Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il quotidiano inglese “The Telegraph” ha lanciato una sorta di appello al Presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, ad
uscire dall’euro prima che la moneta unica affossi definitivamente l’Italia. La sortita del quotidiano britannico si inserisce nella campagna referendaria sulla eventuale scelta della “Brexit”, cioè l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. L’opinione anti-europeista nel Regno Unito sa di muoversi in margini ristretti e compressi dall’ingerenza della NATO, perciò cerca sponde internazionali e sembra pronta ad aggrapparsi persino ad uno come Renzi.
In realtà l’appello non andava rivolto a Renzi ma alle forze in grado di compiere quel colpo di Stato necessario a dare corpo ad una scelta come l’uscita dall’euro. Si tratterebbe in effetti di un contro-golpe, poiché anche l’euro, ed in generale il regime UE insediatosi nell’ultimo quarto di secolo, sono stati messi in atto con procedure golpiste. Il problema è che in Italia anche queste forze mancano, in quanto la sconfitta bellica ha condotto ad una dissoluzione delle forze armate ed a una loro ricostruzione sotto il controllo della NATO, e porre la questione dell’uscita dall’euro senza affrontare anche quella dell’uscita dalla NATO è pura astrazione. Il Regno Unito ha basi NATO e americane sul proprio territorio, ma le forze armate britanniche vantano ancora una loro continuità con quelle precedenti alla ferrea alleanza con gli USA, cosa che non si può dire dell’Italia, Paese militarmente occupato tout-court.
Renzi non è un leader politico ma una macchinetta, perciò la sua ascesa va inquadrata nel contesto del totale esautoramento del governo italiano in seguito al provvedimento del presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, di sostenere con i propri acquisti il debito pubblico italiano. La famosa dichiarazione di Draghi del marzo 2013, quella secondo cui qualunque governo si fosse insediato in Italia, si sarebbe dovuto attenere all’agenda europea delle “riforme strutturali”, fu condensata dallo stesso Draghi nello slogan del
“pilota automatico”. Ma Draghi dimenticò di aggiungere che al pilota automatico si sarebbe dovuto affiancare un distributore automatico di slogan e panzane ad uso di un’opinione pubblica passiva ed estenuata. Nel marzo del 2013 Renzi non era ancora pronto ad ereditare Palazzo Chigi, quindi si fece ricorso al breve interregno di Enrico Letta, il discepolo del pesce Nemo, l’uomo che avrebbe voluto morire per Maastricht, ma che aveva il torto di esibire una residuale somiglianza con uomo politico tradizionale. Letta aveva anche il grave torto di parlare correntemente l’inglese, cosa che gli consentiva di intrattenere colloqui riservati con leader stranieri. Renzi, col suo inglese turistico, è invece comunicativamente isolato e quindi più controllabile.
L’emergere di un leader o di un altro (oppure di un non-leader come Renzi) è strettamente condizionato dai rapporti di forza interni ed internazionali. Lo stile-Renzi in campo internazionale, cioè l’atteggiamento baldanzoso con le brache in mano, è l’effetto dell’attuale debolezza italiana, che è una debolezza crescente poiché ogni giorno che passa vede cadere i residuali tasselli di un minimo di potere contrattuale. Il mito degli USA come potenza in declino offusca la realtà di un dominio americano sull’Europa che non è mai stato così saldo, tanto che Obama ha potuto permettersi persino di ammonire il Regno Unito sui guai a cui andrebbe incontro se osasse uscire dalla UE, che è un’appendice politico-economica della NATO. Nella stessa America Latina le vicende del dissesto venezuelano e del colpo di Stato pseudo-legalitario in Brasile hanno posto in evidenza il fatto che gli artigli imperialistici USA non mollano la presa.
