Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Si dice che Trump non sia stato consultato e neppure avvertito dell’attacco dell’aviazione israeliana a Doha. Dato che l’attacco non avrebbe potuto avvenire senza la piena connivenza e la costante assistenza delle forze armate statunitensi, se ne dovrebbe concludere che ormai Trump sia diventato un Biden 2.0, un presidente di facciata, sempre meno capace di intendere e di volere. Ma il vero scoop relativo all’attacco a Doha è stato la notizia secondo la quale il Mossad avrebbe espresso la propria contrarietà, tanto da non partecipare all’operazione. Secondo la stampa israeliana Netanyahu avrebbe addirittura scavalcato un preciso impegno preso dal direttore del Mossad, David Barnea, nei confronti dell’emiro del Qatar.
L’ultimo incontro tra Barnea e l’emiro è avvenuto nell’agosto scorso, perciò quanto discusso tra i due si riferiva appunto all’ultima trattativa con Hamas in corso a Doha, in una pausa della quale è avvenuto l’attacco israeliano. Ma le relazioni tra il capo del Mossad ed alti esponenti del regime del Qatar sono sempre state intense. Un altro incontro è avvenuto a Roma lo scorso anno con il primo ministro del Qatar. L’anno precedente, il 2023, un altro incontro con l’emiro si era svolto a Varsavia. Durante i colloqui a Roma ed a Varsavia era presente anche il direttore della CIA, Bill Burns. Saranno servizi “segreti” ma ogni loro movimento è stato seguito dalla grancassa della stampa. Ma la cosa ancora più strana è che un direttore dei servizi segreti faccia direttamente politica estera incontrando di persona ministri e capi di Stato stranieri.
Fin dall’inizio del suo mandato come direttore del Mossad, Barnea ha svolto la sua attività nel feeling con l’opinione pubblica. Nel 2021, appena nominato alla direzione del Mossad, Barnea è diventato un divo dei media, che lo hanno descritto come “una macchina per uccidere che ama i gadget”; insomma, una sorta di James Bond. L’articolo su Barnea si concludeva con le sue stesse istruzioni rivolte agli agenti del Mossad, tra cui il tenere la bocca chiusa. Detta da lui l’esortazione non risultava molto credibile.
Nel giugno scorso, pochi giorni dopo l’attacco contro l’Iran, la stampa israeliana incentivava il divismo di Barnea, che aveva diretto il Mossad nell’operazione di “decapitazione” del regime iraniano. Il 18 di giugno la batosta inflitta dai missili iraniani non si era ancora delineata nella sua gravità, perciò l’esaltazione in Israele era alle stelle per quello che era considerato un “trionfo”. In quel clima euforico il quotidiano “Times of Israel” preconizzava un luminoso futuro in politica per David Barnea. L’articolo si concludeva però con una prolusione sull’umiltà di Barnea, che non avrebbe mai coltivato sogni relativi alla poltrona di primo ministro; infatti questi incarichi di potere mica vengono occupati per ambizione personale; no, solo per spirito di sacrificio e senso di responsabilità.
Nell’agosto scorso invece l’ex capo dell’IDF, Herzi Halevi, ha accusato Barnea di aver gestito la guerra contro l’Iran come una occasione di autopromozione, prendendosi i “meriti” dell’IDF e arrivando a diffondere, alla maniera di spot pubblicitari, dei video sugli attacchi; un fatto che avrebbe favorito l’Iran a prendere le sue contromisure.
In effetti il gossip su Barnea non ha risparmiato neppure la sua famiglia, che peraltro si è prestata volentieri a fornire dettagli biografici; infatti il fratello di David Barnea si è profuso a raccontare aneddoti commoventi persino relativi al periodo dell’attesa della nomina alla direzione del Mossad. Come si vede, essere assassini non è un problema, tutt’altro; l’importante è non essere persone serie.
Può darsi che la dissociazione di Barnea dall’attacco a Doha sia finta, soltanto scena per cercare di non bruciare gli storici rapporti del Mossad con il Qatar; così come è possibile che Barnea si stia costruendo un’immagine da israeliano “ragionevole” per prendere il posto di Netanyahu. Si potrebbero configurare anche altre ipotesi, non necessariamente incompatibili tra loro. Il dato certo è che Israele si autocelebra per capacità che non ha, e vive parassitando la potenza altrui, e non solo quella degli USA. In questo senso sarebbe assolutamente inconcepibile il sionismo senza cialtroneria, senza spacconate e senza millanterie. Una delle manifestazioni della cialtroneria israeliana consiste nello spacciare come minacce quelle che in realtà sono le sue rendite di posizione. Il caso più clamoroso riguarda l’asse tra Turchia e Qatar, che la stampa israeliana definisce una “minaccia crescente”, mentre invece l’asse tra Ankara e Doha è rivolto contro l’Iran, che rappresenta l’ostacolo geografico e politico al panturchismo di Erdogan, il quale vuole ricongiungere la Turchia con le popolazioni turcofone del Caucaso e dell’Asia Centrale. La prova dei veri intenti imperialistici anti-iraniani di Erdogan è il comportamento del suo attuale proxy a Damasco, il neo-presidente che ora si fa chiamare al-Sharaa; il quale, mentre Israele bombarda la Siria e le sue sedi governative, si adopera per far disarmare Hezbollah, avversario di Israele e alleato dell’Iran.
