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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Una notiziola di qualche giorno fa è che Jeff Bezos è riuscito a inserirsi alla grande nella mangiatoia degli appalti federali per l’esplorazione spaziale; una mangiatoia che fino a qualche tempo fa sembrava avviarsi ad essere un’esclusiva di Elon Musk. Il faccendiere sudafricano non ha comunque di che lamentarsi, visto che in questi giorni ha rimediato un altro appalto da un paio di miliardi. Va notato però che l’azienda di Bezos, dal nome suggestivo di Blue Origin, nonostante sia stata fondata da parecchio tempo, non si è mai distinta per ricerche e tantomeno per risultati in campo tecnologico, ma solo per la fiduciosa attesa di contratti federali, che alla fine stanno arrivando.
Ovviamente certe fortune non si costruiscono solo sugli appalti pubblici, ma anche sui sussidi governativi, cioè i regali in cambio di nulla; ciò in nome del mantra secondo il quale dare soldi ai ricchi fa bene a tutta l’economia. Secondo le ultime stime per difetto, a Musk sarebbero già andati circa trentotto miliardi di sussidi governativi sotto varie forme, dalle erogazioni dirette agli sgravi e incentivi fiscali. Un quadro da cui esce che Musk è uno dei principali miracolati dell’assistenzialismo per ricchi. Alcuni commentatori hanno sottolineato la protervia di Musk nel farsi censore dei pubblici sprechi per poi andare a riscuotere allo stesso sportello del denaro pubblico.
Nella sua breve esperienza nell’agenzia governativa per l’efficienza, istituita da Trump, il faccendiere sudafricano ha effettivamente operato molti tagli; ma pare che non fosse quello il vero scopo della sua presenza in quel ruolo governativo di presunto castigatore degli sprechi. La frequentazione dell’amministrazione Trump ha consentito a Musk di coltivare i giusti contatti per ottenere altri appalti pubblici. I funzionari governativi che hanno aiutato Musk sono poi stati premiati con la classica porta girevole tra pubblico e privato, andando ad occupare posti ben remunerati nelle sue aziende; è appunto il caso di Katie Miller, passata dagli incarichi nell’amministrazione Trump ad occuparsi di business dell’intelligenza artificiale. Il sistema della porta girevole è l’indizio di qualcosa che va oltre le semplici relazioni illecite tra imprese private e pubblici funzionari; probabilmente i veri soggetti non sono lo Stato e le imprese, bensì le lobby, cioè cosche affaristiche che sono trasversali al pubblico ed al privato, ed anche al legale e all’illegale.
Musk è il frontman, l’uomo di facciata, di una di queste cosche affaristiche; perciò oltre a riscuotere appalti e sussidi governativi, e oltre a organizzare porte girevoli tra pubblico e privato, il faccendiere sudafricano non può rinunciare al ruolo di “ideologo della destra”. Una delle sue ultime esibizioni ha riguardato i problemi della civiltà occidentale, la quale, secondo Musk, sarebbe malata di eccesso di empatia. Insomma la solita fiaba sull’Occidente “troppo buono”, per cui gli altri se ne approfittano. Il punto però è che non va sottovalutato il fittizio gioco delle parti tra destra e “sinistra” che le provocazioni di Musk intendono sollecitare. Non sempre la retorica darwiniana riesce a creare una narrazione convincente a favore dell’assistenzialismo per ricchi; perciò l’assistenzialismo per ricchi deve ogni tanto cambiare “brand”, cioè diventare di “sinistra”, facendo appello alla retorica della solidarietà e dell’inclusione. Con queste tecniche pubblicitarie le amministrazioni democratiche di Clinton e Obama sono persino riuscite a venderci guerre “empatiche”, “umanitarie”, come l’aggressione alla Serbia ed alla Libia, che infatti hanno incontrato un notevole sostegno nella “sinistra”.
Anche l’emergenzialismo climatico ormai fa molto “sinistra”, ma finora è solo servito da alibi per spremere i contribuenti poveri con aumenti delle accise. Il Fondo Monetario Internazionale sollecita da anni l’istituzione di una “carbon tax”, una tassa sulle emissioni di CO2, che dovrebbe scongiurare il cambiamento climatico favorendo gli investimenti nell’energia verde. Beninteso, qui il problema non è affermare o negare il cambiamento climatico, ma semplicemente notare un ennesimo trasferimento di soldi dal contribuente povero verso le multinazionali. Se c’è davvero un’emergenza climatica, la soluzione logica sarebbe che i poteri pubblici se ne assumessero integralmente la responsabilità gestionale, evitando che si apra il solito calderone di sussidi e appalti governativi alle multinazionali, con relativi conflitti di interesse e porte girevoli tra pubblico e privato.
Anche in epoca psicopandemica c’è stata questa alternanza tra brand di destra e di sinistra per venderci le misure emergenziali. Nel 2020 la Giunta Fontana aveva avviato l’emergenza Covid come esperimento di autonomia differenziata all’insegna del suprematismo “lumbard”; ma, quando il brand etnico-razziale è stato screditato dallo sgretolamento della sanità lombarda, è venuta in soccorso la retorica di “sinistra” del ministro Speranza, riuscendo a spacciare il lockdown come un modo di castigare la “logica del profitto”; mentre nei fatti ha determinato la concentrazione della ricchezza a favore delle multinazionali. Persino il Green Pass è stato venduto al pubblico come esempio di solidarietà e di inclusione; in tal modo tutta l’evidenza dei conflitti di interesse tra multinazionali farmaceutiche e autorità sanitarie poteva essere liquidata come complottismo.
