Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Circa un mese fa il settimanale britannico "The Economist" dedicava
un articolo piuttosto istruttivo alla situazione ucraina. Il sottotitolo dell'articolo è centrato su un semplice concetto: il costo per fermare Putin adesso è alto, ma se l'Occidente non fa nulla, in futuro sarà ancora più alto. L'articolo non allude a soluzioni militari, ma all'uso di sanzioni economiche, sia commerciali che finanziarie, contro la Russia.
Le argomentazioni dell'articolo sono abbastanza scontate, e si rifanno al consueto criterio dei due pesi e due misure. Si recrimina, ad esempio, sul fatto che Putin abbia mancato di parola nei confronti dell'Ucraina, ma non si fa autocritica sulla mancata promessa occidentale di non espandere ulteriormente i confini della NATO verso Est. E ancora: l'articolo esprime scetticismo sulla pretesa russa di non aver influenzato i risultati dei referendum separatisti; come se manipolare un referendum fosse più grave che organizzare un colpo di Stato in piena regola, come ha fatto la NATO a Kiev.
Ma non sono questi gli aspetti interessanti dell'articolo, che si fa notare invece per la posa di lungimirante saggezza che cerca di ostentare. L'impressione che si vuole suscitare nei lettori è di aver trovato finalmente dei capitalisti che non guardano solo all'interesse immediato, ma che sanno porsi strategicamente nei confronti dei problemi globali. Il parassitismo delle lobby private però non è soltanto economico e finanziario, ma anche ideologico. Le lobby tendono a fagocitare gli schemi di analisi e le aspettative persino degli oppositori, strumentalizzando i loro eccessi di spiegazione, e usandoli per simulare nella propaganda una sorta di "respiro strategico" delle proprie scelte. Ma l'imperialismo non è una "politica", bensì un intreccio di affari.
Si sarebbe potuto persino cascare nella retorica di "The Economist" su Putin, se non si sapesse già che le sanzioni economiche costituiscono un business, ovviamente non per chi le subisce, ma per coloro che possono offrire il servizio di aggirarle. Se la guerra è la madre di tutti gli affari, le sanzioni ne sono almeno le zie. Un Paese colpito dalle sanzioni "occidentali" può infatti continuare tranquillamente a fare i suoi affari, ma ovviamente versando una più che congrua tangente alle banche "occidentali".
La lista degli istituti di credito esperti in riciclaggio che hanno operato per aggirare le sanzioni finanziarie e commerciali nei confronti dell'Iran, è praticamente infinita. Nel 2012
anche la banca italiana Unicredit è finita sotto inchiesta negli USA, ma c'erano in ballo soprattutto multinazionali bancarie del peso di JP Morgan o della Royal Bank of Scotland. Queste inchieste governative USA ovviamente finiscono a tarallucci e vino, con qualche centinaio di milioni di dollari di multa a fronte di miliardi di profitti.
Tutto questo accade con un Paese di medio livello come l'Iran, ma se delle gravi sanzioni finanziarie e commerciali colpissero un Paese delle dimensioni della Russia, il business del riciclaggio schizzerebbe alle stelle. Non sorprende dunque di ritrovare nella lobby delle sanzioni alla Russia anche il finanziere George Soros, il quale espone le sue tesi a riguardo in
un'intervista ad un corrispondente del settimanale tedesco "Der Spiegel". L'intervista fa parte di un libro in cui Soros dispensa le sue consuete perle di saggezza sui problemi mondiali.
Come la saggezza di "The Economist", anche quella di Soros appare fin troppo sospetta. L'insano vegliardo della finanza globale ha svolto nei decenni passati un ruolo decisivo nella destabilizzazione dell'Ucraina. Oggi Soros si pone sul versante del "sanzionismo moderato ed oculato", ed appare preoccupato di offrire confortevoli sponde a quegli oligarchi russi che hanno rotto ogni legame di lealtà con il proprio territorio, depositando i propri soldi in Svizzera e mandando i propri figli a studiare all'estero. I riferimenti agli "oligarchi" russi - cioè agli affaristi di Gazprom e dintorni -, ed al modo di pensare di questi affaristi, costituiscono l'unico accenno di verità dell'intervista di Soros; e c'è da supporre che da un momento all'altro potrebbe anche verificarsi una dura resa dei conti tra Gazprom e le forze armate russe, un'eventualità che avrebbe come primo effetto di far saltare il ruolo di mediazione di Putin.
Per quanto possa apparire assurdo, ci sono davvero in giro quelli che ascoltano Soros come se questi fosse un finanziere "illuminato", anche mentre le sue parole fanno chiaramente intendere che il suo unico pensiero va a quanto potrebbe lucrare sull'esportazione e sul riciclaggio dei capitali degli oligarchi russi.
