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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Al di là dei contesti radicalmente diversi, si può riconoscere lo schema ricorrente, l’invarianza; che in questo caso è la cosiddetta “arte di governo”, ovvero l’eludere le proprie responsabilità tramite il vittimismo, la contrapposizione pseudo-ideologica e la gazzarra da talk-show. L’arte di governo è trasversale ai vari governi ed ai differenti schieramenti politici, che convergono nella pratica di non precisare i confini tra lecito e illecito. La trasparenza della contestazione e della sanzione dell’eventuale illecito viene sostituita con una generica colpevolizzazione dei cittadini, con la quale giustificare pressioni indebite, terrorismo psicologico e discriminazioni. In epoca psicopandemica si è costruito su queste basi di incertezza giuridica e linguistica una sorta di virtuale obbligo vaccinale, la cui attuazione è stata condotta con strumenti arbitrari di limitazione dei diritti civili. Persino quando l’obbligo vaccinale è stato apparentemente proclamato per legge, si è però continuato nella farsa di voler estorcere la firma al “consenso informato”, negando la somministrazione del siero a coloro che volevano aderire all’obbligo manifestando chiaramente il proprio dissenso. L’ossimoro dell’obbligo che presuppone il consenso, è stato però avallato e santificato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 14/2023, per cui si è creata una sorta di giurisprudenza in funzione dell’irresponsabilità del governo e della colpevolizzazione generica del cittadino comune. Lo schema funziona all’incontrario del famoso aforisma dell’Uomo Ragno, perché più potere si ha e più si riesce a scaricare sugli altri ogni responsabilità. Non c’è da stupirsi che la nostra Consulta si sia avventurata in tali forzature del senso logico, visto che in precedenza aveva persino riformato l’aritmetica, stabilendo che la maggioranza elettorale non è il 50% +1, bensì il 40%. “Costituzionalista” è diventato infatti sinonimo di ciarlatano.
La vicenda sui contrasti tra il governo Meloni e gli attivisti umanitari in navigazione verso Gaza ha seguito un percorso analogo di sistematica evanescenza dei confini giuridici e linguistici: la “legalità” può proclamare una cosa e il suo contrario, e la comunicazione fa a meno della sintassi, per cui è possibile esprimersi con interiezioni intimidatorie, come “complottista!”, “no-vax!”, “Hamas!”, “7 ottobre!”. Tra le navi degli attivisti umanitari diretti verso Gaza che sono state abbordate dagli israeliani, risultano ben tre vascelli battenti bandiera italiana, sui quali quindi il nostro governo aveva piena giurisdizione. Se il comportamento degli attivisti della flottiglia in acque internazionali avesse configurato un qualunque illecito, il governo Meloni, che ha giurisdizione su queste navi, avrebbe dovuto intervenire per prevenire imbarazzi ed incidenti con il governo israeliano. Se invece non c’era illecito da parte delle navi battenti bandiera italiana, queste andavano tutelate da abusi commessi da governi stranieri. Il governo a guida “sovranista” e i suoi media di supporto hanno scelto invece la strada della colpevolizzazione generica, dei proclami fumosi e della fuga dalla responsabilità; anzi, il nostrano club degli amici del genocidio ha addirittura auspicato che fosse Israele a fare da castigamatti nei confronti di cittadini italiani.
La Meloni ha cercato, com’è suo costume, di buttare la questione in iperbole e caricatura, affermando che il nostro governo non avrebbe potuto dichiarare guerra ad Israele. In realtà il problema non è la mancata dichiarazione di guerra, bensì la mancata protesta diplomatica, dato che il nostro ministro degli Esteri si è limitato a elemosinare per i cittadini italiani sequestrati in acque internazionali da Israele un trattamento meno vessatorio. A parziale scusante per la Meloni e la sua corte dei miracoli, c’è da osservare che, sebbene la maggioranza delle navi della flottiglia battesse bandiera polacca, il governo polacco non ha tenuto un comportamento molto diverso dal nostro; eppure attualmente la Polonia è un paese che si distingue dagli altri per machismo e retorica nazionalistica.
Aleksandr Herzen diceva che il nichilismo non è il voler ridurre le cose a nulla, bensì riconoscere il nulla quando lo si incontra. Gli Stati non esistono come attori politico-istituzionali, e non sono neppure dei simulacri giuridici; semmai dei simulacri tout court, che fanno da alibi ad una faida tra bande criminali e cosche affaristiche. Gli Stati rimangono nozioni chimeriche, ma i regimi hanno pur sempre bisogno di una continuità materiale, perciò gli schemi di potere non possono riprodursi platonicamente come se discendessero da un iperuranio. Quando il biopotere si è presentato nella forma del trattamento sanitario obbligatorio di massa, la gran parte dell’opinione pubblica ha aderito entusiasticamente; ora che il biopotere si presenta invece nella forma esplicita del genocidio, esso viene rifiutato con sdegno persino da tanti squadristi del politicamente corretto. A fare da concreto filo di continuità tra le varie fasi del biopotere, c’è quindi il nucleo solido dell’oligarchia; di conseguenza il Mattarella che criminalizzava i renitenti al vaccino, adesso tratta gli attivisti umanitari come bambini sconsiderati. Oggi come in passato, a fornire il supporto mediatico a Mattarella non c’è soltanto il giornalismo servo, ma soprattutto il giornalismo padrone; quello dei Mentana e dei Vespa, che non sono dei semplici dipendenti, bensì dei diretti esponenti dell’oligarchia.