Secondo alcuni l’avvento di Robert Kennedy Jr alla gestione della salute pubblica negli USA, avrebbe dovuto bonificare questa fogna. In realtà pare proprio che di Bobby Jr se ne sbattano altamente, infatti continuano le porte girevoli dei funzionari della Food and Drug Administration che passano a percepire mega-stipendi nella multinazionale Pfizer.
La legge di bilancio del governo Meloni per il 2026 è stata accusata di proseguire le politiche di austerità. Non si tratta però di austerità per tutti, dato che per il welfare a favore delle imprese sono stati stanziati quattro miliardi da elargire attraverso una sorta di super-ammortamento fiscale. Queste operazioni assistenzialistiche per le imprese vengono immancabilmente etichettate con nomi suggestivi, come “Transizione 5.0”, cioè slogan che suggeriscono future meraviglie nell’innovazione tecnologica.
Ma ancora più interessante è vedere nel dettaglio cosa significhi dare soldi pubblici con il pretesto ufficiale dell’innovazione tecnologica. Significa che i soldi finiscono in Israele. Nello scorso agosto il governo Meloni ha avviato investimenti in startup israeliane di innovazione tecnologica; investimenti da finanziare attraverso Cassa Depositi e Prestiti. L’attuale titolare al MEF (il dicastero dell’Economia e delle Finanze) Giancarlo Giorgetti, è ministro nel profondo dell’animo, infatti nel governo Draghi era ministro per lo Sviluppo Economico, ed anche allora la sua meta preferita era Israele. Si parlava di collaborazioni sui semiconduttori, sulla transizione energetica all’idrogeno, ed altre prospettive avveniristiche. In seguito ad accordi italo-israeliani anche il ministero degli Esteri dal 2000 sostiene collaborazioni tra imprese italiane ed israeliane sulla base della stessa narrativa all’insegna dell’innovazione tecnologica ed energetica. Il ministero degli Esteri italiano sta quindi promuovendo da molti anni una cordata di aziende in Terra di Sion. Alla testa della cordata ci sono non soltanto aziende di dubbia nazionalità come Stellantis (italiana solo per la quantità di sussidi governativi che percepisce), ma anche aziende a partecipazione pubblica come Enel e Snam. Ovviamente da tutto questo castello affabulatorio sulle magnifiche sorti e progressive della collaborazione tecnologica con Israele, non è mai sortito niente di concreto in termini di innovazione.
In nome dell’arbitrario accoppiamento semantico Israele/innovazione anche l’Unione Europea stanzia molti soldi per finanziare le solite startup israeliane. Il termine “startup” indica aziende che nascono e muoiono come mosche, in un breve lasso di tempo. Si tratta perciò dello strumento ideale per distribuire denaro pubblico a soggetti privati senza dover rendere conto dell’effettivo uso del denaro. Ammesso che la nostra Corte dei Conti e la nostra magistratura penale volessero accertare il percorso dei soldi, non avrebbero comunque giurisdizione in Israele. Sarà per questo motivo che Israele è considerata ufficialmente la “Startup Nation”, cioè il paese che esprimerebbe al meglio il modello economico basato su queste nuove imprese, ovvero un mitico ecosistema funzionale alla “innovazione tecnologica” (uno pseudonimo della cleptocrazia).
Si tratta infatti di una mitologia sull’innovazione che ha ben poco di sostanzioso, visto che oggi l’Europa non ha ricavato alcun primato tecnologico da queste collaborazioni con Israele. Quel che è invece certo riguarda lo stato di insicurezza cronica dell’entità sionista. Nell’agosto scorso il nostro governo ha avviato altri investimenti in Israele; sebbene appena due mesi prima si sia visto come ogni investimento in Israele è gravemente a rischio. Un missile iraniano ha causato gravi danni al maggiore centro di ricerca tecnologica israeliano, il Weizmann Institute. La stampa sionista ha narrato le eroiche gesta dei ricercatori dell’istituto, i quali avrebbero sottratto alle fiamme i risultati di anni di ricerche. Come a dire che se fossero stati un po’ meno eroici, un sacco di soldi sarebbero andati in fumo. Non sembra una grande pubblicità per attirare veri investitori.
Missili iraniani hanno colpito anche un parco tecnologico di Microsoft in Israele. L’informazione ufficiale ha tenuto a precisare che il parco Microsoft non ha riportato molti danni e che i missili avrebbero colpito degli edifici residenziali limitrofi. In quegli edifici probabilmente soggiornava del personale della Microsoft; infatti la stessa Microsoft ha concesso ai suoi dipendenti in Israele dei congedi remunerati per riprendersi dal trauma. Il caso Microsoft-Israele ha comportato ulteriori sviluppi, con rivolte del personale, che si è cercato inutilmente di stroncare con degli arresti. Di recente Microsoft è stata costretta a interrompere, almeno ufficialmente, molte delle collaborazioni con le forze armate israeliane.
Già nel 2024 il fenomeno della “fuga dei cervelli” da Israele, cioè l’emigrazione di personale tecnico qualificato, come ingegneri, aveva assunto proporzioni vistose. Durante e dopo la guerra contro l’Iran, che ha messo ulteriormente in evidenza la vulnerabilità del territorio israeliano, le fughe si sono moltiplicate. Il quadro della situazione dimostra inequivocabilmente che Israele è attualmente un ambiente incompatibile con gli investimenti. Se ne deve concludere che quelli che vengono chiamati “investimenti” in effetti non sono tali. Si tratta semmai di riciclaggio, ma di un tipo particolare, in quanto non consiste nel ripulire denaro di provenienza illegale, bensì nel privatizzare abusivamente del denaro pubblico attraverso l’espediente dei falsi investimenti. In definitiva, il vero punto di forza di Israele rimane quello di svolgere il ruolo di sponda esterna per le cleptocrazie europee e americane.
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