Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Sabato scorso i media italiani sono riusciti a ritagliare attorno a Matteo Salvini un copione analogo a quello già messo in scena negli USA con CialTrump. Anzi, la replica è stata talmente puntuale da risultare palesemente falsa. Il ministro degli Interni Minniti all’inizio di marzo aveva fatto sapere che si sarebbe personalmente “occupato” delle
questioni di ordine pubblico relative alla visita del segretario della Lega Nord a Napoli. La promessa di Minniti sembrava preannunciare l’arrivo di sfracelli.
Il ministro non deve invece aver lavorato molto bene, dato che i disordini anti-Salvini sono stati davvero poca cosa: ristretti ad un tratto stradale molto limitato e con la rottura di qualche finestrino di automobile. Su RaiNews24 cronisti con la voce rotta ed ansimante si sono dovuti sforzare di conferire ad immagini poco significative una drammaticità che esse non possedevano in proprio. Si tratta quindi di eventi di scarso rilievo se li si confronta con le manifestazioni e gli scontri verificatisi a più riprese nello scorso anno per le visite a Napoli di Matteo Renzi. L’ex Presidente del Consiglio nello scorso anno era venuto a Napoli quattro volte: ad aprile per la questione Bagnoli, a giugno per la campagna elettorale delle Amministrative, a settembre per una rappresentazione al teatro San Carlo ed a novembre per la campagna referendaria. Soltanto a giugno la visita di Renzi non era stata occasione per manifestazioni e scontri, forse perché l’annuncio era stato dato troppo tardi. Nel caso dei dissensi anti-Renzi i media avevano minimizzato gli avvenimenti, mentre, nel caso di Salvini, gli si è ritagliato un ruolo di vittima con un’enfasi chiaramente pretestuosa.
Il feeling che da tempo Salvini ha stabilito con i media costituisce un dato che riconferma le ambiguità del personaggio. Non si comprende poi quale possa essere il ritorno elettorale di queste sortite in terra napoletana, dati i noti precedenti di Salvini in fatto di razzismo antimeridionale. In base a semplici valutazioni di buonsenso la Lega Nord avrebbe avuto molto più vantaggio a stabilire al Sud alleanze elettorali con movimenti anti-euro non compromessi con la propaganda razzistica. Si vede che Salvini deve anche lui obbedire agli ordini di qualcuno e, sebbene oggi il complottismo non sia “cool”, i sospetti sono legittimi.
Ma, anche senza scomodare i sospetti, c’è da rilevare che un movimento di ideologia liberista come la Lega si trova in contraddizione a dover fare dell’uscita dall’euro la propria bandiera. L’euro è uno strumento monetario nato per facilitare la mobilità del capitale e per comprimere i salari, cioè uno strumento del “liberismo”, pseudonimo dell’assistenzialismo per ricchi. L’arma sociale contro la mobilità del capitale (ovvero l’imperialismo finanziario e commerciale) è costituita proprio dalle rivendicazioni salariali, che evitano quella deflazione tanto amata dalle multinazionali finanziarie, interessate a mantenere inalterato il valore dei propri crediti. Il “sovranismo” costituisce invece un richiamo astratto che consente di aggirare, o di marginalizzare, quella che è invece la questione centrale, cioè la remunerazione del lavoro.
Certo, personaggi come Salvini sono oggettivamente favoriti dal fatto che dagli anni ‘80 tutta la sinistra, compresa quella “estrema”, ha messo da parte la questione della rivendicazione salariale considerandola un atto di egoismo sociale, privo di pregnanza etica e valoriale, tale da favorire alcune categorie a scapito di altre. La “pregnanza valoriale” è stata invece attribuita agli “investimenti”, che dovevano essere “produttivi e finalizzati all’occupazione”, ma che, di fatto, attribuivano al capitale il ruolo “creativo”. Quanto poi sia “creativo” il capitale lo si è visto con l’esplosione dei business della povertà, come il finanziamento ai consumi; oppure come il caporalato istituzionalizzato delle agenzie di “somministrazione” del lavoro, un settore sempre più egemonizzato da società multinazionali come, ad esempio,
la Manpower.
Il capitalismo in sé costituisce solo un principio giuridico, per il quale il potere aziendale si ripartisce in base alle quote di capitale. Questo principio non ci dice nulla su come il capitalismo effettivamente funzioni. Alla base del funzionamento del sistema capitalistico c’è invece l’aggiotaggio sociale, cioè la svalutazione fraudolenta del bene-lavoro, presentato di volta in volta come problema o parassitismo, per cui ogni lavoratore viene preventivamente criminalizzato come un potenziale “furbetto”. La stessa alternanza Scuola-Lavoro imposta al sistema dell’istruzione pubblica, si configura come uno strumento di aggiotaggio sociale, poiché il messaggio che viene fatto passare è che il lavoro non valga nulla se non incanalato nella forca caudina della “formazione” nell’impresa, perciò si deve lavorare gratis e persino ringraziare.