La storia dei droni e jet di Putin sulla Polonia e sull’Estonia ha suscitato in molti una struggente nostalgia per i bei tempi di una volta, quando gli UFO venivano avvistati nei cieli e gli ufologi erano chiamati a illuminarci su cosa accadeva. La narrativa ufologica, pur ricca di aneddotica, alla fine però rimandava sempre al mistero, come i telefilm della serie “X Files” che, dopo tanto narrare, lasciavano quasi tutte le domande in sospeso. Di Putin invece, grazie ai nostri media, sappiamo tutto: i piani strategici, i desideri repressi, i pensieri nascosti, le intenzioni recondite e i sogni segreti; ma, soprattutto, ne conosciamo alla perfezione la cartella clinica, di cui non ci sfugge nulla. Massimo D’Alema era stato messo alla gogna a causa della sua presenza alla sfilata militare di Pechino per celebrare la vittoria sul Giappone nella seconda guerra mondiale; ma lo scaltro D’Alema ha trovato il modo di rilanciare le sue quotazioni offrendo in pasto ai media la notizia da loro più ambita, cioè succosi dettagli, da lui raccolti in prima persona, sul precario stato di salute di Putin.
L’euforia mediatica per la prospettiva di un Putin moribondo rientra comunque nel mito costruito attorno al personaggio, come se l’eccezionalità, in positivo o in negativo, appartenesse alla sua figura e non a quella del suo predecessore, Boris Eltsin, il russo più amato dal Fondo Monetario Internazionale, e quindi dai media euro-americani. Noto ai più per il suo alcolismo e per il bombardamento del parlamento russo, Eltsin ha caratterizzato la sua presidenza appunto per il rapporto speciale da lui intrattenuto con il FMI, di cui era un beniamino e da cui ha ricevuto direttive e prestiti. La Russia fu ammessa formalmente nel FMI nel 1992. Sei anni dopo gli osservatori registravano il “fallimento” del FMI nel “salvare” la Russia, per cui ogni prestito da parte della prestigiosa istituzione finanziaria internazionale portava regolarmente a disastri ed a nuovi prestiti, quindi ad un indebitamento crescente. All’epoca uno studio della Heritage Foundation (l’influente “think tank” conservatore con sede a Washington) rimproverava al FMI un eccesso di generosità, facendo capire che le corporation statunitensi speravano invece in un crollo totale della Russia per poterla finalmente smembrare in tanti staterelli-feudi delle multinazionali.
Nella vita infatti ci sono anche le botte di fondoschiena. Nel 2000 un Putin appena insediato alla presidenza, accoglie a Mosca una delegazione del FMI per cercare di ottenere un altro prestito. Fortuna vuole che, a causa delle pressioni della Heritage Foundation, il FMI stavolta sospenda il programma di “salvataggio” della Russia deciso l’anno prima e neghi il prestito. Ritrovatasi improvvisamente senza i “salvataggi” del FMI, la Russia un po’ alla volta si salverà sul serio. La Russia deve quindi la sua salvezza non a Putin, ma alla inconsapevolezza della Heritage Foundation. Solo chi faccia parte di un “think tank” americano può essere talmente deficiente da credere che il FMI possa davvero salvare qualcuno.
Il FMI fa egregiamente il suo lavoro, che è quello di una lobby dei creditori, perciò deve lasciare i suoi “assistiti” sempre più indebitati. La sedicente “scienza economica” è criptica solo se la si vuol rendere tale. Infatti non ci vuole una cima per capire che se lo scopo (la “mission”, come si dice oggi) di una istituzione è quello di metterti nei guai, allora sarà salutare starne alla larga. Non è soltanto la Heritage Foundation a non percepire pienamente il grado di tossicità del FMI; infatti nella famosa intervista televisiva rilasciata ad Oliver Stone (trasmessa nel 2017), persino Putin si dimostrava inconsapevole dello scampato pericolo e continuava a rivendicare il suo desiderio di collaborazione con il FMI.
Anche Javier Milei, come già Eltsin, è entrato nelle grazie del FMI. Dal 2023 il motosegaiolo è celebrato dal FMI e dai media come colui che avrebbe finalmente abolito in Argentina la politica degli “sprechi”; ma il risultato, peraltro scontato, delle politiche di Milei è stato invece il default finanziario e la necessità di nuovi prestiti da parte del FMI. L’ovvia conseguenza della pluridecennale relazione tossica tra l’Argentina ed il FMI, è che l’Argentina è sempre più intossicata di debiti.
Ci si interroga sulla “credibilità” di una istituzione come il FMI, dato che continua ad erogare prestiti ad un governo che ha già dimostrato di non poter ripagare i debiti. In realtà alla fine si è visto che ha avuto ragione il FMI; infatti in soccorso di Milei sono adesso arrivati venti miliardi in prestito da parte degli USA; quindi ci pensa il contribuente americano. Una volta “contribuente” era una nozione interclassista, mentre oggi si identifica con i ceti più poveri, dato che le corporation pagano sempre meno tasse.
Per l’Argentina purtroppo non si profila alcun colpo di fortuna analogo a quello toccato alla Russia nel 2000. L’anno scorso i segnali di default dell’Argentina erano già inequivocabili; ma ovviamente la Heritage Foundation continuava a celebrare il “miracolo” di Milei, a fronte dei presunti fallimenti dei vicini paesi “socialisti”. Pare quindi che non ci sia nessuna speranza che il FMI rinunci a “salvare” l’Argentina.
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