Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La mancata percezione di un problema è parte integrante del problema, anzi, spesso ne costituisce l’aspetto principale. Lo si è potuto notare quando, in reazione al “golpe camuffato da contro-golpe” di Erdogan, molti commentatori europei hanno respinto con indignazione l’ipotesi di ammettere la Turchia nell’Unione Europea. In realtà Erdogan se ne può tranquillamente infischiare dell’adesione alla UE, dato che il neo-sultano turco è oggi in grado di ricattare molto meglio la stessa UE stando dall’esterno e di spillare quattrini ai governi europei col pretesto del contenimento del flusso migratorio. Sulla questione dell’immigrazione Erdogan ha fatto spesso il doppio gioco, aprendo e chiudendo il flusso a seconda delle convenienze, e i governi europei lo sanno benissimo, ma ciò li rende ancora più ricattabili perché, invece di smascherare Erdogan, lo hanno coperto. Il governo che più si è esposto e compromesso per coprire Erdogan è quello tedesco, poiché l’industria tedesca era quella che aveva maggiormente bisogno di immigrati. Ciò rende oggi il governo tedesco anche il più ricattabile da parte di Erdogan, il quale, dopo aver fatto anche gli interessi della Germania, può permettersi ora di fare esclusivamente i propri interessi, magari trattando anche con altre lobby. Ma, visto che è la Germania a comandare in Europa, può costringere gli altri Paesi all’omertà.
Tutta la discussione sulla emergenza migratoria è avvolta da fumi moralistici oppure da fughe in digressioni pseudo-storiche, come il carattere “epocale” della migrazione stessa, mettendo così in ombra il dettaglio che dietro ogni emergenza c’è sempre una lobby che può speculare e ricattare. Ai primi di luglio vi è stata un piccola levata di indignazione anche per la notizia che l’ex presidente della Commissione Europea, il portoghese Manuel Barroso, è andato ad occupare un posto di rilievo nella filiale europea della solita Goldman Sachs. Di fronte a questo
caso plateale di “revolving door”, alcuni sindacalisti hanno partorito la proposta patetica di costringere Barroso a rinunciare alla sua pensione di eurocrate. Sarebbe stato molto più appropriato da parte dei sindacati proporre di rimettere in discussione tutte le direttive europee a cui Barroso aveva concorso, in quanto si è manifestato un suo plateale conflitto di interessi. Ma saremmo nel fantasindacalismo.
Un domani perciò si potrà persino rivedere Barroso ripercorrere la porta girevole all’incontrario per andare ad occupare nuovamente incarichi pubblici, come ha già fatto Mario Draghi, prima direttore generale del Tesoro, poi dirigente di Goldman Sachs, poi addirittura governatore della Banca d’Italia e presidente della BCE. Nel momento in cui non si è denunciato o eliminato Draghi al momento dovuto, cioè per le sue operazioni losche da direttore generale del Tesoro - nel quale aveva lavorato da lobbista delle privatizzazioni -, anzi si è coperto il fatto compiuto, si sono resi ancora più potenti lui e la lobby Goldman Sachs, poiché gli si è offerto parecchio materiale in più per ricattare i loro protettori istituzionali.
Il ricatto appartiene alla fisiologia del potere, sia ai suoi livelli alti che a quelli più bassi, mentre le Trilateral o i Bilderberg ne costituiscono solo la coreografia. Le decisioni infatti non vengono prese per accordi preventivi più o meno segreti, ma in base ai colpi di mano di lobby ristrette, le quali mettono l’establishment davanti al fatto compiuto. Un establishment è quasi sempre manipolabile con questa tecnica poiché, per sottrarsi alla ratifica del fatto compiuto, dovrebbe avere anche la capacità di mettersi in discussione, di accettare di pagare un prezzo limitato al momento per evitare di esporsi per il futuro ad un ricatto infinito. Ma un establishment è tale proprio perché non ragiona così. Questa fisiologia del ricatto può diventare patologica quando si insediano istituzioni collegiali di carattere sovranazionale come l’Unione Europea. Per attuare un colpo di mano ci vuole un attimo, per ricostituire l’ordine precedente occorrerebbe invece una procedure lenta, incerta e farraginosa. Per questo motivo le istituzioni sovranazionali sono il paradiso del lobbying. Anche il ritorno all’ordine richiederebbe perciò un colpo di mano da parte di una minoranza, ma il ritorno all’ordine non costituisce un movente tale da aggregare molte persone, mentre il far soldi sì.