Si obietta spesso alla UE di aver riprodotto un modello di unificazione analogo a quello dell’unità italiana, con il risultato di mettere insieme grandezze non omogenee. Il punto è che però gli ideali europeistici (ammesso che non siano stati solo propaganda) non hanno avuto niente a che vedere con il processo di unificazione europea, allo stesso modo in cui gli ideali risorgimentali sono stati al più marginali nel determinare l’unificazione italiana. La spedizione dei Mille nel 1860 fu una mera operazione di copertura per favorire una secessione della Sicilia, da trasformare in protettorato britannico. La fiaba dei “Picciotti” che avrebbero affiancato Garibaldi non spiega da dove questi avrebbero preso armi e addestramento militare. Si trattava in realtà di mercenari fatti sbarcare dalla flotta britannica in accordo con l’aristocrazia siciliana, massonica al cento per cento. Nello stesso periodo nell’Italia meridionale vi era una fibrillazione delle classi dirigenti che accarezzavano l’idea di sostituire i Borbone con un parente di Napoleone III. Nel confronto imperialistico tra Gran Bretagna e Francia si inserì la Prussia, che riteneva un’Italia unita più funzionale al progetto di Bismark di unificazione della Germania, poiché l’Italia unita avrebbe creato difficoltà all’Impero Austro-Ungarico, l’avversario principale del progetto di Bismark. Alla fine a conquistare il Sud non fu Garibaldi ma l’esercito piemontese, incomparabilmente più numeroso e armato di quello borbonico. D’altro canto la marina borbonica era molto più agguerrita e tecnologicamente avanzata di quella piemontese, ma ci pensò la potente marina britannica ad impedirle di uscire dai porti.
Non è possibile leggere la realtà senza un filtro ideologico, che non è altro che il nostro modo di leggere la realtà. Ma l’ideologia diventa mistificazione quando si pretende di spiegare i comportamenti attraverso le motivazioni ideologiche. Oggi ci si viene a raccontare che Mao avrebbe ucciso quaranta milioni di cinesi solo per realizzare le sue utopie, dal che si può dedurre che i dieci anni di guerra col Giappone ed i successivi quattro anni di guerra civile col Kuomintang non avrebbero avuto niente a che vedere con fame e carestie: i Cinesi erano poveri perché Mao li voleva poveri in nome del comunismo. Questa è la vulgata imposta oggi, ma negli anni ‘60 ci si volle convincere che la Cina era in conflitto con l’URSS perché voleva strapparle la leadership del socialismo mondiale. Sarebbe bastato un po’ di buonsenso per capire invece che il gruppo dirigente cinese stava mollando l’URSS per corteggiare gli USA. Per il gruppo dirigente cinese si trattava, allora come oggi, di schierarsi col più forte. Se la Cina non si decide a cambiare questo atteggiamento sostanzialmente filoamericano, sarà difficile che si verifichi un riequilibrio dei rapporti di forza internazionali.
Ogni potere è abuso di potere, sono semmai i rapporti di forza a limitarlo. Se oggi Putin appare meno peggio dei suoi omologhi occidentali, non è per la sua superiorità morale ma perché non ne possiede quella potenza mediatica che gli consentirebbe la stessa ipocrisia e la stessa manipolazione delle notizie. La potenza ideologica degli USA è parte integrante dei rapporti di forza, e può costringere a vedere le cose come si vuole che si vedano. Impossibilitato dai suoi mezzi mediatici limitati a mentire più di tanto, Putin è costretto dai rapporti di forza a far ricorso, di tanto in tanto, all’unica arma a sua disposizione, cioè la verità, cosa che gli ha consentito di smascherare Erdogan e di demistificare l’ISIS.
La cosiddetta “democrazia” è più pericolosa di altri regimi poiché è un sistema oligarchico che si avvale di un dispendioso apparato di pubbliche relazioni con cui creare realtà virtuali in grado di produrre a loro volta finte emergenze con le quali giustificare praticamente tutto. Non si può neanche dire che la “democrazia” sia meno sanguinaria delle dittature esplicite. In democrazia si può fare ampiamente ricorso all’assassinio politico perché tanto ci pensano i media a far passare il tutto come incidenti o suicidi, bollando di “complottismo” chi osi esprimere dubbi. In tal modo il governo tedesco ha potuto “suicidare” in carcere i membri della RAF, mentre Alexander Dubcek è stato “incidentato” nella Cecoslovacchia appena pervenuta alla “democrazia”, dopo che per anni il cattivissimo KGB non aveva osato toccarlo.
