dei colonnelli, insediatosi in Grecia dal 1967, ad onta dell’altra fiaba secondo la quale l’appartenenza alla NATO sarebbe una garanzia di democrazia e di Stato di Diritto.
Un’altra delle fesserie che compongono il libro di fiabe dell’atlantismo, è quella secondo cui la NATO avrebbe svolto la funzione di impedire il risorgere dell’imperialismo tedesco. Evidentemente la Germania non era stata avvisata di questo dettaglio, visto che nel 1991 promosse la dissoluzione della Jugoslavia con il riconoscimento delle dichiarazioni unilaterali di indipendenza da parte della Slovenia e della Croazia. Questi due paesi si separavano dalla Serbia per diventare satelliti della Germania; va anche sottolineato che la Jugoslavia unitaria non era un prodotto della guerra fredda, bensì un risultato della prima guerra mondiale e delle decisioni del presidente USA, Woodrow Wilson, il quale, a suo dire, intendeva proteggere i popoli slavi dell’Adriatico dall’imperialismo italiano. All'atto di riconoscimento dell’indipendenza di Croazia e Slovenia da parte della Germania, si accodarono immediatamente il Vaticano e l’Austria; nel 1992 anche
l’Unione Europea avallò l’indipendenza della Slovenia e della Croazia. Si diede così avvio al macello nella ex Jugoslavia; e, tanto per cambiare, l’UE ci aggiunse le sanzioni economiche contro la Serbia. In tutta la vicenda gli USA non mossero un dito per frenare l’espansionismo tedesco; anzi, dal 1995 gli USA e la NATO divennero persino parte attiva del conflitto in Jugoslavia, con bombardamenti sulla popolazione civile serba che dalle nostre parti provocarono manifestazioni di morboso compiacimento di molti commentatori, tra cui Adriano Sofri.
Nel 2011 fu addirittura l’Italia ad essere bersaglio di un’aggressione da parte di Francia e Regno Unito. La Libia di Gheddafi era infatti un’appendice economica (o, se si vuole essere precisi, una colonia economica) dell’Italia, sia in termini di risorse energetiche, sia di investimenti finanziari da parte del regime libico. In seguito alle
rivelazioni del presidente USA di allora, Obama, sappiamo adesso che Francia e Regno Unito non disponevano delle risorse militari per condurre fino alla fine l’aggressione alla Libia che avevano iniziato. Il presidente francese Sarkozy e il premier britannico Brown fecero credere ad Obama di essere in grado di gestire autonomamente il conflitto, ma si scoprì immediatamente che avevano munizioni per pochi giorni, così che i bombardamenti furono effettuati dagli USA e da altri paesi della NATO, o coordinati con la NATO; come il Qatar. In base alla disciplina NATO, il presidente Napolitano (con il plauso dei media, sempre assetati di sangue, e con la complicità del ministro della Difesa, Ignazio La Russa) impose al Buffone di Arcore la partecipazione dell’Italia all’aggressione contro la Libia. In uno dei suoi rari momenti di lucidità, Romano Prodi commentò che in tal modo l’Italia dichiarava guerra a se stessa.
La presenza in Europa del padrone di oltre atlantico, non ha impedito la conflittualità tra i servi; semmai l’ha aumentata. Si tratta del paradigma sociale della gerarchizzazione che crea ulteriore disordine; un paradigma che è riscontrabile anche in altri contesti. Il crescente strapotere dei manager, sia del settore pubblico che del privato, infatti ha determinato un’esplosione della competizione tra i dipendenti e persino del mobbing orizzontale. Il servo cerca di manipolare il padrone e di indirizzarne la potenza aggressiva verso i bersagli desiderati. Se le velleità imperiali di Francia, Regno Unito e Germania (e oggi persino della Polonia e degli ancora più insignificanti paesi baltici) sono potute andare ben oltre le loro effettive forze, è stato perché c’era la NATO a sostenerle, facendo da sponda ad ogni avventurismo; una constatazione che vale per il presente, e purtroppo anche per il futuro.