Il ricatto delle lobby della “sicurezza” costituisce quindi una chiave di lettura anche per il terrorismo “low cost” che sta attualmente imperversando in Europa. Se si esce dai sociologismi astratti e si segue invece la via dei soldi, ci si accorge che ormai si sa tutto ciò che c’è da sapere, e da fonti ufficiali. Nel gennaio dell’anno scorso un articolo sul quotidiano “La Repubblica” riprendeva i dati di un libro di ricercatori universitari americani sull’entità del
business dell’antiterrorismo negli USA. Le cifre sono spaventose (mille miliardi di dollari all’anno, tutti in commesse pubbliche) e, come al solito, i casi di porta girevole tra pubblico e privato sono clamorosi, come quello di Mike McConnel, ex direttore della National Security Agency, passato ad una società di consulenza per l’intelligence, la Booz Allen Hamilton.
Una società privata come la Palantir, specializzata in estrazione-dati e nota per aver trovato il “covo di Bin Laden” (sic!), ha già superato in fatturato il gruppo Fiat-Chrysler. La storiella su Bin Laden già serve a dare l’idea sulla serietà dei dati “estratti” e restituisce appieno l’entità della frode ai danni del contribuente costituita dal business dell’antiterrorismo.
L’arrivo anche in Europa del business dell’antiterrorismo sta oggi determinando la prevedibile scia di cadaveri necessari a giustificare lo stesso business. In questo senso non c’è bisogno di supporre che siano stati i governi ad organizzare gli attentati, bastano i privati a cui gli appalti devono pervenire; e, messo così, il quadro è molto più inquietante, perché c’è da aspettarsi di tutto.
I governi europei hanno già coperto in passato le lobby del business dell’antiterrorismo e, per il fatto di essersi invischiati in questa manipolazione di prove, sono tanto più costretti a coprire ora, anche se a volte in modo molto goffo come sta accadendo per l’attentato di Nizza. Nessun governo può permettersi che si scopra che dietro un attentato c’è un’azienda privata a cui ha concesso appalti, perciò la pulizia dovrebbe essere fatta in silenzio con operazioni di servizi segreti. Ma questa ipotesi, già di per sé improbabile, trova un ulteriore intoppo nel fatto che la pervasività del lobbying rende improbabile anche la lealtà di un servizio segreto, quando si tratti di impiegarlo in operazioni pro bono.
Non un famigerato complottista ma un “rispettabile” giornalista del “Corriere della Sera”, Antonio Ferrari, ha immediatamente definito
il golpe in Turchia un pateracchio, una sceneggiata. In effetti c'erano delle stranezze evidenti anche a chi seguiva la vicenda soltanto in TV. Erdogan, fuggito dal Paese, veniva dato come in cerca di asilo in Germania, poi addirittura in arrivo a Ciampino; ma i commentatori più “esperti” sostenevano che avrebbe cercato riparo negli Emirati Arabi. Poi Erdogan compariva su di uno smartphone della CNN turca ad arringare le folle e incitarle a scendere in piazza contro i golpisti. I commentatori sostenevano che stesse parlando dall'aereo. All'improvviso, nonostante i morti e i feriti, il golpe viene stroncato (un golpe che dura cinque ore in un paese di quelle dimensioni?) ed Erdogan torna da trionfatore. I moventi del benefattore di Ankara nel crearsi un’emergenza-golpe possono essere vari: regolare brutalmente i conti con l'opposizione, varare anche lui una bella “riforma costituzionale”, bloccare i residui settori kemalisti dell'esercito, assumere il controllo totale della stampa, zittire o ridurre le proteste e le richieste delle minoranze etniche, aprire una fittizia polemica con la NATO e con l’Unione Europea in vista di qualche altro giro di valzer con Putin, salvo poi, come già in passato, rientrare a condizioni più vantaggiose nel suo ruolo di provocatore a tutto campo al servizio del Sacro Occidente.
