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"Politically correct" è l'etichetta sarcastica che la destra americana riserva a coloro che evitano gli eccessi del razzismo verbale. "Politicamente corretto" è diventata la locuzione spregiativa preferita ovunque dalla destra. In un periodo in cui non c'è più differenza pratica tra destra e "sinistra", la destra rivendica almeno la sguaiataggine come proprio tratto distintivo."

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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.

Di comidad (del 28/07/2016 @ 02:01:49, in Commentario 2016, linkato 1744 volte)
La mancata percezione di un problema è parte integrante del problema, anzi, spesso ne costituisce l’aspetto principale. Lo si è potuto notare quando, in reazione al “golpe camuffato da contro-golpe” di Erdogan, molti commentatori europei hanno respinto con indignazione l’ipotesi di ammettere la Turchia nell’Unione Europea. In realtà Erdogan se ne può tranquillamente infischiare dell’adesione alla UE, dato che il neo-sultano turco è oggi in grado di ricattare molto meglio la stessa UE stando dall’esterno e di spillare quattrini ai governi europei col pretesto del contenimento del flusso migratorio. Sulla questione dell’immigrazione Erdogan ha fatto spesso il doppio gioco, aprendo e chiudendo il flusso a seconda delle convenienze, e i governi europei lo sanno benissimo, ma ciò li rende ancora più ricattabili perché, invece di smascherare Erdogan, lo hanno coperto. Il governo che più si è esposto e compromesso per coprire Erdogan è quello tedesco, poiché l’industria tedesca era quella che aveva maggiormente bisogno di immigrati. Ciò rende oggi il governo tedesco anche il più ricattabile da parte di Erdogan, il quale, dopo aver fatto anche gli interessi della Germania, può permettersi ora di fare esclusivamente i propri interessi, magari trattando anche con altre lobby. Ma, visto che è la Germania a comandare in Europa, può costringere gli altri Paesi all’omertà.
Tutta la discussione sulla emergenza migratoria è avvolta da fumi moralistici oppure da fughe in digressioni pseudo-storiche, come il carattere “epocale” della migrazione stessa, mettendo così in ombra il dettaglio che dietro ogni emergenza c’è sempre una lobby che può speculare e ricattare. Ai primi di luglio vi è stata un piccola levata di indignazione anche per la notizia che l’ex presidente della Commissione Europea, il portoghese Manuel Barroso, è andato ad occupare un posto di rilievo nella filiale europea della solita Goldman Sachs. Di fronte a questo caso plateale di “revolving door”, alcuni sindacalisti hanno partorito la proposta patetica di costringere Barroso a rinunciare alla sua pensione di eurocrate. Sarebbe stato molto più appropriato da parte dei sindacati proporre di rimettere in discussione tutte le direttive europee a cui Barroso aveva concorso, in quanto si è manifestato un suo plateale conflitto di interessi. Ma saremmo nel fantasindacalismo.
Un domani perciò si potrà persino rivedere Barroso ripercorrere la porta girevole all’incontrario per andare ad occupare nuovamente incarichi pubblici, come ha già fatto Mario Draghi, prima direttore generale del Tesoro, poi dirigente di Goldman Sachs, poi addirittura governatore della Banca d’Italia e presidente della BCE. Nel momento in cui non si è denunciato o eliminato Draghi al momento dovuto, cioè per le sue operazioni losche da direttore generale del Tesoro - nel quale aveva lavorato da lobbista delle privatizzazioni -, anzi si è coperto il fatto compiuto, si sono resi ancora più potenti lui e la lobby Goldman Sachs, poiché gli si è offerto parecchio materiale in più per ricattare i loro protettori istituzionali.

Il ricatto appartiene alla fisiologia del potere, sia ai suoi livelli alti che a quelli più bassi, mentre le Trilateral o i Bilderberg ne costituiscono solo la coreografia. Le decisioni infatti non vengono prese per accordi preventivi più o meno segreti, ma in base ai colpi di mano di lobby ristrette, le quali mettono l’establishment davanti al fatto compiuto. Un establishment è quasi sempre manipolabile con questa tecnica poiché, per sottrarsi alla ratifica del fatto compiuto, dovrebbe avere anche la capacità di mettersi in discussione, di accettare di pagare un prezzo limitato al momento per evitare di esporsi per il futuro ad un ricatto infinito. Ma un establishment è tale proprio perché non ragiona così. Questa fisiologia del ricatto può diventare patologica quando si insediano istituzioni collegiali di carattere sovranazionale come l’Unione Europea. Per attuare un colpo di mano ci vuole un attimo, per ricostituire l’ordine precedente occorrerebbe invece una procedure lenta, incerta e farraginosa. Per questo motivo le istituzioni sovranazionali sono il paradiso del lobbying. Anche il ritorno all’ordine richiederebbe perciò un colpo di mano da parte di una minoranza, ma il ritorno all’ordine non costituisce un movente tale da aggregare molte persone, mentre il far soldi sì.

