Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La
notizia, riportata dal "Financial Times", dell'imminente passaggio di Paolo Scaroni, ex AD dell'ENI, al gruppo finanziario Rothschild, ha suscitato clamore e perplessità, ma non particolari riflessioni. Forse perché il riflettere, in questo come in altri casi, si identifica con il sospettare, dati i noti rapporti storici tra Rothschild ed uno dei principali concorrenti dell'ENI, cioè la BP.
La trasmigrazione alla maggiore multinazionale finanziaria mondiale, infatti non può che essere stata preparata da contatti precedenti, e ciò rischia di mettere in questione molto dell'operato di Scaroni alla guida dell'ENI negli ultimi anni, a cominciare dalla
equivoca gestione della vicenda libica, all'insegna del "tutto va bene, madama la marchesa".
La vicenda di Scaroni, ennesimo caso di disinvolto "revolving door", ripropone nuovamente l'immagine di un "management"
che vive come corpo separato rispetto alle aziende di cui fa parte, e che appare disponibile ad impegnarsi in attività di lobbying a favore di gruppi portatori di interessi diversi. Non si è di fronte a manager come battitori liberi che si vendono al migliore offerente, poiché alla fine le loro porte girevoli trovano un preciso aggancio nei tentacoli delle maggiori multinazionali. Il cosiddetto sistema del mercato e della libera concorrenza si rivela in effetti una gerarchia tra le multinazionali, ed i manager delle multinazionali di serie B, come l'ENI, hanno il loro riferimento principale non nella propria azienda, ma in multinazionali maggiori, come Rothschild, appunto.
Il caso Scaroni infatti non è l'unico oggi all'evidenza della cronaca, dato che i giornali sono ancora riempiti dalle imprese di Sergio Marchionne, a capo di una delle più note multinazionali di serie B, la FIAT. In questi anni si è generato un vero e proprio culto nei confronti di Marchionne, con i suoi sacerdoti, i suoi evangelisti, ed anche con i suoi mistici e profeti, quei fortunati toccati dalle visioni celestiali della prossima espansione planetaria della FIAT. L'atteggiamento dei media nei confronti di Marchionne è ancora di sfacciata apologia. C'è anche qualche voce apparentemente fuori dal coro, come quella di una giornalista di "Panorama" che ha pubblicato un libro, con un titolo dal suono "critico":
"Come Marchionne ha salvato la Chrysler e ucciso la FIAT". In realtà il libro, con l'alibi di voler fornire solo dati e di lasciar decidere il lettore, non va ad indagare più di tanto sul rapporto causa-effetto tra le fortune della Chrisler e le disgrazie di una FIAT, che in questo decennio ha pur continuato nella sua storica politica degli aiuti dallo Stato.
La tattica ritorsiva di Marchionne nei confronti della FIOM è arrivata al punto di bloccare il passaggio di cinquecento cassintegrati di Mirafiori alla Maserati, e ciò è avvenuto a fronte di
uno sciopero che la stessa direzione aziendale ha bollato come "esiguo" quanto a partecipazione. La FIOM viene presentata come una minoranza, ma la ritorsione, successivamente rientrata, sarebbe andata a colpire indiscriminatamente, come a cercare pretesti per tenere l'intera fabbrica in ostaggio. L'apparente "happy end" del caso Maserati non sgombra il campo dalla vera questione, e cioè che Marchionne appaia di tutto preoccupato tranne che di dotare la FIAT di un prodotto vendibile, e che gli stabilimenti italiani della stessa FIAT siano tenuti in ostaggio in un'alternanza di provocazioni, minacce e rassicurazioni.
La domanda che rimane sempre inevasa, anzi che non viene neppure posta, è per chi lavori davvero Marchionne. Il fatto che il nome di Marchionne figuri nell'official board della multinazionale Philip Morris, non è mai stato posto in particolare evidenza dei media, e gli apologeti del supermanager di FIAT hanno sempre sostenuto che una tale equivoca appartenenza fosse ininfluente e di carattere puramente onorifico. Sta di fatto che pochi giorni fa Marchionne ha portato nel
Consiglio di Amministrazione della Chrysler, fra sei nuovi membri, anche un certo Hermann Waldemer, già direttore finanziario della Philip Morris.
