Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La gerarchia internazionale è composta da Paesi giudici e Paesi perennemente imputati. Nei prossimi vertici internazionali il governo cinese sarà chiamato a rendere conto delle manifestazioni di Hong Kong, quando invece nessuno si era sognato di mettere sulla sedia degli imputati gli USA o il Regno Unito per le rivolte e le repressioni razziali di Ferguson o di Birmingham.
Se ai meccanismi della gerarchia internazionale si aggiunge il lobbying commerciale, l’effetto è esplosivo. Oggi l’Iran viene accusato dagli USA e dai suoi satelliti di aver compiuto gli attentati alle petroliere nel Golfo dell’Oman. Queste accuse pregiudiziali e pretestuose ci sarebbero state anche venti anni fa, ma ora c’è di mezzo la guerra commerciale che gli USA stanno combattendo per promuovere i loro costosi idrocarburi ricavati dalla frantumazione delle rocce di scisto. Ogni Paese produttore di petrolio e di gas è quindi nel mirino degli USA: Iran, Russia, Venezuela e, prossimamente, anche la Nigeria.
Si parla spesso, giustissimamente, delle prevaricazioni della finanza sull’economia reale, ma gli idrocarburi ricavati dallo scisto rappresentano un business che dimostra quanto possa essere distruttiva la cosiddetta economia reale. L’espressione “economia reale” va sempre presa con le molle ed in questo caso più di altri, infatti gli idrocarburi ricavati dallo scisto rappresentano un business col massimo di impatto ambientale, un business drogato dalla finta emergenza della fine del petrolio; un falso allarme che ha giustificato l’afflusso di enormi finanziamenti pubblici alle compagnie private. Pseudo-allarmismo ed assistenzialismo per ricchi: il capitalismo nella forma più ortodossa. Il guaio è che i falsi allarmi hanno creato le condizioni per un allarme vero.
Gli idrocarburi ricavati dallo scisto sono infatti troppo cari per incontrare spontaneamente la domanda, ma gli investimenti nel settore sono stati faraonici, con il rischio che saltino le principali aziende coinvolte nel business del fracking, con la conseguente prospettiva di trascinarsi dietro l’intera economia americana. L’agenzia USA per l’energia ci ha fatto perciò sapere con un suo documento ufficiale che l’esportazione di gas di scisto sarà una priorità, un vero e proprio export di libertà verso i Paesi, come quelli europei, oppressi dalla dipendenza energetica nei confronti della Russia e dell’Iran.
Gli idrocarburi ricavati dallo scisto sono solo una delle bombe innescate dagli USA nell’economia reale. In ritardo sulle tecnologie informatiche di quinta generazione, gli USA hanno risolto il problema bloccando le sinergie tra le multinazionali informatiche americane e la cinese Huawei. Il pretesto adottato nella circostanza è quello della “sicurezza” delle comunicazioni americane, che i Cinesi potrebbero violare: una narrazione al cui confronto diventa credibile persino quella sulla nipote di Mubarak. Intanto le vendite di Huawei sono crollate del 40% ed i mega-investimenti cinesi rischiano di andare in fumo.
La Cina oggi è il gigante dell’economia reale e quindi è anche la più esposta alle guerre commerciali. La Cina a sua volta è uno dei maggiori detentori del debito USA, perciò si apre un possibile scenario inverso a quello a cui ci eravamo abituati negli ultimi anni: stavolta una crisi dell’economia reale potrebbe riversarsi sulla finanza.
L’altra bomba già innescata riguarda il settore dell’auto. La Volkswagen ha guidato il processo di iper-tecnologizzazione del prodotto automobile. Si è visto poi che la tecnologia serviva a mascherare le emissioni tossiche e non ad eliminarle. L’automobile iper-tecnologica, con un costo ed un prezzo elevati, ha rappresentato un grosso traino per la finanza, dato che le auto si possono acquistare solo a credito. Alla fine dell’anno scorso vi è stato il temuto crollo delle vendite di auto. La Volkswagen, seppure ancora ai vertici delle vendite, comincia a perdere colpi ed a ridurre personale, giustificando il tutto con i processi di automazione.
