Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Da qualche giorno anche i media mainstream hanno scoperto che il Recovery Fund comporta
condizionalità molto più dure e stringenti di quelle del MES. Questa scoperta dell’acqua calda è stata subito utilizzata per riciclare l’ipotesi di un accesso dell’Italia ai fondi del MES, che avrebbero come condizione “soltanto” di essere indirizzati a spese, direttamente o indirettamente, di tipo sanitario.
I timori nei confronti del MES sarebbero dettati dall’irrazionale, dal ricordo della sorte della Grecia, mentre adesso le cose starebbero diversamente. Persino l’argomento di Giulio Tremonti, secondo il quale se l’Italia accedesse al MES si beccherebbe le stimmate del Paese ridotto alla canna del gas, sarebbe superato, in quanto gli “investitori” sanno che i fondi del MES sono privi di vere condizionalità, perciò non ci sarebbe alcun motivo per far salire lo spread sui titoli del debito pubblico italiano.
Questo contro-argomento presuppone una visione idealizzata del cosiddetto “investitore”, in effetti uno speculatore. E se invece gli “investitori” si rivelassero anch’essi irrazionali? Se anche in loro l’immagine del MES risvegliasse fantasmi del tragico passato greco? E se gli “investitori” addirittura fingessero soltanto di essere “irrazionali” pur di spillare interessi più alti? In fondo è il loro mestiere.
In realtà il Recovery Fund è ancora tutto nel mondo dell’immaginazione e potrebbe anche non farsene nulla. Il fatidico e proverbiale “stellone” dell’Italia potrebbe ancora giungere a salvare il nostro Paese dall’irresponsabilità criminale delle sue classi dirigenti. Il MES invece sta veramente lì, è una cosa concreta e, una volta che ci sei incappato, non basterebbe un po’ di fortuna per sfuggire dalla rete.
Il punto però è che la questione delle “condizionalità” è un falso problema, poiché sposta tutte le preoccupazioni soltanto verso l’esterno. Il vero problema è invece che, se anche le condizionalità non ci fossero, le nostre classi dirigenti se le inventerebbero comunque. Ogni vincolo europeo, autentico o fasullo che sia, è infatti un modo per ricattare e umiliare le proprie classi subalterne, annunciando loro che il bengodi (?) è finito e che da ora occorre fare sul serio. Come era prevedibile, Confindustria non si è fatta sfuggire
l’occasione del Recovery Fund per invocare le “riforme strutturali”, come se in questi ultimi venticinque anni non se ne fossero già messe in campo parecchie. Dal “Pacchetto Treu” alla Legge 30/2003, alle leggi e leggine di Sacconi, al “Jobs Act”: le riforme del lavoro in Italia si sono sprecate e l’agognata “flessibilità” non è mai arrivata ad essere abbastanza flessibile; ed era logico che così fosse, poiché non è la flessibilità il vero obbiettivo.
Nel mondo ideale dipinto dai media mainstrean non esistono conflitti di interessi e tutti i potenti sono razionali e benintenzionati, perciò il ruolo del cattivo è riservato ai “sovranisti”, i babau che potrebbero farci ripiombare nella barbarie. Le accuse politicorrette al sovranismo di rappresentare un nuovo fascismo, sanno molto del bue che dice cornuto all’asino. Ci si accorge poi che il sovranismo come soggetto politico non esiste, e non esistono neppure veri partiti sovranisti ma solo giochi di ruolo. I vari Salvini, Meloni e Le Pen alternano gradassate e cali di brache; ma soprattutto si incaricano di alimentare l’equivoco di interpretare come scontro tra nazioni quella che invece è una questione di scontro di classe.
Il cosiddetto “sovranismo” ha finito quindi per consolidare il mito dei “vincoli europei”, come se questi davvero provenissero dalla severissima e avara Germania e dalla sua corte di staterelli canaglia. Negli anni ’70 fu invece un italiano, Ugo La Malfa, a lanciare lo slogan dell’Italia come Paese che vivrebbe al di sopra dei suoi mezzi; ed allora il “fardello” del debito pubblico non c’era ancora, e quindi la storiella dei governi italiani che viziano i propri cittadini gonfiando la spesa pubblica, non trovava nessuna pezza d’appoggio. Non bisogna sopravvalutare la fantasia dei Tedeschi, che non sono tutti dei Goethe. Per imporre la fiaba del Paese che vive al di sopra dei suoi mezzi, ci voleva il genio italico di Ugo La Malfa, un uomo di Mediobanca; e fu proprio lui a convincere di quella nuova fiaba i partner europei, che sino ad allora ci avevano considerato soltanto degli straccioni. Ciò che determina l’influenza di un politico non è la sua dote di voti ma il suo rapporto coi media. Grazie al suo rapporto privilegiato coi media, e interpretando
la parte del messaggero di verità scomode ma necessarie, Ugo La Malfa è riuscito a orientare la politica pur con solo il 2% dei voti. I media non fanno i voti, ma fanno la “realtà”, quella rappresentazione fittizia del mondo in cui i voti vanno ad impantanarsi.
