Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Le elezioni presidenziali francesi del prossimo aprile vengono indicate dai commentatori come decisive per la sorte dell’Unione Europea. Le preoccupazioni si accentrano sul pericolo costituito da un’eventuale vittoria della candidata della destra antieuropea, Marine Le Pen. La questione però è più complicata.
Non c’è dubbio che la Le Pen rappresenti una sfida seria all’establishment europeo, a differenza di quanto avviene in Italia con la formazione che appare più rampante, il Movimento Cinque Stelle. Ciò non solo perché Marine Le Pen può esibire doti di professionismo politico, a fronte del dilettantismo dei 5 Stelle, ma anche perché il messaggio lepeniano appare diretto e inequivocabile, disposto a revocare anche l’appartenenza alla NATO, quindi un messaggio privo di quelle ambiguità che invece caratterizzano da sempre il grillismo. Le ambiguità del Movimento 5 Stelle, lungi dal punirlo sul piano elettorale, lo hanno premiato, indicando che l’elettorato italiano non è ancora disponibile a scelte drastiche, ma si limita ad un voto di protesta e di “avvertimento” verso la classe politica tradizionale.
D’altra parte, anche se la Le Pen non riuscisse a vincere, la questione della permanenza della Francia nell’euro si riproporrebbe di fatto, al di là delle volontà o dei volontarismi delle persone e dei partiti. La Francia è il Paese che ha fortissimamente voluto l’euro e lo ha imposto in tempi rapidi al resto d’Europa. La fiaba ufficiale vuole che ciò sia accaduto per “ingabbiare” la Germania e la potenza del suo marco nell’equilibrio europeo. In realtà, più banalmente, il movente francese era di poter comprare il petrolio, e le altre materie prime, in euro e non in dollari, una prospettiva che a suo tempo allettò anche altri Paesi europei, tra cui l’Italia. La questione della compravendita del petrolio in euro, e non più in dollari, costituisce la grande assente dall’attuale dibattito sull’euro, come se vi fosse il timore di addentrarsi su un terreno così minato.
Come l’Italia, anche la Francia, era costretta sino agli anni ‘80 a vedere la propria moneta in sofferenza ogni qual volta la crescita del PIL superava il 3 o 4%. La maggiore importazione di materie prime per alimentare la maggiore produzione costringeva ad acquistare dollari e quindi a vendere franchi e lire, con il risultato di farne crollare il valore sui mercati internazionali e di metterle sotto il mirino della speculazione. A tutto ciò i governi francesi sovrapponevano anche sogni di “grandeur”, cioè di un imperialismo finanziario europeo a gestione francese, alternativo all’imperialismo finanziario del dollaro.
I governi francesi furono ingannati, o vollero ingannarsi, di fronte alle finte disponibilità americane a compiere un passo indietro dopo la vittoria nella guerra fredda. Ma i governi francesi dimenticavano di non possedere abbastanza armi per sostenere questi sogni; eppure ancora all’inizio del 2003, alla vigilia dell’invasione americana dell’Iraq, il quotidiano britannico “The Guardian” ancora accarezzava la prospettiva di poter
comprare petrolio anche in euro e non più soltanto in dollari. Il desiderio britannico era del tutto comprensibile, se si considera che il Regno Unito, pur fuori dell’eurozona, era comunque comproprietario dell’euro.
Di lì a poche settimane dall’articolo del quodiano “The Guardian”, Saddam Hussein sarebbe stato punito dagli USA per aver venduto petrolio in cambio di euro e le grandi aspettative francesi sarebbero state umiliate e seppellite. All’inizio del 2016 l’Iran comunicava di nuovo la sua disponibilità a
commerciare in euro, ma il messaggio è apparso più propagandistico che foriero di risultati, dato che i rapporti di forza internazionali sono quel che sono.
A differenza dell’Italia, da sempre in posizione subordinata, per la Francia la vicenda dell’euro ha comportato un declassamento nella gerarchia europea e la frustrazione di ritrovarsi in una condizione di sudditanza nei confronti della Germania. A parte l’orgoglio nazionale ferito, c’è da registrare un tasso di crescita sempre inferiore alle aspettative, tanto che i commentatori francesi sono costretti ad accontentarsi di aver fatto un po’ meglio dell’Italia. Magra consolazione, se si considera che
un piccolo incremento della crescita è stato pagato dalla Francia con un deficit della bilancia commerciale dovuto alle maggiori importazioni di petrolio; un inconveniente che l’Italia non ha dovuto subire proprio grazie alla sua minore crescita.
A differenza dell’Italia, la Francia però non è in grado di sostenere la stabilità sociale interna con tassi di crescita così bassi, anche perché i Francesi hanno avuto a disposizione in passato un vero welfare. Un’altra sostanziale differenza rispetto all’Italia, è che la Francia ha a disposizione delle forze armate efficienti e in grado di controllare il territorio; forze armate che sarebbero ancora disposte ad obbedire al governo e non al grande “alleato” USA, le cui posizioni sull’euro sono, peraltro, ancora poco chiare. Se CialTrump è espressione della lobby che dell’euro (e dei suoi effetti di stagnazione mondiale) ne ha abbastanza, al Dipartimento di Stato USA invece potrebbe ancora prevalere la considerazione secondo cui la disciplina dell’euro sarebbe indispensabile per allineare gli Europei in funzione anti-russa.
