Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Una svolta epocale non si nega a nessuno e sarebbe stato ingiusto escludere il neo-vicepresidente USA J.D. Vance dall’affollato club degli araldi di palingenesi. D’altra parte il famigerato discorso di Mattarella su Monaco ed il discorso di Vance a Monaco hanno qualcosa in comune, e cioè la struttura retorico-narrativa del ”siamo stati troppo buoni”, che è più significativa e costante dei contenuti o dei pretesti contingenti. Mattarella ha detto che nel 1938 a Monaco gli anglo-francesi si erano fidati ed il Terzo Reich si era approfittato di tanta ingenua disponibilità. Vance ha raccontato a sua volta che gli USA hanno finanziato l’Europa ma, nonostante tanta generosità, l’ingrata EU si è allontanata dai valori comuni, tanto da mettere addirittura in discussione la mitica “democrazia”. Vance ha comunque ammonito che
ora “c’è un nuovo sceriffo in città”; solo che anche questa barzelletta è vecchia, e infatti sui luoghi di lavoro viene propinata ad ogni arrivo di un nuovo “manager”.
Sinora l’amministrazione Trump si è mossa soprattutto sul piano delle pubbliche relazioni cercando di vendere alla sua opinione pubblica una eventuale ritirata dall’Ucraina come un proprio successo ed una sconfitta della sola Europa. L’avvio del negoziato con la Russia viene attualmente fatto oggetto dello stesso tipo di pensiero magico con il quale è stata trattata la questione della guerra. Un negoziato può risultare complesso quasi quanto una guerra ed il fatto di voler trattare (ammesso che lo si voglia realmente) non comporta automaticamente la capacità di farlo. La posizione di Trump è infatti intrinsecamente schizofrenica. Da un lato si dice di voler allentare la tensione con la Russia, dall’altro lato si impone agli europei di comprare sempre più armi e più gas dagli USA, il che presuppone la permanenza delle tensioni con la Russia.
Il segretario della NATO, Mark Rutte, non si è fatto fuorviare dalle tante incognite del discorso di Vance, ha fatto finta di credere che tutto fosse chiaro ed ha propinato
la soluzione preconfezionata, esortando gli europei a non lamentarsi di essere stati esclusi dal tavolo delle trattative di pace, ma di sforzarsi di contare di più per arrivarci. Il rimedio all’insignificanza dell’Europa ovviamente è di spendere di più in armi, anche per fare in modo da garantirne il flusso verso Kiev. Vance avrebbe portato la “svolta epocale”, però Rutte dice le stesse cose di prima e che ripeterebbe in qualsiasi caso.
Dal punto di vista dell’effettiva capacità militare le dichiarazioni di Rutte sono puro nonsenso, dato che le armi americane non hanno offerto una grande prova sul campo, mentre produrre in Europa richiederebbe preventivamente un ripensamento strategico per capire cosa occorre, e solo dopo stabilire il budget necessario. Il nostro zelante Rutte invece è un disco rotto; non soltanto Rutte recita continuamente e acriticamente il mantra dell’aumento delle spese militari sparando a casaccio percentuali di PIL, ma ci suggerisce persino dove trovare i soldi. Il tesoretto a cui attingere è sempre quello preferito dal “capitalismo reale” (alias assistenzialismo per ricchi), cioè il denaro pubblico. I governi dovrebbero finanziare gli acquisti di armi saccheggiando dalle risorse della sanità e della previdenza sociale. Il taglio delle pensioni viene sempre spacciato come la panacea di tutti i mali, il rimedio sovrano per ogni emergenza, passata, presente e futura; infatti fu così che da noi nel 2011 il governo Monti “salvò” l’Italia dal default finanziario. Adesso
la stessa “cura” (il taglio delle pensioni) è chiamata a salvarci dall’invasione russa.
Forse la geopolitica è sopravvalutata; infatti
Rutte ce l’aveva con i pensionati da molto prima di diventare segretario della NATO. Dal forum di Davos due anni fa Rutte se la prendeva con Francia e Italia, colpevoli, secondo lui, di eccessiva spesa pensionistica. All’epoca Rutte non aveva ancora rodato il pretesto della minaccia russa, per cui ammetteva tranquillamente che il suo obbiettivo era la privatizzazione della previdenza attraverso i fondi pensione. Altro che “tagliare”, qui si tratta di privatizzare una discreta quantità di contributi pensionistici.
