Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Appare improprio accusare di essere "no pax" la manifestazione indetta per il prossimo 15 marzo dal giornalista Michele Serra. Allo stato attuale infatti non si configura alcuna ipotesi di pace, dato che, per farsi prendere sul serio dalla Russia, l’amministrazione Trump dovrebbe mettere sul tavolo questioni come il ritiro non solo delle sanzioni ma anche dei missili nucleari dall’Europa. Ammesso e non concesso che Trump voglia davvero affrontare certi temi, andrebbe comunque ricordato che essi sono solo in parte nella sua disponibilità, per cui dovrebbe vedersela col Congresso e, soprattutto, con le lobby che lo controllano. Al momento l’unico cambiamento significativo tra Biden e Trump sta nello “story telling”, cioè si è lasciato da parte un trionfalismo bellicistico ormai screditato e perdente, per adottare una narrazione affaristica che si spaccia come “vincente”, ma solo perché rimane ancora sul piano dell’annuncio e dello spot pubblicitario. Non si può escludere in assoluto che in futuro arrivino dei veri cambiamenti, ma per ora il messaggio di Trump e soci consiste nel mantra auto-celebrativo del “se ci fossi stato io - ora ci sono io”. Adesso ci vengono a raccontare che il video porno-affaristico su Gazaland avesse un intento satirico; ma, persino se fosse vero, rimarrebbe comunque il fatto che Trump ha ritenuto che quell’iperbole fosse funzionale al suo culto della personalità. Prima di stabilire se l’avvento di Trump abbia portato una palingenesi oppure una catastrofe, occorrerebbe vedere se i cambiamenti ci sono davvero o parliamo di nulla. Da sempre il messaggio delle destre si riassume nello slogan “ce l’ho duro”, reso popolare da Umberto Bossi; ma l’incantesimo si regge solo sul fatto che c’è una “sinistra” (?) disposta a far finta di crederci.
Altri commentatori hanno paragonato la manifestazione di sabato prossimo alla famigerata “marcia dei quarantamila” del 1980 a Torino, indetta in contrasto con lo sciopero alla FIAT. In effetti entrambe le manifestazioni risultano convocate da giornali della famiglia Agnelli-Elkann, di cui Michele Serra è un dipendente. Su quella manifestazione del 1980 si edificò un mito pseudo-sociologico su fantomatici “ceti emergenti” che si ribellavano alle sclerosi della vecchia classe operaia. A distanza di tanti anni possiamo dire di sapere cosa si stava coprendo con quella messinscena della marcia e con la fiaba dei ceti emergenti.
Ce lo ha rivelato qualche giorno fa addirittura un organo di establishment, cioè il quotidiano confindustriale “il Sole 24 ore”, il quale ci ha fatto sapere che i sussidi e contributi versati dai governi alla FIAT e a Stellantis ammontano a molti di più dei duecentoventi miliardi di euro sinora stimati. I soldi pubblici versati agli Agnelli-Elkann sono stati talmente tanti che forse non sarà mai possibile quantificarli con precisione. L’alibi ufficiale per legittimare i finanziamenti pubblici alla FIAT e a Stellantis è sempre stato quello di sostenere l’occupazione. La realtà è l’opposto: grazie al supporto del denaro pubblico gli Agnelli-Elkann hanno potuto fregarsene della produzione, quindi licenziare con disinvoltura e riconvertirsi come operatori finanziari, facendosi anche una propria banca. Il fatto che il denaro pubblico erogato con una motivazione ufficiale venga poi distratto e utilizzato per altri scopi, non può accadere senza una serie di reati, dal peculato alla frode, commessi in associazione a delinquere tra soggetti privati e funzionari pubblici. Quando però il reato è sufficientemente grande da determinare una drastica concentrazione di ricchezza, si crea di per sé una nuova “legalità”. Il contribuente povero (cioè l’unico contribuente vero, dato che non può rivalersi su nessuno) viene perciò fregato due volte: perché è costretto a fare lui l’elemosina ai ricchi, e perché si trova a finanziare il proprio licenziamento.
Da qualche anno a questa parte, anche a causa della pressione delle notizie diffuse su internet, i media mainstream sono stati costretti a rompere il tabù informativo sull’assistenzialismo per ricchi. Qualche settimana fa un altro organo di establishment, il “Washington Post”, ci ha comunicato che Elon Musk ha riscosso in tempi recenti e a vario titolo (contributi, sussidi, prestiti e appalti) dal governo federale qualcosa come trentotto miliardi di dollari. Sempre secondo i dati del “Washington Post” l’amministrazione Biden si è prodigata in questo assistenzialismo verso le imprese di Musk. Dato che Musk di per sé non sembra proprio un tipo capace di attirarsi tanta benevolenza per le sue doti di simpatia, se ne deve arguire che sia anche lui l’uomo di facciata di qualche lobby d’affari trasversale al pubblico e al privato, ed anche al legale ed all’illegale.