D’altra parte le velleità neocoloniali della Francia in Africa comportano una sovraesposizione delle forze armate francesi, tanto da configurare dal 2011 la Francia come uno Stato-Canaglia analogo agli USA. In Mali la situazione militare per l’esercito francese è tutt’altro che risolta e l’attivismo diplomatico di
Hollande in Africa rischia di risultare patetico se non sarà supportato da crescenti spese militari e da un’adeguata potenza finanziaria per allineare le neo-colonie africane, sottoposte anche alle pressioni ed alle lusinghe del neocolonialismo cinese.
Come la Francia possa sostenere uno sforzo simile con incrementi del PIL inferiori al 2%, sarebbe un mistero. Non basterebbe nemmeno l’attuale saccheggio coloniale delle multinazionali francesi in Italia per compensare le perdite. Marine Le Pen potrebbe essere sconfitta alle prossime elezioni, ma ciò non escluderebbe la possibile sorpresa di vedere la Francia costretta ugualmente ad uscire dall’euro ad opera di un presidente “europeista”.
I brevetti prodotti dalle Università italiane finiscono all’estero. Si lancia l’allarme e si annuncia trionfalmente la “soluzione”: l’Università “La Sapienza” di Roma e l’Università di Catania stringono accordi con una multinazionale farmaceutica straniera (sic!), la statunitense Eli Lilly, per
“valorizzare” i propri brevetti.
Il paradosso si spiega facilmente: l’Università italiana è sottoposta ad
una sistematica denigrazione da parte dei media che contano, come, ad esempio, il quotidiano “La Repubblica”, che non si limita a denigrazioni generiche ma ricorre anche a veri e propri falsi. In questo contesto le Università italiane, per “valorizzarsi”, sono costrette a dimostrare di riscuotere la fiducia delle multinazionali, perciò svendono il loro lavoro ed i loro know-how in cambio di briciole o, addirittura, gratis.
Una campagna di disinformazione fa calare il valore di un bene pubblico, come un centro di ricerca universitario, cosicché i potentati economici possano acquisire ciò che gli interessa a prezzi stracciati. La razzia dei brevetti da parte delle multinazionali è uno degli aspetti più attuali del fenomeno, che ha un nome preciso: aggiotaggio. Sarebbe un reato, però costituisce la prassi abituale del rapporto delle multinazionali con i territori: svalutare ciò che i territori posseggono o producono per facilitarne l’acquisizione. Si induce artificiosamente nelle vittime il bisogno di svendersi. Ciò può accadere perché il reato di aggiotaggio viene delimitato all’ambito borsistico, mentre il suo vero, e principale, campo di applicazione è quello dei beni pubblici e del lavoro.
Qualche settimana fa ha fatto scalpore la “proposta” di Bill Gates di tassare i robot per acquisire risorse da destinare ai disoccupati che l’automazione produce. Lanciata l’esca, tutti hanno abboccato ed è nato un bel “dibattito”, un’altra occasione per tirare fuori a sproposito il Luddismo e rilanciare controproposte altrettanto demenziali.
Si perde di vista il vero scopo di queste “proposte”, che è quello di disinformare, suggerire il mito di un ineluttabile tramonto del lavoro umano, cosa che costituisce un ottimo pretesto per pagare ancora di meno gli attuali lavoratori. La robotizzazione infatti non è un fenomeno spontaneo o dettato da presunte leggi del “mercato”, bensì è un fenomeno incentivato dai governi a spese dei contribuenti. Il piano del ministro dello Sviluppo Economico, Calenda, prevede infatti
agevolazioni fiscali per favorire l’automazione delle imprese. Altro che tasse, semmai la robotizzazione si avvantaggia di sgravi fiscali, riconfermati e allargati dall’ultima Legge di Stabilità.
E non ci sono solo le agevolazioni fiscali, ci sono anche i
finanziamenti a fondo perduto da parte dello Stato e della UE. Nascono anche apposite agenzie di consulenza che operano per guidare le aziende nel mare magnum dell’assistenzialismo delle pubbliche istituzioni verso le imprese private. Alla gara di generosità del pubblico nei confronti del privato partecipano entusiasticamente anche Regioni e Comuni.
La robotizzazione, per quanto incentivata, non è in grado di abolire completamente il lavoro umano, però l’importante per i lobbisti come Bill Gates è farlo credere, così è necessario che sin da studenti avere un lavoro venga percepito come un’elemosina da scontare con
sfruttamento intensivo.
Ma c’è di più: la precarizzazione non vuol dire solo meno salario e più sfruttamento, in quanto il “temporary work” costituisce esso stesso un business gestito dalle agenzie di lavoro interinale. Quanto sia rilevante il business è dimostrato dal fatto che è egemonizzato in gran parte da multinazionali, come
la statunitense Kelly Services.