Ci si sorprende del fatto che in Italia non vi siano aneliti di ribellione nonostante tutto quello che accade, ma le ribellioni si inseriscono sempre in qualche stallo tra i rapporti di forza tra i vari poteri. Come si è visto con le recenti manifestazioni contro il “Jobs Act” di Hollande, qualche stallo del genere ancora si verifica in Francia, mentre in Italia il rapporto di forza oggi sembra ancora esercitarsi a senso unico.
La lotta operaia si modella nei rapporti di forza e sono le letture ideologiche e le mistificazioni a posteriori a creare confusione. Se si prende ad esempio la ribellione operaia diventata storicamente paradigmatica, quella dei Luddisti degli inizi dell’800, ci si rende conto che il mito storiografico secondo cui si sarebbe trattato di ex-artigiani che distruggevano le macchine in una specie di sogno passatista, non ha alcun riscontro nei documenti storici a disposizione, quelli dei processi che li riguardarono. Si trattava in realtà di operai che subivano l’iper-sfruttamento dello sviluppo industriale favorito dalle commesse statali necessarie per sostenere le guerre napoleoniche. La legislazione inglese di quel periodo puniva lo sciopero e l’associazionismo operaio con l’impiccagione, quindi distruggere le macchine costituiva per gli operai una forma di lotta più efficace e meno rischiosa, poiché non sempre si era identificati. Rivedremo perciò le lotte operaie nei tempi e nei modi in cui i rapporti di forza lo consentiranno.
Un’associazione di consumatori ha denunciato il Presidente del Consiglio Renzi all’Antitrust per
pubblicità “occulta” nei confronti della Apple. L’aggettivo “occulta” deve essere stato molto frustrante per Renzi, il quale in questi ultimi due anni aveva fatto davvero di tutto per farsi notare mentre esibiva spudoratamente i suoi gadget di marca Apple.
L’esibizionismo non trova purtroppo i dovuti riconoscimenti, perciò i media ufficiali si ostinano a catalogare come materiale per complottisti la
carnevalata romana della “Trilateral Commission” del mese scorso. Il termine “complottismo” è diventato ormai in mano ai media un fattore di disturbo costante della comunicazione e del pensiero, un modo per aggirare sistematicamente le evidenze. Per molti commentatori le frequentazioni para-“trilateraliste” del dirigente Cinque Stelle Luigi Di Maio costituirebbero uno scandalo a causa del passato complottista del movimento: tu che individuavi nella Trilateral una centrale della cospirazione sovranazionale, ora vai a cena con i suoi esponenti. Sembrerebbe di capire che per un non complottista una frequentazione di tal genere non sarebbe disdicevole. In realtà per qualsiasi politico, complottismo o meno, risulterebbe screditante frequentare grandi banchieri e dirigenti di multinazionali, poiché ciò inevitabilmente offre un’immagine di servilismo verso i potenti; e si dice “servilismo” per non adoperare l’espressione icastica che sarebbe più adatta a definire comportamenti del genere. In questo caso si tratta di un’evidenza tale che persino la stampa amica è costretta a riferire con un po’ di ironia sulla gita dei renziani nella tana dei potenti.
Giustificare certe frequentazioni con la scusa di voler acquisire informazioni su ciò che pensano i potenti, appare puerile dato che se quelli pensassero qualcosa non lo verrebbero certo a dire a te; inoltre i potenti possono permettersi il lusso di non pensare poiché fanno riferimento sempre agli stessi schemi: vittimismo di fronte alle presunte pretese dei poveri, e conseguente direttiva agli Stati di tagliare salari, pensioni e sanità per incrementare l’assistenzialismo per i ricchi, poiché solo da questi potrebbe derivare la salvezza del mondo. Sociologi ed economisti possono poi incaricarsi di conferire a queste banalità una veste pseudo-scientifica ma la sostanza non cambia.