Pochi giorni fa si è verificata un'ulteriore delegittimazione a posteriori del governo Monti: è arrivata infatti
la notizia del passaggio dell'ex ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, alla più grande banca d'affari del mondo, JP Morgan. Grilli accede addirittura alla carica di presidente per l'area europea. Si tratta di uno di quei casi di "revolving door" che riconfermano il carattere puramente lobbistico delle attuali compagini di governo. Qualcuno ricorderà le sdegnate smentite dell'allora Presidente del Consiglio, Mario Monti, di fronte ai malpensanti che indicavano il suo esecutivo come un governo dei banchieri.
La posizione di Vittorio Grilli incorre in un evidente conflitto di interessi, poiché come ministro dell'economia, ed ancor prima nella veste di direttore generale del Tesoro, egli ha gestito quella crisi dello "spread" che ha fatto incassare introiti miliardari alle multinazionali del credito come JP Morgan, grazie ai mega-interessi concessi dal Tesoro italiano sul debito pubblico.
Un caso analogo di conflitto di interessi a posteriori ha interessato anche l'ex ministro ed ex Presidente del Consiglio Giuliano Amato, accolto a Deutsche Bank nel ruolo di senior advisor. Giuliano Amato fu il Presidente del Consiglio che gestì la crisi finanziaria del 1992; ed in quell'anno Amato affidò proprio a Deutsche Bank l'incarico di piazzare sul mercato tedesco i buoni del Tesoro italiano.
Forse non è una coincidenza il fatto che, mentre scoppia un caso manifesto di lobbismo infiltrato nelle istituzioni, come quello di Grilli, le cronache ed i commenti siano ancora invasi da un personaggio come "Genny 'a Carogna", lanciato all'evidenza mediatica durante la finale di Coppa Italia a Roma. Il razzismo antimeridionale infatti non è solo un efficace diversivo propagandistico, ma anche un veicolante per messaggi ideologici più subdoli.
Una certa connivenza poliziesca con gli ultras si spiega facilmente, se si considera che le organizzazioni del tifo costituiscono veri e propri allevamenti di confidenti della polizia, da riutilizzare e riciclare anche in situazioni molto diverse dal calcio. I media hanno invece colto l'occasione per usare il caso di "Genny 'a Carogna" come pretesto per riproporre l'immagine di uno "Stato debole", vittima ogni volta del piccolo prepotente di turno. Come si può prendersela con Grilli se ha fatto anche lui 'a Carogna, visto che può farlo chiunque? Il problema dunque non è più lo strapotere del lobbying delle multinazionali, ma la "debolezza" dello Stato. Ed ecco il solito circuito ideologico: dal vittimismo dello Stato, "troppo buono" per imporre la disciplina, si passa al "colpanostrismo" ad uso delle masse, che vanno addestrate ad accettare di sopportare i "sacrifici".
D'altra parte, va dato atto a Grilli a' Carogna di aver preso una decisione non facile, dato l'alto tasso di
mortalità dei dirigenti di JP Morgan in quest'ultimo periodo. Tre dirigenti della superbanca sono infatti morti in circostanze misteriose nel giro di poche settimane. Il primo a "suicidarsi" è stato, nel gennaio ultimo scorso, Gabriel Magee, dirigente di una divisione tecnologica della banca. Magee è saltato dal cinquantesimo piano dell'edificio in cui lavorava, nella City di Londra.
A febbraio è toccato a Ryan Crane, che aveva lavorato per JP Morgan a New York. Crane è stato trovato morto nella sua casa in Connecticut, ed ora si attende il risultato della perizia tossicologica. Ad Hong Kong, quasi in contemporanea, vi è stata
un'altra morte misteriosa di un esponente di Jp Morgan, Li Junjie, anche lui lanciatosi dall'alto di un grattacielo, stavolta alto appena trenta piani.
La "coincidenza" di queste morti misteriose, concentrate in un breve periodo, evidentemente non ha spaventato Grilli, forse aduso a prendere in considerazione simili "ristrutturazioni" aziendali, e magari anche a gestirle. Si registrano infatti altre morti di banchieri, anche fuori da Jp Morgan. Il 26 gennaio di quest'anno, a Londra, due giorni prima del "suicidio" di Magee, è stato trovato impiccato nella sua casa anche
un ex manager di Deutsche Bank, William Broeksmit, che sino all'anno scorso faceva parte dei vertici della multinazionale. Secondo la testimonianza della sua psicologa, Broeksmit era molto preoccupato a causa di indagini sul conto della banca.
Anche se Giuliano Amato non lavora più per Deutsche Bank, da quando è diventato giudice costituzionale, ciò non dovrebbe rassicurarlo più tanto, visto che la grande moria delle vacche colpisce persino gli ex.