Bettino Craxi definiva Ernesto Galli della Loggia “intellettuale dei miei stivali”. In effetti il noto opinionista del “Corriere della Sera” basa i suoi interventi su uno schema ripetitivo e prevedibile che consiste in un mero richiamo alle vigenti gerarchie imperialistiche e antropologiche. Ormai il mainstream ha ammesso che il comportamento di Israele a Gaza ha oltrepassato il cosiddetto “diritto di difesa” e forse sta avvenendo qualche criminuccio di troppo. Qualche giorno fa Galli della Loggia ha appuntato la sua polemica sulla scelta delle parole per ciò che sta avvenendo a Gaza, chiedendosi perché non ci si limiti ad usare espressioni forti come “eccidio” o “massacro”, invece del termine “genocidio”, che implica riscrivere la Storia negando l’unicità del genocidio nazista nei confronti del popolo ebraico. Per Gaza si parla di sessantamila morti, un numero non paragonabile con le proporzioni dell’Olocausto.
Certo, la macchina logistica del regime nazista, nella quale sono stati macinati ebrei, zingari, slavi, disabili ed altri reietti, rimane sinora un unicum nella Storia e, probabilmente, è irripetibile. Ma il fatto che il governo israeliano non dimostri una capacità logistica al livello del regime nazista, non toglie nulla all’evidenza di un genocidio in atto a Gaza. Israele non è neanche lontanamente una potenza comparabile con la Germania nazista, infatti dipende in tutto e per tutto dalle armi e dai soldi che arrivano dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea e dal Regno Unito. Israele non potrebbe sopravvivere nemmeno ventiquattro ore senza aiuti costanti. In effetti gli israeliani non sono solo aiutati, ma persino vezzeggiati dai governi occidentali. Adesso scopriamo pure che i soldati dell’IDF possono ritemprarsi nei resort italiani sotto la protezione del governo.
Galli della Loggia si è fatto sgamare mettendo involontariamente in evidenza il vero problema, cioè che il genocidio a Gaza è un affare dell’intero Occidente; un genocidio che, al di là delle ipocrisie ufficiali, ha moltissimi fan sfegatati dalle nostre parti. La cosa non deve sorprendere, dato che “Occidente” è solo un eufemismo per non dire esplicitamente suprematismo bianco. Il fatto che Israele sia completamente dipendente dai paesi occidentali, non implica assolutamente che sia un esecutore di ordini oppure un proxy. Israele è un figlio viziato, drogato e mantenuto che non obbedisce a papà, ma lo mette spesso e volentieri davanti al fatto compiuto, riscuotendone però sistematicamente la protezione e la complicità. Il rapporto di dipendenza comporta inevitabilmente dei “feedback”, per cui alla fine non si capisce chi dipende di più dall’altro, e persino le distinzioni tra Stati diventano evanescenti.
Tra gli apologeti dell’imperialismo occidentale Galli della Loggia non emerge per particolari competenze; anzi, diciamo pure che non è molto sveglio. Adriano Sofri fa certamente molto meglio di lui. Sarebbe interessante capire i motivi per i quali Sofri è stato messo in mezzo per l’assassinio del commissario Calabresi. Una possibile ipotesi è che si sia trattato di una guerra tra apparati, cioè un regolamento di conti tra fazioni delle polizie e dei servizi segreti. I poliziotti non crescono mai, rimangono degli eterni adolescenti che cercano di vendicarsi sugli altri dei propri stessi sensi di colpa. Magari gli stessi soggetti che hanno eliminato Calabresi per impedirgli di parlare, poi hanno voluto farla pagare a quei loro colleghi che avevano creato mediaticamente un capro espiatorio troppo ingombrante per essere gestito. Chi ha visto Sofri all’opera negli anni ’70 è spesso rimasto impressionato dalla sgradevolezza del personaggio, da quel suo sorrisetto ambiguo e sprezzante da manipolatore. Al di là delle sensazioni, c’era anche da chiedersi quale fosse la provenienza del denaro su cui Sofri e la sua corte poggiavano il proprio prestigio di “rivoluzionari”. In un’epoca di conclamata demeritocrazia, occorre comunque riconoscere che Sofri ha sempre esibito delle notevoli abilità di giocoliere di parole. Una sua performance da segnalare, riguarda appunto le motivazioni per le quali non si è sentito neanche lui di qualificare come “genocidio” ciò che viene perpetrato a Gaza. Il testo, pubblicato dal quotidiano il “Foglio”, crea un vortice di parole, di suggestioni e di esche narrative, che distrae da un unico punto fermo, dato arbitrariamente per scontato, cioè il falso mito di Israele come grande potenza. La fittizia immagine di un Israele grande potenza consente di far credere alla pubblica opinione che l’entità sionista sia un soggetto autonomo, quindi si può sostenere la farsa dell’equiparazione tra la critica ad Israele e l’antisemitismo.