Ad onta delle notizie ormai disponibili in ambito mainstream sui soldi pubblici riciclati fraudolentemente in ricchezza privata, Michele Serra va in tv a propinarci la fiaba sul miliardario Elon Musk, il quale sarebbe ormai talmente potente di suo da permettersi di sostituire la democrazia con l’efficienza. Siamo alla fiaba sadomasochista, per cui ci si narra la presunta alternativa tra la geometrica potenza della tecnocrazia di Musk e la cara vecchia democrazia, romantica ma un po’ inetta e pasticciona. Non solo si regge il gioco ad una cleptocrazia che si spaccia per tecnocrazia, ma c’è di peggio; secondo Michele Serra quelli come Musk farebbero parte di una specie di superuomini dotati del superpotere di creare dal nulla tecnologie e miliardi. Ecco come il pensiero cosiddetto “progressista” va ad avallare il mito reazionario della dicotomia razziale tra i ricchi e i poveri, tra esseri superiori ed esseri inferiori. Queste sono fiabe apologetiche e inni di lode, ma Michele Serra ci mette la faccina triste e perciò riesce a spacciare la sua miliardariolatria come una critica e una denuncia. Alla fine non è neanche vero che la manifestazione di Serra consista in una sorta di “European Pride”; semmai sembra un rito di sottomissione camuffato da resistenza, per cominciare ad adattarsi al ruolo passivo nella relazione sadomasochista con i nuovi potenti, Musk e Trump.
Ringraziamo Clotilde
Molti commentatori hanno ritenuto osceno il noto video pubblicitario di Trump sulla futura “Gazaland”; ed in effetti osceno è, ma nel senso tecnico del termine, in quanto va catalogato nel genere pornografico. Si tratta di tecnica pornografica non applicata alla rappresentazione del sesso, bensì di un altro oggetto del desiderio, in questo caso il denaro e gli affari; perciò anche il “superdotato” protagonista è un miliardario che esibisce la sua ipertrofia non nei genitali ma nella capacità di far soldi. Da sempre la comunicazione pubblicitaria ha fatto ricorso anche alla pornografia e le ha fatto da battistrada. Nei suoi spot l’attuale amministrazione statunitense esibisce in modo scurrile le sue priorità affaristiche non soltanto al di fuori dei canoni del politicamente corretto, ma anche oltre il consueto ritegno dei rapporti sociali e diplomatici. Non è la prima volta che la propaganda USA ricorre a forme di comunicazione estrema e fuori dalle righe. Nel 1986 il poeta sovietico Yevgeny Yevtushenko adoperò il termine “warnography” in merito alla produzione cinematografica hollywoodiana di argomento bellico. Yevtushenko si riferiva a film come “Alba Rossa” del 1984 e “Rambo 2” del 1985. Quei film rappresentavano la violenza in termini plateali e caricaturali, in linea col desiderio di rivincita militare che la frustrazione dell’esperienza vietnamita aveva lasciato in gran parte dell’opinione pubblica statunitense. Il presidente Reagan citò Rambo come suo modello, anche se facendo apparire le sue parole come estemporanee e fuori protocollo. Negli anni ’80 la narrativa statunitense sulla sconfitta in Vietnam consisteva infatti nel classico alibi “troppobuonistico”, cioè nel mantra: “abbiamo perso la guerra perché ci siamo fatti troppi scrupoli morali”.
Trump racconta una fiaba analoga alla “middle class” americana che si è impoverita drammaticamente negli ultimi trenta anni: “siete diventati più poveri perché i vostri governi hanno pensato prima agli altri e dopo a voi, e gli altri paesi se ne sono approfittati”. L’attacco di Trump all’USAID rientra anch’esso in questa narrativa, poiché la gran parte dell’opinione pubblica americana ignora che quell’agenzia governativa è una fabbrica di colpi di Stato all’estero, ma crede che davvero si occupi di aiuti allo sviluppo dei paesi più svantaggiati.