Che gli aumenti salariali siano molto più creativi del capitale, perché alimentano la domanda e quindi nuova occupazione, è un’idea che a sinistra è scomparsa. Colonizzata dal moralismo del capitale, la sinistra ha trovato nel moralismo stesso un comodo alibi ideologico per dare sempre ragione al più forte, dato che, in definitiva, nessuno è del tutto irreprensibile. C’è quindi poco da lamentarsi se al centro della scena oggi ci sono dei fascistoidi razzisti che si spacciano per nemici della finanza sovranazionale.
Le vicissitudini giudiziarie del padre di Renzi giungono opportunamente a creare un depistaggio rispetto al vero fallimento del Genio di Grignano, cioè le “riforme strutturali”. Il punto è che il fallimento di Renzi coinvolge il suo principale mallevadore e ispiratore, che non è stato Napolitano e nemmeno Tiziano, bensì Mario Draghi. Ancora nel settembre scorso il Super-Buffone di Francoforte non aveva esitato a riproporre
la litania delle “riforme strutturali” all’uditorio europeo.
La faccia tosta di Draghi assume dimensioni macroscopiche se si considera che la pioggia di miliardi del quantitative easing”, e la conseguente inflazione al 2% (un’inflazione enorme per gli standard deflazionistici di Maastricht), hanno comportato in Europa una ripresa economica molto contenuta, con il Paese più ligio al diktat delle “riforme strutturali”, cioè l’Italia, al penultimo posto della classifica europea, con un modesto 0,9 in più. Nel 2013 Draghi ci aveva rassicurato dicendo che non contavano i governi ma il suo “pilota automatico”. Nel caso italiano l’automatizzazione aveva prodotto appunto un Renzi.
Che Renzi sia un caratteropatico non vi è dubbio, ma la sua arroganza derivava in massima parte dal sentirsi alle spalle l’establishment europeo e l‘establishment italiano. Il “Jobs Act” ha rappresentato non solo precarizzazione e voucherizzazione del lavoro ma soprattutto un
finanziamento di più di diciassette miliardi elargito alle imprese private. Nel 2008 Massimo D’Alema si lamentò del fatto che Confindustria, nonostante i sussidi governativi alle imprese private, avesse sempre tenuto un atteggiamento ostile nei confronti del secondo governo Prodi, contrapponendogli persino l’improbabile contro-candidatura di Luca di Montezemolo. Stavolta i soldi stanziati dal governo sono stati molti di più e l’appoggio confindustriale a Renzi è stato entusiastico.
Sta di fatto che, nonostante i soldi pubblici, le imprese private sono state in grado di esibire un incremento di un miserrimo 0,9 del PIL, quindi interamente attribuibile al traino della piccola ripresa esterna. Se poi un transitorio aumento dell’occupazione vi è stato, ciò indica che il maggior numero di ore lavorate ha comportato comunque una caduta della produttività, quindi un regresso tecnologico. Per delimitare e chiarire i termini del fallimento draghi- renziano occorre tener presente che non si è mai trattato davvero di avviare una nuova fase di rilancio economico e neppure di ridurre significativamente la disoccupazione, obiettivi che sarebbero in contrasto con gli attuali business della povertà: finanziarizzazione dei consumi e privatizzazione della previdenza e della sanità. Si tratta di business in cui Confindustria è largamente interessata, tanto da essere diventata molto più una lobby finanziaria che un’associazione industriale. Ciò che Draghi si proponeva non era affatto di avviare una reindustrializzazione, bensì di esibire la sua capacità di controllare il PIL attraverso immissioni di liquidità e, proprio su questo piano, il “quantitative easing” ed il “jobs act” hanno invece dimostrato la loro impotenza. A Renzi sarebbe bastato avvicinarsi ad un 2% di crescita per gettare il panico nelle opposizioni ed essere santificato a vita dai media; purtroppo neppure questo minimo obiettivo è stato centrato. La deflazione ha ormai regole sue che la Banca Centrale Europea non può gestire. La compressione salariale imposta dal vangelo FMI-UE comporta effetti depressivi di lungo periodo che i movimenti di capitale da soli non possono compensare.
L’ingranaggio deflazionistico europeo è stato messo in moto ma non si riesce a controllarne i movimenti. La dilettantistica risposta a tutto ciò è stata l’Europa “a più velocità” partorita dal vertice a quattro di Versailles.
L’attuale illusione è quella di uno “sgretolamento controllato” dell’Unione Europea. Persino la sede scelta per il vertice è stata significativa: quella Versailles nella quale nel 1919 furono poste le basi della seconda guerra mondiale.