Il ricatto delle lobby della “sicurezza” costituisce quindi una chiave di lettura anche per il terrorismo “low cost” che sta attualmente imperversando in Europa. Se si esce dai sociologismi astratti e si segue invece la via dei soldi, ci si accorge che ormai si sa tutto ciò che c’è da sapere, e da fonti ufficiali. Nel gennaio dell’anno scorso un articolo sul quotidiano “La Repubblica” riprendeva i dati di un libro di ricercatori universitari americani sull’entità del business dell’antiterrorismo negli USA. Le cifre sono spaventose (mille miliardi di dollari all’anno, tutti in commesse pubbliche) e, come al solito, i casi di porta girevole tra pubblico e privato sono clamorosi, come quello di Mike McConnel, ex direttore della National Security Agency, passato ad una società di consulenza per l’intelligence, la Booz Allen Hamilton.
Una società privata come la Palantir, specializzata in estrazione-dati e nota per aver trovato il “covo di Bin Laden” (sic!), ha già superato in fatturato il gruppo Fiat-Chrysler. La storiella su Bin Laden già serve a dare l’idea sulla serietà dei dati “estratti” e restituisce appieno l’entità della frode ai danni del contribuente costituita dal business dell’antiterrorismo.

L’arrivo anche in Europa del business dell’antiterrorismo sta oggi determinando la prevedibile scia di cadaveri necessari a giustificare lo stesso business. In questo senso non c’è bisogno di supporre che siano stati i governi ad organizzare gli attentati, bastano i privati a cui gli appalti devono pervenire; e, messo così, il quadro è molto più inquietante, perché c’è da aspettarsi di tutto.
I governi europei hanno già coperto in passato le lobby del business dell’antiterrorismo e, per il fatto di essersi invischiati in questa manipolazione di prove, sono tanto più costretti a coprire ora, anche se a volte in modo molto goffo come sta accadendo per l’attentato di Nizza. Nessun governo può permettersi che si scopra che dietro un attentato c’è un’azienda privata a cui ha concesso appalti, perciò la pulizia dovrebbe essere fatta in silenzio con operazioni di servizi segreti. Ma questa ipotesi, già di per sé improbabile, trova un ulteriore intoppo nel fatto che la pervasività del lobbying rende improbabile anche la lealtà di un servizio segreto, quando si tratti di impiegarlo in operazioni pro bono.
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Di comidad (del 04/08/2016 @ 01:44:53, in Commentario 2016, linkato 2249 volte)
La Convenzione del Partito Democratico (quello a denominazione di origine controllata, non le imitazioni nostrane) si è conclusa con la scontata consacrazione della candidatura di Hillary Clinton, e, soprattutto, con il previsto calo di brache da parte di Bernie Sanders, il candidato danneggiato dalle frodi della dirigenza del partito a favore della Clinton. Sanders ha lanciato un appello all’unità del partito attorno alla candidatura Clinton ed ha giustificato la propria sottomissione con la necessità di fronteggiare il pericolo rappresentato dal candidato repubblicano, il “bullo” Donald Trump. D’altra parte, visti gli intrighi perpetrati nei confronti di Sanders, la stessa candidatura di Trump si espone al sospetto di costituire soltanto un’ulteriore mistificazione a favore della Clinton, contrapponendole l’unico candidato disponibile sulla piazza che sia più impresentabile di lei. Il risultato è che non solo si premia la Clinton per aver barato, ma addirittura la si santifica come se fosse la nuova Giovanna d’Arco chiamata a salvare il mondo dalla minaccia Trump.
Ai sostenitori di Sanders rimane anche un altro dubbio, forse più inquietante: visto che Sanders ha rivelato alla fine di non essere un vero candidato anti-establishment, che bisogno c’era di farlo fuori con dei trucchi? Ne potrebbe venir fuori una sorta di paradosso: a volte imbrogliare è necessario perché non si capisca che imbrogliare non era davvero necessario, cioè che un candidato vale l’altro, perché tanto non è mica il presidente a comandare.

Con la sua consueta protervia, la Clinton ha cercato di rovesciare la vicenda delle frodi a proprio favore, accusando Putin di essersi inserito con le sue spie nel sistema informatico del Partito Democratico. Ammesso che fosse vero - e probabilmente non lo è -, la filosofia della Clinton consiste evidentemente nel considerare colpevole non chi commette le frodi, ma chi aiuta a scoprirle. Quando qualcuno ha accusato la CIA di aver confezionato in funzione anti-Putin i “Panama Papers”, cioè il dossier sui conti nelle società offshore, nessuno dei media occidentali ha ritenuto di considerare le accuse contro la CIA più rilevanti di quelle contro Putin, come invece sta accadendo adesso per le presunte intromissioni russe nel sistema del Partito Democratico. Tra l’altro nei “Panama Papers” Putin non è mai nominato, perciò i media sono arrivati a lui per proprietà transitiva, dato che vi erano i nomi di magnati russi. Cosa ti può fare l’amore per la verità. Per screditare Putin forse sarebbe stato più attendibile ricordare più spesso che egli ha ricevuto la cittadinanza di quella entità extra-territoriale che è la City londinese, cioè la suprema lavanderia del capitale.