A metà degli anni ’70 fu il politologo Giorgio Galli a notare per primo il ruolo svolto da Ugo La Malfa nel deteriorare l’immagine dell’Italia in Europa. La formula del Paese che vive al di sopra dei suoi mezzi, in effetti non fu un’invenzione originale di Ugo La Malfa, poiché era stata lanciata dal Fondo Monetario Internazionale già dal 1946 ed applicata indifferentemente a tutti i Paesi. Ad Ugo La Malfa spetta però il ”merito storico” di aver appiccicato quell’etichetta all’Italia e di averla resa indiscutibile nel dibattito pubblico.
Il “vincolo esterno” è in realtà un vincolo interno. Abbiamo una classe dominante che svaluta un Paese pur di svalutarne le classi subalterne ed il loro lavoro. Si chiama: aggiotaggio sociale. L’aggiotaggio è il reato che consiste nel diffondere false informazioni per determinare la caduta del valore di titoli o merci. In questo caso l’oggetto della svalutazione è il lavoro.
La “sinistra morale” non è mai riuscita a comprendere questo gioco, poiché l’aggiotaggio sociale, cioè la svalutazione del lavoro, ha scelto una via indiretta: non attaccare direttamente la classe operaia ma il contesto che le sta intorno. Se un intero Paese è arretrato, corrotto e corporativo, allora lo sarà anche il suo lavoro. Ci pensano poi i media mainstream a salvare gli “imprenditori” dalla comune condanna. Non è stato proprio un leader d’opinione della “sinistra morale”, Roberto Saviano, a presentarci
Confindustria come l’argine contro l’infezione mafiosa?
Nella patria del linciaggio esistono svariate declinazioni per dare seguito all’esecuzione capitale, sia in forma legale che in forma illegale o paralegale. La pena definitiva può essere applicata attraverso una iniezione letale, attraverso l’assassinio da parte dei vari servizi di sicurezza, oppure con la reazione di qualche poliziotto nervoso, tramite soffocamento - oggi piuttosto in voga - o per semplice colpo di arma da fuoco [negli Stati Uniti, ogni hanno la polizia uccide tra 1000 e 1500 persone].
Il linciaggio (l’origine del termine “Linch” appare ancora incerta) rappresenta una particolare forma di esecuzione sommaria dove la “folla”, che coglie in flagrante il presunto colpevole, decide di “farsi giustizia da sola”, senza un processo e senza che sia stata pronunciata una sentenza di colpevolezza. Il fenomeno del linciaggio (che ovviamente non riguarda solo gli USA) non è semplicemente stato tollerato, ma è stato anche incoraggiato. Ci si è resi conto, infatti, che il linciaggio, tentato o portato a termine, permetteva di giustificare il ruolo della polizia e della giustizia ordinaria. Il poliziotto interviene per “salvare il colpevole dal linciaggio”, dalla “rabbia della folla inferocita” e permettere che gli venga concesso un “regolare processo”. La legge quindi ci salva dagli istinti selvaggi delle folle, dalla volontà di vendetta delle vittime, dalle reazioni sconsiderate, infliggendo le pene secondo norme razionali. La legge così sarebbe uno scudo contro il caos e la sregolatezza. D’altro canto, nei casi in cui la “folla” sia ben disposta ad aggredire il presunto colpevole, la polizia può dosare a piacere il suo intervento fino a consentire il linciaggio, senza conseguenze per gli esecutori. I numeri ufficiali - quindi ben al di sotto della realtà - parlano di 4250 casi di linciaggio tra il 1885 e il 1926, di cui 3205 riguardano afroamericani.
I meccanismi per incoraggiare gli istinti più aggressivi si sono poi moltiplicati, la categoria comunicativa dei “parenti delle vittime” è diventato un vero classico. Negli USA, la rappresentazione plastica della regolazione del fenomeno della giustizia vendicativa, si è materializzata nella macabra possibilità, per i parenti della vittime, di assistere allo spettacolo della morte del condannato, dalla sedia elettrica all’iniezione letale. Con grande soddisfazione di tutti.
In questa rappresentazione, non sempre tutto funziona come previsto.
Il 14 luglio scorso, Daniel Lewis, un suprematista bianco di 47 anni è stato ucciso, tramite iniezione letale, nel carcere di Terre Haute dell’Indiana. La Corte Suprema aveva dato il via libera all’esecuzione di Lewis, accusato di aver massacrato tre persone. L’applicazione della pena capitale era negli ultimi tempi sempre meno praticata, e alcuni stati americani l’hanno addirittura abolita. Così, il ministro della giustizia William Barr, annunciando la ripresa delle esecuzioni, aveva detto: “lo dobbiamo alle vittime e alle loro famiglie”. In realtà, stavolta, i famosi “parenti delle vittime” non si sono semplicemente defilati, ma si sono opposti con forza all’esecuzione del presunto colpevole, e non ne hanno voluto sapere di interpretare il ruolo di chi chiede vendetta seguendo una reazione istintiva. Lo Stato, o almeno alcuni suoi apparati, ha quindi dovuto giocare il ruolo – che gli è consono – di boia insensato e feroce, senza il sostegno e la “copertura” dei parenti delle vittime. La condanna a morte è stata eseguita e altri 62 condannati aspettano il giorno dell’esecuzione.