La narrativa interclassista di Trump ovviamente non la racconta come è realmente andata. L’imposizione del dollaro come moneta di pagamento internazionale favorisce le multinazionali finanziarie, ma tiene anche il valore del dollaro artificiosamente alto, per cui rende le merci americane meno competitive sul mercato estero e sul mercato interno. La scontata conseguenza è stata la deindustrializzazione e la delocalizzazione di molte produzioni. Ora Trump promette ai suoi follower di reindustrializzare gli USA facendo il “cattivo”. In realtà Trump, a parte un po’ di retorica sulle criptovalute, non fa nulla per togliere il dollaro dal trono di moneta degli scambi internazionali; anzi, minaccia i BRICS per il loro tentativo di servirsi del dollaro il meno possibile. La politica dei dazi di Trump potrebbe funzionare solo se contestualmente si rimuovesse il dollaro dal ruolo di moneta di scambio internazionale, ma di questa intenzione non c’è traccia.
Secondo Trump anche l’Unione Europea sarebbe nata apposta per fregare gli USA, ma l’evidenza storica è che l’UE si è approfittata della eccessiva valutazione del dollaro molto meno di quanto avrebbe potuto; infatti anche il valore dell’euro è stato tenuto artificiosamente alto, nonostante la moneta unica europea sia molto indietro al dollaro come mezzo di pagamento degli scambi internazionali. L’euro sopravvalutato ha deindustrializzato l’Europa un po’ meno di quanto il dollaro abbia fatto negli Stati Uniti, ma comunque l’ha deindustrializzata.
L’aspetto puramente narrativo e pubblicitario prevale anche nel caso dello strombazzato accordo di estrazione mineraria che dovrebbe compensare il denaro che l’amministrazione Biden avrebbe mandato all’Ucraina. Neanche in questo caso si sa di cosa si stia effettivamente parlando, cioè di quanto valga il sottosuolo di quel che rimane dell’Ucraina sotto il controllo di Kiev. Per Trump l’importante era di gratificare il suo pubblico umiliando l’accattone che per tre anni si sarebbe portato a casa i miliardi dei contribuenti americani mentre questi vedevano le proprie infrastrutture andare in pezzi. Non è certo però che lo spot dello scontro con Zelensky nello studio ovale della Casa Bianca abbia funzionato appieno, a parte che con i trumpiani “senza se e senza ma”. Zelensky ha recitato molto bene davanti alle telecamere il ruolo della vittima, facendo commuovere persino molti dei suoi critici. Zelensky sarà anche un “comico mediocre”, come dice Trump, ma è comunque un attore professionista, perciò non è stato saggio competere con lui davanti a un pubblico. A parte l’aspetto estetico, neppure il potere di ricatto della dirigenza ucraina va sottostimato. Alla mangiatoia degli “aiuti” all’Ucraina hanno attinto soprattutto l’amministrazione Biden ed i suoi clienti, ma non sarebbe realistico ritenere che i repubblicani si siano fatti mancare le occasioni di arricchimento personale. I congressmen americani hanno visitato più volte l’Ucraina in delegazione bipartisan. Tanto fervore di pellegrinaggi a Kiev potrebbe spiegarsi se si rivelasse cosa contenevano al ritorno i bagagli dei congressmen coperti da immunità diplomatica.
La banda Trump pensa di poter trattare l’Ucraina come un paese europeo qualsiasi, dimenticando che le milizie banderiste integrate nell’esercito ucraino oggi dispongono di armi sofisticate e di un addestramento al combattimento che deriva da tre anni di guerra vera. Immaginiamoci che fine farebbero contro le milizie banderiste i soldatini della NATO con la loro esperienza da parata e da “peace keeping”. Inoltre attualmente ci sarebbero cinque o sei milioni di profughi ucraini, dei quali circa un milione nella sola Polonia. Ci sarebbe da chiedersi quanti di questi profughi costituiscano “cellule dormienti” delle milizie banderiste, che un domani potrebbero impadronirsi di basi militari e persino di armi nucleari. Al di là delle insolenze di Trump e delle chiacchiere giornalistiche sulla “frattura” tra le due sponde dell’Atlantico, gli USA rimangono legati a filo doppio all’Europa finché ci tengono armi nucleari. Forse anche Trump crede che il problema della minaccia banderista possa essere risolto dai russi, i quali hanno proclamato il loro proposito di “denazificare” l’Ucraina. Lo spettacolo penoso dell’inconsistenza delle oligarchie euro-americane ha portato ad una distorsione ottica per la quale si mitizzano le capacità della dirigenza russa. Purtroppo l’esperienza siriana ha dimostrato che l’affidabilità dei russi è stata sovrastimata.
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