La beata irresponsabilità del potere ha trovato nello sviluppo tecnologico vertiginoso degli ultimi sessanta anni un supporto ed un incentivo. Molti si chiedono come mai, a fronte di tanta disponibilità di nuove tecnologie, oggi la maggioranza delle persone stia peggio. In realtà quell’assurdità finanziaria e contabile costituita dai titoli derivati era impensabile prima delle meraviglie dell’informatica, che consentono calcoli astrusi in frazioni di secondo. Lo sviluppo delle comunicazioni rende inoltre superfluo quel ceto medio più o meno istruito che faceva da raccordo e collante sociale; perciò l’istruzione pubblica può essere liquidata, magari introducendo anche il rating degli insegnanti, che non è un nuovo modello di gestione del personale ma pura destabilizzazione.
La tecnologia può sostituire la civiltà e le istituzioni se chi la controlla ha come esclusiva finalità la propria ricchezza ed il proprio potere senza doversi preoccupare delle conseguenze. Le “opposizioni” possono fare la loro parte idealizzando il potere e attribuendogli una vocazione progettuale che in effetti non ha; semmai, come dimostra la famosa
“lezione di management” all’università LUISS dell’AD di ENEL, Francesco Starace, ci si trova di fronte a semplici criminali comuni. La distruzione ed il saccheggio di aziende storiche viene venduta come “cambiamento”.
La potenza mediatica può intanto incaricarsi di
costruire i miti negativi da offrire in pasto all’opinione pubblica, figure di “tafferuglisti” professionisti, i “pendolari della violenza”, che spaziano dagli Expo alla Val di Susa con l’unico scopo di creare caos, mentre dal canto suo il potere destabilizzante e irresponsabile può spacciarsi come un “ordine”, per quanto ingiusto ed elitario.
I potenti della “Trilateral” si riuniscono per discutere seriamente delle sorti del mondo, pubblicano documenti seriosi sul loro sito ufficiale, magari complottano: questa è la fiaba che ci si vuole propinare. Si ha l’impressione invece che le parate di potenti abbiano proprio lo scopo principale di sollecitare nelle classi dirigenti locali quei comportamenti che La Boétie definiva “servitù volontaria”. Anche la servitù volontaria non va però sopravvalutata nella sua importanza, poiché, se i potenti sono tutti da un parte, allora il servilismo si concentra nei loro confronti; ma se vi fossero altri potenti da compiacere, allora il servilismo potrebbe distribuire le sue prestazioni ed equilibrare il tutto.
Si è detto che l’ultima riunione della Trilateral avesse come argomento proprio il modo di contrastare il potente emergente oggi considerato il maggiore avversario del Sacro Occidente, cioè Putin. A parte il fatto che l’iniziativa internazionale di Putin non è certo effetto di velleità personali ma della diminuzione del peso di Gazprom a vantaggio dell’esercito (che in Russia è un vero soggetto politico), c’è proprio da figurarselo uno come Rockefeller a cercare di contrastare un marpione come Putin. I ricconi di nascita non sanno neppure abbottonarsi i pantaloni da soli e quindi devono appaltare il lavoro sporco ai veri praticoni del potere sul campo, quelle persone di origini più umili che compongono i servizi segreti, i tanti Gianni De Gennaro che trascinano quotidianamente la carretta.
Lo stesso George Soros, il principale nemico della Russia, non nasce miliardario, ma componente di una famiglia ungherese di collaborazionisti del nazismo; poi da giovane venne arruolato dalla CIA e, per suo conto, diventò finanziere e provocatore internazionale, con una fasulla identità ebraica ad oscurare il passato nazista. L’umiltà delle origini non implica necessariamente solidarietà con la propria classe, ed anche qui il servilismo c’entra solo in parte, poiché solo in base ad un umanesimo astratto e sdolcinato si può pensare che il potere per il potere non costituisca per molti il principale scopo della vita. Se si volesse sapere cosa rischia davvero Putin, è nell’ambito dei servizi segreti che bisognerebbe indagare, ma lì non ci trovi certo la Boschi o Di Maio.