Molti dicono che anche la Russia è europea, ma siamo nel campo delle opinioni; e poi non sarebbe neppure un gran complimento per la Russia. La vera questione è che appena si esce dalla suggestione della narrativa bellicista ci si accorge che le concrete possibilità di una guerra tra Unione Europea e Russia sono prossime allo zero, e forse anche meno. In compenso c’è la guerra vera che da parecchi decenni con ogni pretesto le oligarchie europee hanno dichiarato ai pensionati e in generale alle classi subalterne. Chi pensa che il problema dell’Europa sia il vincolo servile nei confronti degli USA, non ha preso sufficientemente in considerazione l’ipotesi che quello ed altri vincoli esterni siano soprattutto l’alibi per una guerra di classe dei ricchi contro i poveri.
Non si può escludere in assoluto che dietro le esternazioni di Trump vi sia qualcosa di simile a una strategia, però al momento nulla lo conferma; semmai certi eccessi comunicativi farebbero sospettare il contrario. L’approccio dell’amministrazione Trump infatti presenta evidenti affinità con quelle tecniche di management per le quali ogni nuovo dirigente di un’azienda tende immancabilmente a presentare la sua persona come la cesura e il ponte tra un’epoca oscura di apatia, corruzione e incompetenza, ed una nuova era di luminosi destini. I toni messianici e palingenetici fanno parte ormai del comune bagaglio comunicativo di qualsiasi dirigente di SpA, di ASL, di municipalizzata o di istituto scolastico, così come ne fanno parte la tendenza ad insolentire i dipendenti e a trattarli come parassiti, le promesse di drastici repulisti e gli annunci di un caos rigeneratore. D’altra parte il caos non sempre riesce a prevalere sulla routine, per cui le aziende vanno avanti nonostante i loro dirigenti.
Assodato che il salvatore dell’umanità è il tipo più comune di essere umano, si potrebbe persino supporre che le attuali “vittime” di Trump stiano esagerando la sua minaccia e la sua presunta anomalia per accreditare a loro volta l’avvento di qualche altro messia designato a gestire la nuova emergenza ed a scongiurare la solita catastrofe incombente. Il mantra attuale è che la politica dei dazi di Trump stia facendo saltare il modello “mercantilista” dell’Unione Europea; un modello basato sul primato delle esportazioni rispetto al mercato interno. Ma si potrebbe anche ragionevolmente ritenere che la vera priorità fosse quella di deprimere il mercato interno non quella di esportare. Ciò spiegherebbe anche la spensierata disinvoltura con la quale le oligarchie europee si sono imbarcate nell’ultima avventura bellica, di cui erano scontati gli effetti devastanti sull’industria. Tre anni di calo incessante della produzione industriale hanno infatti determinato
un 2024 di profitti record per le banche italiane e dell’eurozona, ribadendo ancora una volta che le sfortune dell’economia reale coincidono con le fortune della finanza. Quando c'era il quantitative easing, la BCE creava moneta per comprare azioni delle banche, mentre oggi la stessa BCE aumenta i tassi di interesse; in un modo o nell’altro le banche ci guadagnano sempre.
Del resto è ovvio, dato che muovere denaro risulta molto più facile e veloce che mobilitare lavoro e materie prime, per cui un prodotto industriale può richiedere anni di sforzi mentre un prodotto finanziario lo si allestisce in un attimo. L’Unione Europea è nata in funzione della mobilità illimitata dei capitali, quindi la deindustrializzazione ne era l’esito prevedibile; tanto è vero che anche le grandi imprese industriali si sono trasformate in finanziarie, ed hanno continuato a tenere su la finzione di stabilimenti e capannoni solo come alibi per ottenere fiumi di miliardi di sussidi governativi che finiscono per la gran parte in operazioni puramente finanziarie.
Ogni riferimento a Stellantis ed alla sua banca è puramente casuale.