I rituali della fintocrazia prevedono che ogni tanto vi sia un conflitto istituzionale simulato, una tempesta in un bicchier d’acqua che consenta al fantoccio di turno di recitare la parte dell’impavido nocchiero. Quando si tratta di concedere a Giorgia qualche attimo di fittizio protagonismo, il presidente Mattarella si dimostra paterno e comprensivo; l’importante è che sia lui a comandare. Lo si è visto alla
riunione del Consiglio Supremo di Difesa del 17 novembre scorso, dove la linea l’ha dettata lui, con Crosetto in funzione di maggiordomo. Il Consiglio presieduto da Mattarella ha rilasciato un documento finale in cui si denuncia la “minaccia ibrida” della Russia, e di altre potenze ostili, ai nostri processi democratici ed alla nostra coesione sociale. Molti hanno interpretato queste dichiarazioni come la manifestazione dell’intento di limitare ulteriormente la libertà di espressione. Sicuramente è così, ma non è questo l’elemento più rilevante da notare in dichiarazioni del genere, che rappresentano invece l’esplicita confessione di non detenere più il primato in ciò che, quando proviene dal campo occidentale, viene definito “soft power”. Secondo Mattarella e soci, il rischio è che la Russia riesca ad esercitare sulla nostra popolazione più fascinazione della NATO e dell’UE. Si tratta di un’ammissione piuttosto grave. Si vorrebbe farci credere che il motivo della fascinazione esercitata da Putin stia nella perfida abilità dei suoi troll. In realtà il crollo del soft power ha cause esclusivamente interne al cosiddetto Occidente.
In
un’intervista del 2017, rilasciata un paio di mesi prima di morire, Zbigniew Brzezinski, politologo ed ex consigliere per la sicurezza nazionale, osservava che l’amministrazione Trump, da poco insediata, disinvestiva dal dipartimento di Stato e, contemporaneamente, aumentava le spese militari. Secondo Brzezinski non ci sarebbe in sé niente di sbagliato nel fare in certi momenti più affidamento sulla componente hard della potenza invece che su quella soft; il problema era semmai che nelle dichiarazioni e nelle azioni di Trump non si intravedeva alcun obbiettivo preciso, quindi nulla di serio. A detta di Brzezinski, gli USA si caratterizzavano ormai come una sorta di paese delle meraviglie, nel quale la comunicazione ufficiale diventa estemporanea e mira più a stupire e divertire che a indicare strategie. In base a ciò che diceva Brzezinski, si deve dedurre che alla maggiore spettacolarizzazione della politica negli USA non corrisponderebbe un aumento del soft power, semmai il contrario.
Nel 2017 ricorreva anche il trentennale della pubblicazione dell’opera più famosa di Brzezinski,
“La Grande Scacchiera”; un testo nel quale si cercava di delineare una strategia per gli USA del dopo guerra fredda. Anche se il testo appare ricco di riferimenti, il suo messaggio fondamentale si riduce però al solito assioma, secondo il quale, per conservare la propria supremazia, gli USA dovrebbero impedire l’emergere nell’area asiatica di potenze, o blocchi di potenze, in grado di opporsi al dominio americano. In pratica si trattava di un progetto di balcanizzazione dell’Asia dietro l’alibi ideologico della democrazia e dei diritti umani. Pare proprio che Brzezinski confondesse il “divide et impera” con il destabilizzare e mettere zizzania; lo stesso equivoco che ha condotto al suicidio l’impero britannico.