Come spiegava Marchionne buonanima, attualmente il costo di progettazione e produzione di un nuovo modello lo rende remunerativo solo se lo si vende a milioni. Ma il possesso dell’automobile non è più ritenuto da tutti come una priorità, tanto è vero che si stanno sempre più affermando multinazionali del noleggio auto.
Il rischio che la Volkswagen deve scongiurare è che qualche Paese si rimetta a produrre prima di lei auto attraenti ma a basso costo, auto destinate a fasce di consumatori più ristrette. L’Italia non pensa affatto di farlo, anzi si illude ancora che FCA sia un’azienda italiana; ma l’Italia è in grado di farlo: un motivo più che sufficiente per bloccarne preventivamente il potenziale industriale, altrimenti la Volkswagen non può investire a cuor leggero. Nella gerarchia internazionale l’Italia è strutturalmente in posizione di imputato e a questo si aggiunge non solo la tradizionale virulenza del lobbying finanziario ma anche l’aggressività crescente del lobbying commerciale. L’eventualità di un commissariamento si fa sempre più realistica e lo sarebbe quale che fosse il governo in carica, anche in considerazione del fatto che l’arrivo della Troika trova i suoi entusiastici supporter persino all’interno dell’Italia.
Matteo Salvini ha costruito la sua linea politica pseudo-sovranista sul modello dell’Ungheria di Orban: diminuzione delle tasse e pretestuosa enfatizzazione dell’emergenza migratoria. Un’emergenza che, nel caso dell’Ungheria del debolissimo fiorino, è particolarmente inconsistente, dato che la migrazione si muove solo verso Paesi a moneta forte, che consenta al migrante di trasformare un basso salario in qualcosa di più sostanzioso grazie all’effetto cambio. Orban può impunemente atteggiarsi a bullo ed “enfant terrible” perché il suo Paese è pienamente integrato nel sistema tedesco, svolgendo il lavoro sporco di impedire il passaggio di migranti verso la Germania ed accogliendo le delocalizzazioni, poiché, se da un lato il cambio sfavorevole del fiorino scoraggia i migranti, dall’altro lato attrae i capitali.
Salvini quindi, imitando Orban, ha finito per adottare inconsapevolmente non un modello sovranista ma un modello coloniale. È molto dubbio che un modello del genere gli serva in un contesto di crescente guerra commerciale. Certo è che se le guerre commerciali dovessero diventare guerre guerreggiate con mezzi militari, questi problemi sembrerebbero inezie.
Il ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, forse non ha apprezzato il colpo di fortuna che gli è capitato. Quando il governo francese ha chiesto una pausa di una settimana nella trattativa per la fusione di FCA e Renault, il presidente di FCA, John Elkann, ha invece interrotto clamorosamente la trattativa. Elkann non se ne frega nulla del governo italiano e quindi non si è reso conto del favore che gli stava facendo. In quella settimana di “pausa” chiesta dal governo francese, inevitabilmente Di Maio avrebbe finito per cedere alle pressioni che gli provenivano sia dall’esterno che dall’interno della maggioranza per inserire il governo italiano nella trattativa.
In tal modo il governo francese avrebbe avuto a disposizione un comodo capro espiatorio su cui scaricare il fallimento della trattativa. Ma Di Maio non ha avuto il tempo materiale per commettere quell’errore di ingenuità, perciò si è evitato di essere additato al ludibrio mediatico come colui che aveva fatto sfumare l’affare del secolo, mettendo sul lastrico migliaia di famiglie, eccetera. È vero che un Maurizio Landini ormai irriconoscibile continua tuttora a recriminare sull’assenza del governo nella trattativa, ma si tratta di stoccatine polemiche irrilevanti rispetto alle accuse che avrebbero potuto piovere su Di Maio. Tra l’altro Landini piange sul mancato accordo tra FCA e Renault come se fosse una iattura per i lavoratori: un’affermazione assolutamente non dimostrata e non dimostrabile in base ai dati effettivamente disponibili sull’affare; un’affermazione che dimostra semmai che per i sindacati confederali l’interesse delle multinazionali va identificato dogmaticamente con quello dei lavoratori.