Sembra proprio che Erdogan abbia manipolato e pilotato un golpe senza nessuna possibilità di riuscita in modo da offrire al mondo la rappresentazione spettacolare del “consenso” di cui sarebbe circondato. Sarebbe stato molto più realistico se l’auto-golpista Erdogan avesse esibito le ricevute dei finanziamenti che gli arrivano da decenni da parte delle petromonarchie del Golfo Persico. Quegli stessi finanziamenti che rendono poco plausibile un suo definitivo cambio di campo.
In realtà il “consenso” costituisce un mero accessorio del potere, chi ha il potere ha il consenso. Il potere è una bolla emergenziale drogata dalla propaganda e dalla violenza, al di sotto della bolla non c’è nulla. Anche molti “oppositori” sono persuasi invece che il potere possegga una sua solidità intrinseca e sia espressione di un radicamento sociale. Questi “oppositori” sono un po’ come atei che credono in Dio. La superstizione può coinvolgere anche gli uomini del sottobosco del potere: i vertici democristiani, che avevano imperato in Italia sino all’inizio degli anni ‘90, furono liquidati in pochi mesi, ad onta della loro illusione di rappresentare l’espressione di un inossidabile blocco sociale e ideologico, mentre invece costituivano solo un ammennicolo della NATO, cioè della fittizia emergenza della minaccia sovietica.
Anche alcuni commentatori non allineati sono caduti nella trappola del contrapporre i nostri “valori” europeo-occidentali a quelli del sultano turco, ma l’ipocrisia europea delle lezioni di democrazia ad Erdogan arriva comunque nel momento peggiore, quando il presidente francese Hollande ha appena preso a pretesto l’attentato di Nizza per prorogare lo stato di emergenza in Francia dapprima di tre mesi poi di sei mesi, cioè sino al gennaio prossimo, probabile data del prossimo attentato. L’attentato di Nizza, prima di essere un fallimento delle misure di antiterrorismo, si configura anzitutto come una debacle dell’ordine pubblico, poiché risulta evidente la sproporzione tra l’economicità dei mezzi dell’attentato e la mostruosità degli effetti. Quando un mascalzone è turco tutti se ne accorgono, ma quando si tratta di un leader “occidentale”, magari dai toni dimessi e dagli occhioni da cane bastonato come Hollande, allora si fa finta di nulla.
Poche ore prima dell’attentato Hollande aveva annunciato in un’intervista
la fine dello stato di emergenza, ciò facendo appello alla retorica dello Stato di Diritto, che non potrebbe dilatare all’infinito lo stato di eccezione. Tutta l’intervista, gestita dai soliti giornalisti proni, era tesa alla rivendicazione dei propri “successi” come la riduzione di nove milioni delle spese dell’Eliseo (capirai), senza invece dichiarare esplicitamente i costi stratosferici delle misure del cosiddetto ”antiterrorismo” e la lista dei beneficiari di quei finanziamenti pubblici. Non poteva mancare poi un’autocelebrazione sui salvifici effetti delle sue “riforme” del lavoro.
La fasulla esibizione di buone intenzioni di Hollande in merito alla cessazione dello stato di emergenza si sarebbe poi dovuta “arrendere” di fronte ai fatti di Nizza, ma il vero dato di fatto era che l’emergenza non era servita per niente a tutelare i cittadini; anzi, la bolla emergenziale della minaccia terroristica è la mongolfiera su cui può librarsi l’arbitrio del regime di Hollande. Le sue destabilizzanti “riforme” del lavoro abbassano ulteriormente la soglia dei diritti dei lavoratori, e vanno quindi nel senso opposto alla sicurezza, in quanto impediscono di integrare i ceti più poveri delle periferie, su cui si erano tanto accalorati sociologi e media, e costituiscono inoltre un incentivo all’immigrazione di disperati pronti a qualsiasi condizione salariale. Come a dire che si scacciano dal mercato del lavoro coloro che si sono formati su un certo grado di dignità del lavoro, e si pongono le condizioni per l’afflusso di chi è costretto a non porsi di questi problemi. E tutto ciò mentre la Francia si comporta da Stato canaglia, molto più responsabile della stessa Turchia nella destabilizzazione dell’Africa e del Vicino Oriente, dalla Libia, al Mali, alla Siria. La “speranza europea” rappresentata da Hollande si era dimostrata alla fine peggiore della Merkel. Ora Hollande si rivela peggiore persino di Erdogan.