Strano poi che negli USA ci si sia scandalizzati tanto per le società offshore, dato che un “rispettabile” Stato americano come il Delaware è per l’appunto un paradiso fiscale che ha adattato la propria legislazione in funzione delle società offshore. Paradisi fiscali non sono soltanto sperdute isole dei Caraibi o loschi emirati arabi, ma Paesi di serie A. Viene quasi il sospetto che tra le intenzioni recondite della pubblicazione dei “Panama Papers” vi fosse quello di screditare un paradiso fiscale ormai sgamato come Panama per accreditare nuove lavanderie del capitale più titolate e protette come il Delaware.
Lavare/riciclare il denaro costituisce attualmente una delle attività principali, poiché nella mobilità i capitali si ripuliscono e si rigenerano. Non si tratta solo di coprire il denaro di provenienza illecita, ma anche di provenienza lecita. Ad esempio, la Banca Centrale Europea sta concedendo alle banche europee prestiti considerevoli a tassi di interesse zero, con l’unica condizione che i fondi vengano impiegati per aprire credito alle imprese locali.
Per aggirare questo vincolo ed esportare il denaro appena ricevuto, le banche non devono fare altro che prestare quel denaro a società con sede in Italia ma che a loro volta siano azioniste di società offshore, dato che nessuna legislazione lo vieta. In tal modo si perde ogni traccia della fonte originaria dei soldi. L’offshore non serve solo a ripulire il denaro del narcotraffico e ad eludere il fisco, ma anche a celare una delle massime vergogne del capitalismo, cioè che il capitale ha la sua origine nella spremitura del contribuente, cioè nei finanziamenti che gli Stati elargiscono alle imprese ed alle banche magari col pretesto di “salvarle”. Dopo le centinaia di miliardi elargiti direttamente dagli Stati, o tramite quella finzione che è il MES o Fondo “Salva-Stati” (in realtà salva-banche), le banche sono ancora in crisi. Le banche italiane sono più nel mirino di altre, ma la tempesta finanziaria sembra non salvare nessuno.
In nome della mobilità dei capitali si sta assistendo ad un suicidio politico degli Stati. Sino a qualche decennio fa l’esportazione dei capitali era un reato penale, mentre oggi gli Stati, attraverso i fondi europei, finanziano apertamente l’esportazione dei capitali. In altri termini, il lavoratore paga le tasse per finanziare la delocalizzazione dell’impresa di cui è dipendente, cioè finanzia il proprio licenziamento. Come è potuto accadere? Il problema è che lo Stato non esiste: in parte è una superstizione, in parte è un’astrazione giuridica, ma soprattutto è uno pseudonimo delle lobby finanziarie.

L’altro problema è che le imprese e le banche stesse sembrano oggi patire l’eccesso di mobilità dei capitali, tanto che stanno cedendo l’iniziativa a quelle nuove creature mostruose (sviluppatesi proprio in funzione del lavaggio dei capitali) che sono gli “hedge fund”, risultati al centro della speculazione che oggi colpisce i titoli bancari. Dato che in inglese “hedge” significa siepe, verrebbe da dire: “il buio oltre la siepe”.

La scelta di abolire qualsiasi ostacolo alla circolazione dei capitali è stata spacciata come un incentivo allo sviluppo, mentre al contrario si è risolta in una cronica depressione dell’economia reale a vantaggio di una speculazione finanziaria sempre più distruttiva e caotica. Per rimettere ordine nella finanza occorrerebbe rilanciare l’economia reale, un risultato che si può raggiungere soltanto limitando la mobilità dei capitali e consentendo investimenti pubblici. In altre parole, sarebbe necessario lasciare che il denaro pubblico rimanga tale, senza essere “lavato”. Ma da quest’orecchio l’oligarchia statunitense non ci sente, poiché una ripresa dell’economia mondiale comporterebbe un ulteriore sviluppo dei cosiddetti “BRICS”, ed in particolare della Russia. Gli Stati Uniti oggi rappresentano solo un quinto dell’economia mondiale e non intendono scendere al di sotto di questa soglia di garanzia per la loro posizione dominante. Secondo settori dell’oligarchia finanziaria statunitense il caos finanziario dovrebbe quindi trovare il suo sbocco “naturale” in una guerra contro la Russia. Non sorprende perciò che si punti sulla Clinton, non perché sarà lei a decidere, ma perché con il suo look nevrastenico potrà abituare l’opinione pubblica all’idea di una guerra mondiale.
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


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