Non a caso Sofri riprende la narrativa mediatica sulla presunta vittoria riportata da Netanyahu su Hezbollah; un “successo militare” che avrebbe poi aperto la strada alla caduta di Assad in Siria nel dicembre scorso. In realtà nessun elemento oggettivo conforta questa narrativa trionfale, a cominciare dal noto atto terroristico tramite i cercapersone, che non sono attrezzi da personale militare, semmai sanitario e di protezione civile. C’è inoltre un segnale sostanziale delle difficoltà incontrate dall’esercito israeliano nel sud del Libano, cioè il fatto che a un certo punto il fuoco dell’IDF si è concentrato sulle fortificazioni dell’UNIFIL, cioè contro la missione di “peace keeping” patrocinata dall’ONU. C’è stato un evidente tentativo di far sloggiare le truppe ONU da quelle postazioni, nelle quali sono acquartierati anche militari italiani. A sostegno degli attacchi israeliani c’è stata una campagna mediatica tendente a convincere le truppe ONU a lasciare il campo. Una esortazione davvero criminale, considerando che, una volta lasciati i bunker, i militari ONU si sarebbero trovati allo scoperto al centro di una battaglia tra IDF ed Hezbollah per occupare quelle posizioni. Pur di salvare la pelle, persino la forza armata della misera Italietta è riuscita a tenere testa agli attacchi israeliani, ciò semplicemente impedendo ai soldati di uscire dai solidi (e, pare, anche lussuosi) bunker che li accolgono. Attacchi di droni israeliani contro i militari italiani in Libano si sono verificati persino in questi ultimi giorni; il motivo di questa ostinazione israeliana è evidente, cioè mettere le mani su qualcosa di concreto, in modo da controllare un territorio che altrimenti non sarebbe nella propria disponibilità.
Il motivo per cui Hezbollah ha dovuto accettare una tregua nel novembre scorso è che Beirut era costantemente sotto le bombe dell’aviazione israeliana; ovviamente tutte bombe di produzione statunitense ed europea. Il problema è che a tutt’oggi i bombardamenti israeliani sul Libano e sulla Siria continuano, nonostante la tregua con Hezbollah e la caduta di Assad. Ciò che ha cambiato gli equilibri dell’area è stato il fatto che la Turchia di Erdogan ha rotto i canali di rifornimento tra l’Iran ed Hezbollah. Inoltre il personaggio che Erdogan ha insediato a Damasco continua a dichiarare che i suoi nemici sono Hezbollah e l’Iran, sebbene sia Israele a bombardare Damasco e ad occupare il sud della Siria. Erdogan fa chiacchiere contro Israele ma in realtà spara contro l’Iran. In questo non c’è niente di inedito. Il progetto imperiale di Erdogan prevede un collegamento territoriale tra la Turchia e le popolazioni turcofone dal Caucaso fino all’Asia centrale. In questo progetto imperiale turco l’intralcio è l’Iran, un paese a dominio persiano, ma con una grande minoranza turco-azera all’interno. Durante un viaggio in Azerbaigian nel 2020 Erdogan ha sfacciatamente esibito il suo panturchismo lamentando che le popolazioni turco-azere fossero rimaste separate tra loro e con la Turchia a causa dell’Iran. Purtroppo per Erdogan il “regime change” in Iran, organizzato dal Mossad con base in Azerbaigian, non ha funzionato; perciò ora Erdogan si ritrova a fare la figura del quaquaraquà in Siria, mentre Netanyahu invece fa il prepotente, arriva alle porte di Damasco, ed ora bombarda persino il Qatar, che è il principale finanziatore dei sogni di grandeur turca. Del resto l’imperialismo funziona così: ci sono intrecci e complicità, ma anche competizioni e colpi bassi tra gli stessi complici.
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