Ciò che Brzezinski imputava a Trump (la mancanza di strategia) poteva essere contestato anche a lui. Il primo punto debole delle sue teorie è la sottovalutazione dei costi dell’imperialismo, cioè quanto deve pagare il contribuente americano per destabilizzare altri paesi; ma, soprattutto, quanti degli investimenti nella balcanizzazione altrui comportano un profitto, oppure si risolvono solo in ulteriore spesa pubblica. Un esempio di sovraestensione della NATO dai costi certi e dai vantaggi aleatori, è
la partnership con l’Azerbaigian. Ci si può raccontare che l’Azerbaigian è ai confini della Russia e dell’Iran e quindi risulta un’ottima testa di ponte per attaccarli; come in effetti è avvenuto nel giugno scorso con l’attacco israeliano all’Iran. Allo stesso modo ci si può convincere che l’Azerbaigian, in quanto importante produttore di petrolio, potrebbe rappresentare una risorsa per la sicurezza energetica dei paesi NATO. Ciò significa anche che il governo di Baku dispone, grazie al petrolio, di parecchi soldi con cui comprare armi dai paesi NATO; quindi ottime notizie per la cleptocrazia militare. Il problema riguarda però la strutturale debolezza dell’Azerbaigian, che ha un territorio poco esteso ed un’economia basata su pochissime infrastrutture fondamentali. Nell’epoca della tecnologia missilistica non ci sarebbe neanche bisogno di occupare un paese del genere, ma lo si potrebbe neutralizzare a distanza. Il punto è che l’Azerbaigian va bene come amico della NATO per vendergli armi, e per compiere provocazioni e attentati contro Russia e Iran; ma strategicamente è un peso, un costo eccessivo per il contribuente, che la vendita di armi non può compensare, anche perché in caso di guerra occorrerebbe dare le armi a credito senza la certezza di essere poi pagati, come è avvenuto con l’Ucraina.
Nel caso dell’Ucraina è stato evidente che l’imperialismo non riesce ad autofinanziarsi, per cui l’assistenza ai proxy è stata a spese del contribuente americano ed europeo. L’Unione Europea si è imbarcata nell’affare sperando di poter partecipare alla spartizione delle risorse minerarie russe; sta di fatto che finora ha dovuto soltanto rinunciare alle forniture a basso costo da parte della Russia.
Il secondo punto debole delle teorie di Brzezinski stava nel ritenere che il soft power americano consistesse nella democrazia e nei diritti umani. Non è così: democrazia e diritti umani costituivano al massimo il decorativo della torta. L’attrattività degli USA consisteva nel miraggio di poter diventare ricchi come sembravano essere gli americani, non poveri come invece sono diventati oggi. Certo, la ricchezza americana era gonfiata dalla rappresentazione mediatica e negli USA ci sono sempre state vaste fasce di povertà; ma il fatto nuovo dell’ultimo trentennio è un processo di impoverimento crescente, che non conosce pause, e che comporta
la riduzione inesorabile della “middle class”.
Si potrebbe obiettare che gli USA attirano ancora molti immigrati; sì, ma questi migranti non sono attratti dalla prospettiva di diventare americani, bensì dalla sproporzione nel cambio tra il dollaro e le deprezzate valute dei paesi di provenienza; un cambio grazie al quale possono mantenere le famiglie di origine. A differenza che nel passato, gli immigrati attuali non si assimilano e non vogliono assimilarsi in una società non più in grado di garantire una soglia minima di benessere.
Il potere del denaro non sta solo nel comprare, ma anche nella capacità di suggestionare e illudere. Per rendere più efficace questa illusione di ricchezza e benessere, si prende per testimonial pubblicitario la figura di un miliardario come Trump. Da presidente, oggi e nel precedente mandato, Trump fa la stessa politica bellicista dei neocon; ma, per farsi eleggere, ha dovuto promettere falsamente che avrebbe seguito la politica contraria, cioè di evitare le guerre e di perseguire il benessere interno. Trump cerca di mascherare il suo bellicismo con l’inflazione dei piani di pace, immancabilmente conditi da fantasie porno su mega-business da allestire sulle macerie di questo o quel paese; ma si tratta di operazioni di pubbliche relazioni dal fiato corto. Il bellicismo delle cleptocrazie americane ed europee è del tutto comprensibile, visto che l’imperialismo comporta trasferimenti di pubblico denaro verso i loro affari; ed oggi il principale contribuente è quello povero, quello che paga le accise e le altre imposte sui consumi, e non può rivalersi su nessuno. A parte i cleptocrati delle multinazionali e della politica, la massa dei cittadini europei e americani risulta solo spremuta e impoverita dal costo delle guerre. E la povertà non esercita soft power.