La destabilizzazione siriana di marca jihadista è stata esportata in grande stile nel confinante Iraq, il cui governo è ufficialmente appoggiato sia dagli Stati Uniti che dall'Iran. I media ci presentano quindi i due storici nemici, USA ed Iran, costretti a fronteggiare insieme la minaccia dell'integralismo islamico. Sennonché notizie di stampa poste in minore evidenza sembrano sfatare la propaganda dell'ISIS (o ISIL), il gruppo jihadista che sostiene di praticare esclusivamente sane
forme di "autofinanziamento" con rapine in banca ed imposizione di tangenti. I finanziamenti principali proverrebbero infatti dalle petromonarchie del Golfo: Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti.
Già da qualche giorno alcuni commenti giornalistici, seppur di stretta marca occidentalistica, avevano posto in evidenza il
"paradosso" costituito dal fatto che a finanziare il jihadismo fossero proprio i principali alleati degli Stati Uniti nell'area, cioè appunto le petromonarchie. Poteva apparire spregiudicato, ma coerente, che il jihadismo venisse usato per destabilizzare la Siria, un Paese storicamente nel mirino degli USA, ma potrebbe apparire contraddittorio che oggi si trovi a far da bersaglio un governo insediato proprio dagli USA come quello dell'Iraq.
Queste perplessità derivano da una concezione idealizzata ed edulcorata dell'imperialismo, al quale spesso si attribuisce, del tutto arbitrariamente, una carica "progettuale", cioè la determinazione di stabilire una qualche forma di "ordine", per quanto ingiusto, sia a livello regionale che globale. Quando si notano certe incongruenze si può sempre spiegare tutto con la stupidità, che ha certamente un ruolo rilevante nelle vicende umane. D'altra parte, proprio perché la stupidità costituisce una costante perenne ed ineliminabile, serve a molto poco per spiegare ciò che accade nello specifico.
I commentatori dell'occidentalismo puro e duro se la prendono poi con la debolezza e l'indeterminazione di Obama, e rimpiangono il "guerriero" Bush. La stupidità potrebbe essere facilmente invocata anche per spiegare questo tipo di assurdi commenti giornalistici, ma così si coglierebbe l'aspetto meno rilevante del problema. La propaganda dei "Neocon" americani consiste per un verso nell'inflazionare l'epiteto di "pacifista", attribuendolo persino a criminali di guerra del calibro di Bill Clinton, e dall'altro verso nel caricare di nuovi sovrasignificati bellicistici cose che rientrano nella routine dell'affarismo militare. Capitò anche con le mitiche "Guerre Stellari" lanciate mediaticamente dal presidente Reagan negli anni '80. In realtà dagli anni '50 il Pentagono già finanziava ed organizzava dispendiose ricerche sull'uso militare dei satelliti, perciò non vi era nulla di nuovo, se non l'enfasi pubblicitaria attribuita a quelle ricerche.
Se si va invece a comparare il grado di destabilizzazione operato nel periodo della presidenza Obama con quello che si è verificato nel corso della presidenza Bush, ci si accorge che la palma dell'imperialismo più aggressivo andrebbe proprio all'understatement di Obama, e non all'enfasi bellicistica di Bush. Ciò, ovviamente, se Obama non fosse soltanto quello che è, cioè un addetto alle pubbliche relazioni; e se questo alternare uno stile più spavaldo ad un altro più dimesso non rientrasse in un normale gioco comunicativo.