Dare soldi alle imprese “industriali” non blocca la deindustrializzazione e la finanziarizzazione, poiché quei soldi troverebbero un impiego molto più remunerativo in speculazioni di Borsa oppure in creazione di finanziarie per offrire prestiti.
L’unico modo per fare controtendenza rispetto alla deindustrializzazione sarebbe quello di far riprendere il mercato interno, cioè aumentare i salari. Sembrerebbe allora che abbia ragione Maurizio Landini, che invita alla “rivolta sociale”. In supporto alla CGIL è arrivato anche il povero Alessandro Barbero, il quale, replicando alla Meloni, ci ha ammonito che il conflitto non è “tossico”. Il problema però è che per esserci un vero conflitto dovrebbe esserci una vera controparte; mentre Landini se la prende con la Meloni, che non è per niente una controparte ma una semplice passacarte. Il vero nemico degli aumenti salariali è la lobby finanziaria con i suoi enti assistenziali, cioè la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario Internazionale e la NATO. Giorgia e Giorgetti prendono ordini da quegli organismi, e se non lo facessero il governo gli verrebbe sfilato da sotto; la maggioranza di governo inoltre è ricattabile non solo per i conflitti di interesse di Fininvest, ma anche per gli intrecci d’affari con la sanità privata lombarda e con la Leonardo.
Giorgia non vuole dire addio alla bella vita di viaggi, ricevimenti e frequentazioni di VIP. E bisognerebbe pensare anche alla delusione che proverebbero i suoi follower, che vivono tutta quella euforia mondana tramite il feeling con la Meloni. La conflittualità puramente retorica e psicodrammatica di Landini ha il solo effetto di far indignare i follower di Giorgia e spingerli a stringersi attorno al loro idolo. Del resto, quanto a “disciplina europeista” (cioè ossequio alla lobby della finanza), Landini non è da meno della Meloni; anzi, può rivendicare un primato di anzianità di servizio.
Ma il maggior contributo alla fintocrazia Landini lo offre quando gioca a sindacalista buono e sindacalista cattivo con Luigi Sbarra, già segretario della CISL, da poco dimissionario. Sbarra ha presentato una proposta di legge di iniziativa popolare per la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. Già negli anni ’50 e ’60 circolavano queste visioni di idillio interclassista, nelle quali lavoratori grassi e sorridenti entravano nei consigli di amministrazione e partecipavano all’azionariato. Probabilmente Sbarra guarda, almeno in parte, al modello Volkswagen, nel quale i sindacalisti coinvolti nella gestione aziendale venivano corrotti con ogni genere di privilegio,
comprese le prestazioni di squillo di lusso. In Italia purtroppo non accade niente del genere, tanto che l’ex segretario della CISL, Raffaele Bonanni, a suo tempo fu costretto ad autogestirsi, cioè a corrompersi da solo aumentandosi a dismisura lo stipendio, sino a
trecentotrentaseimila euro l’anno.
Da noi non c’è bisogno di corrompere i sindacalisti, dato che sono proni un po’ per riflesso condizionato e un po’ per timore di essere accusati di complicità col terrorismo. Landini avrebbe potuto semplicemente replicare a Sbarra, ed al governo (il quale finge di prendere sul serio i suoi deliri cogestionari), che il modello Volkswagen è saltato perché la deindustrializzazione ha investito pesantemente anche la Germania; quindi per i lavoratori la partecipazione alla gestione delle aziende vorrebbe dire cogestire il proprio licenziamento. Landini ha invece reagito affermando che la proposta di legge della Cisl potrebbe diventare un pretesto per aggirare la contrattazione. Certo che tra contrattare il proprio licenziamento e cogestirlo ci sarebbe una differenza abissale. D’altra parte, tanto per discutere di nulla, si potrebbe anche proporre di
introdurre la cogestione attraverso una contrattazione, in modo da fare tutti contenti. (5) Landini non è stato neppure originale, dato che ha rubato la battuta proprio a Sbarra. Questi nel 2021 se la prese con
gli interventi legislativi sul lavoro affermando che toglievano spazio alla contrattazione. Quando si dice il gioco delle parti.