La fortuna esiste, ma ciò non toglie che l’errore oggi evitato fortunosamente dal governo, non possa essere commesso domani. Per un Paese come l’Italia è infatti difficile comprendere i meccanismi della gerarchia internazionale, in base ai quali l’Italia non è considerata un interlocutore.
Tra la fine del 2011 e il 2013, l’allora Presidente del Consiglio, Mario Monti, si presentava alle trattative europee con un mirabolante curriculum personale di marca paramassonica: ex Commissario europeo, Rettore della Bocconi, presidente della Trilateral e persino membro dell’Atlantic Council, che è come dire il direttivo ideologico della NATO. Quanto a “credibilità”, Monti avrebbe dovuto rappresentare il massimo. Eppure anche Monti dovette subire l’umiliante esperienza di esser preso per i fondelli e di essere trattato come un accattone qualsiasi.
Non conta il tuo curriculum: se rappresenti l’Italia nei consessi internazionali non sei nessuno. Ciò rende piuttosto irrealistica la prospettiva di un Mario Draghi Presidente del Consiglio, a meno che Draghi non divenga improvvisamente un masochista.
L’attuale governo italiano è costantemente nel mirino della Commissione Europea. Ma in quel mirino erano stati anche Gentiloni, Renzi, Letta, Monti ed il Buffone di Arcore. Se oggi in Italia alla guida del governo vi fosse Carlo Cottarelli, la sua sorte non sarebbe diversa. L’unica differenza sarebbe probabilmente che Cottarelli accoglierebbe il commissariamento dell’Italia con oscene urla di gioia.
I sostenitori storici della necessità di una “credibilità internazionale” dell’Italia, tra cui la sedicente “sinistra”, non riescono quindi a comprendere che i meccanismi della gerarchia non prevedono e non considerano in alcun modo la categoria della credibilità.
Che credibilità possono accampare gli USA o il Regno Unito o la Francia o la Germania? Non si possono enumerare le volte in cui i governi di questi Paesi hanno mancato ai patti. La “credibilità” è merce avariata per Paesi deboli e al fondo della scala gerarchica. Ma gli stessi deboli non dovrebbero sapere che farsene della credibilità, dato che qualsiasi impegno sia stato rispettato in passato sarà resettato dalla memoria, mentre conteranno solo gli impegni futuri. Mentre gli europeisti “credibilisti” vivono nella dimensione infantile del “se farò il bravo, la mamma mi vorrà bene”, i “sovranisti” sono giunti alla fase adolescenziale, pensando di farsi rispettare con qualche sussulto viriloide; persiste però l’illusione di poter fare una vera trattativa con una controparte che invece non ti considera un possibile interlocutore ma solo un bersaglio del mobbing internazionale.
Di fatto vediamo anche il governo “sovranista” impegnato in estenuanti trattative con la Commissione Europea, il cui esito sarà irrilevante, perché comunque sono già pronte altre letterine per contestare altre infrazioni. Vediamo oggi il Presidente del Consiglio Conte e il Governatore della Banca d’Italia Visco esortare Salvini e di Maio al silenzio per non allarmare i cosiddetti “Mercati”, quando i “Mercati” non sanno neppure chi siano Di Maio e Salvini. Tanto è vero che, nonostante Di Maio e Salvini, nonostante le procedure di infrazione annunciate, lo spread è improvvisamente calato e solo perché la BCE ha comunicato che continueranno le pratiche di “quantitative easing”, cioè l’inondazione di liquidità a sostegno delle banche e, indirettamente, dei debiti pubblici che queste banche acquistano. Si tratta di quei tipici meccanismi di welfare per ricchi spacciati come aiuti all’intera economia. Tutto ciò era stato già descritto sarcasticamente dall’economista John Kenneth Galbraith: quando il bestiame mangia di più, produce più letame e quindi anche le mosche indirettamente se ne avvantaggiano.
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