Dopo l'irrigidimento delle forze armate russe nel difendere la Siria, il piano di destabilizzazione di questo Paese ha dovuto subire una battuta d'arresto, perciò era ragionevole attendersi che gli USA e le petromonarchie spostassero il fronte sul Paese confinante. Nel caso iracheno gli USA possono consentirsi infatti di riscuotere i vantaggi della destabilizzazione, che va ad investire direttamente anche il ruolo di potenza regionale dell'Iran e la sua influenza sull'attuale Iraq a predominio sciita. Gli USA possono conseguire questo risultato senza peraltro esporsi più di tanto, e senza nemmeno spendere più di tanto, lasciando le spese ed il lavoro sporco agli "alleati", come è già avvenuto per le "primavere" arabe del 2011.
L'imperialismo non ha bisogno di strategia, poiché la destabilizzazione è già di per sé una strategia. Sul cammino di una Russia concentrata sulla questione dell'Ucraina viene oggi lanciata la nuova pietra d'inciampo della destabilizzazione irachena, quindi un nuovo fronte e militare e diplomatico per Putin, dato che dall'Iraq diventa possibile tentare di destabilizzare nuovamente la Siria.
All'opposto della visione idealizzata dell'imperialismo, può anche darsi una sua concezione del tutto unilateralistica, come se l'imperialismo costituisse una sorta di "villain" che va a turbare le paradisiache armonie dei popoli. In realtà la forza dell'imperialismo non sta tanto nella sua potenza intrinseca, quanto nella sua capacità di catalizzare tutti gli affarismi e gli opportunismi a livello locale. In questo senso si può valutare anche la storia dell'Europa dell'Est non soltanto nei suoi aspetti di discontinuità, successivi alla caduta del muro di Berlino, ma anche nei suoi aspetti di continuità rispetto all'epoca del cosiddetto "socialismo reale". Durante la Guerra Fredda, Paesi come la Jugoslavia o la Romania hanno saputo "vendere" la loro posizione di confine tra i due schieramenti, ritagliandosi un ruolo internazionale ed anche una sorta di alibi ideologico. Tito e Ceasescu sono stati celebrati dalla propaganda occidentalistica per decenni, salvo essere criminalizzati dalla stessa propaganda, quando il loro opportunismo non serviva più; post mortem nel caso di Tito, ed ancora in vita nel caso di Ceasescu, sino a plaudire alla sua feroce esecuzione.
La stessa Albania, passata così bruscamente nel campo occidentale, ha un suo passato ambiguo, in cui il marxismo/leninismo/stalinismo apparentemente ortodosso di Enver Hoxha, costituì di fatto un ottimo alibi per ritagliarsi un ruolo di neutralità. Se Hoxha avesse aderito al Patto di Varsavia, la marina militare sovietica avrebbe potuto piazzare basi navali a pochi chilometri dalla base NATO di Taranto, e tutto l'equilibrio militare del Mediterraneo sarebbe mutato. Qualche innocua trasmissione da Radio Tirana fu sufficiente per tutti gli anni '70 ad accreditare alla politica antisovietica di Hoxha una sorta di mitico alone ultra-rivoluzionario, mentre dietro vi erano evidenti compromessi con la NATO.
Non vi è perciò nulla di strano nel fatto che oggi in Ucraina la posizione di confine sia considerata un'opportunità da sfruttare e che fare l'anti-russo sia divenuto un mestiere carico di prospettive di successo e carriera. Ciò che invece risulta strano, è che a Kiev non ci si accorga che attualmente la posizione di confine dell'Ucraina non viene venduta al migliore offerente, ma svenduta a condizioni di strozzinaggio. L'Occidente può permettersi di spacciare il prestito di diciassette miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale al governo ucraino come un "aiuto", quando persino un quotidiano come
"The Guardian" deve riconoscere che il vantaggio di questo prestito va esclusivamente ai creditori.
Questa svendita è appunto l'effetto della destabilizzazione permanente, per la quale ogni Paese è considerato un bersaglio e nessuno può più permettersi di negoziare tranquillamente per ottenere vantaggi dalla propria posizione di neutralità o di alleanza. Per questo motivo la destabilizzazione imperialistica non colpisce soltanto coloro che sono ufficialmente considerati nemici, ma spesso, o soprattutto, i cosiddetti "alleati", come sta capitando adesso anche all'Iraq.