Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
L'amministratore delegato della FIAT, Marchionne, ha continuato la sua offensiva di provocazione contro la FIOM, operando una serie di pretestuosi licenziamenti. Nel frattempo anche i pochi organi di stampa che, sino al referendum di Pomigliano, avevano tenuto un finto atteggiamento di imparzialità, ora si vanno schierando esplicitamente con l'azienda. Ci si riferisce soprattutto al quotidiano "La Repubblica", il quale è andato in soccorso della propaganda di Marchionne circa i "fannulloni" di Pomigliano.
"Repubblica Radio-TV" ha infatti mandato in onda nei giorni scorsi un servizio che avrebbe potuto fare invidia al TG1: una serie di interviste "sul campo" - false o manipolate attraverso opportuni tagli -, dalle quali far emergere l'immagine di lavoratori irresponsabili in uno stabilimento allo sbando, nel quale mettere ordine risultasse doveroso. Non sono mancate le solite voci sulle infiltrazioni camorristiche nello stabilimento di Pomigliano. Dato che Marchionne proviene dalla multinazionale Philip Morris, la quale intrattiene storici e sfacciati rapporti con la criminalità organizzata di vari Paesi, probabilmente la voce deve essere nata a causa di qualche visita a Pomigliano dello stesso Marchionne.
Lo stabilimento di Pomigliano d'Arco ha quaranta anni, e la propaganda mediatica sulla cattiva qualità del suo lavoro risale ai primi mesi dell'esperienza Alfa Sud, quindi da molti anni prima della privatizzazione; cioè prima che l'Alfa Romeo venisse regalata alla FIAT da Romano Prodi, allora presidente dell'IRI. Occorrerebbe quindi chiedersi come mai lo stabilimento sia sopravvissuto a tanta ignominia.
Le statistiche ufficiali sulla mortalità per incidenti sul lavoro in Italia indicano che il loro numero non scende mai al di sotto dei mille l'anno (mille e cinquanta morti nel 2009), e che la loro relativa diminuzione rispetto ai record degli scorsi anni è dovuta esclusivamente al calo delle attività produttive. Ma, dato che le statistiche non tengono conto dei lavoratori morti successivamente, in seguito alle ferite riportate, la cifra effettiva della mortalità sul lavoro è molto più alta di quella ufficiale. La Confindustria ha invariabilmente avversato qualsiasi misura concreta per arginare la mortalità sul lavoro, ed i governi si sono sempre lasciati convincere senza difficoltà.
Questa accondiscendenza dei governi non è dovuta solo a sudditanza psicologica, ma al fatto che la Confindustria è in grado di controllare parecchi milioni di voti tramite il ricatto sui dipendenti delle aziende. In questi anni i media hanno cercato di convincerci che Berlusconi era ciò che gli Italiani volevano, poiché avrebbe corrisposto alle loro profonde aspirazioni. In realtà il voto d'opinione è stabile, e la quota di cui si avvale Berlusconi è la stessa che andrebbe a qualsiasi governo di destra, con o senza di lui alla presidenza. Ciò che decide in definitiva il risultato elettorale è sempre il voto controllato, cioè la Confindustria.
La politica imposta dalla Confindustria sulla sicurezza del lavoro indica quindi il grado effettivo di sensibilità padronale e governativa con cui ci si deve confrontare; ciò rende ridicola ogni pretesa di accreditare la fiaba mediatica secondo cui lo stabilimento di Pomigliano sarebbe stato salvato per lo scrupolo di non mettere sul lastrico migliaia di famiglie meridionali. L'unica compassione che abbia concreta e certa efficacia è quella nei confronti delle sofferenze del povero padronato, sempre pronto ad appropriarsi della parte della vittima sul palcoscenico dei media.
Già dai tempi dell'Alfa Romeo, Pomigliano ha svolto il ruolo di ultima spiaggia per dislocare gli impianti obsoleti di altri stabilimenti del gruppo, e ciò ha fatto sì che tecnici e lavoratori sviluppassero negli anni la competenza di cavar sangue dalle rape, mantenendo in vita il più possibile macchinari che avrebbero dovuto essere dismessi; ciò a prezzo di condizioni di lavoro costantemente proibitive ed insicure. Occorrerà accertare se la ristrutturazione in corso a Pomigliano comporterà davvero l'adozione di nuovi macchinari, o si tratterà ancora una volta di riciclare i soliti ferrivecchi.
L'improduttività di Pomigliano è quindi una leggenda costruita ad arte per nascondere l'inconfessabile, cioè finanziamenti pubblici agli investimenti ed all'innovazione che venivano dirottati dalle imprese - prima l'Alfa, poi la FIAT- verso speculazioni finanziarie o immobiliari.
In questi mesi Marchionne ha raccontato molte balle su mirabolanti piani d'impresa e su promesse di investimenti, ma la sua è stata soprattutto un'operazione mediatica che ha usato Pomigliano come un pretesto; e certo non per rilanciare la produttività, a cui Marchionne appare poco interessato, visto come ha respinto il progetto di iper-sfruttamento dei lavoratori proposto dalla FIOM. La vera preoccupazione di Marchionne è stata quella di agitare lo slogan della "flessibilità", ovvero della crescente incertezza del posto di lavoro.
Un padronato che considerasse la produttività come obiettivo principale, avrebbe tutto l'interesse ad interloquire con una controparte sindacale, sottomessa sì, ma comunque realmente rappresentativa, e non a tenere di fronte delle sigle di pura facciata come la CISL o la UIL. In questa operazione di demolizione della rappresentanza sindacale in nome della "flessibilità", Marchionne ha avuto come costante riferimento il ministro del Welfare, Sacconi. I due si sono rilanciati a vicenda la palla per tenere ossessivamente al centro della propaganda mediatica lo slogan che gli interessava: la flessibilità, e ancora la flessibilità.
Per fingere di essere un giornale di sinistra, "La Repubblica" dà spazio ogni tanto anche a tesi "anomale", come quelle del sociologo Luciano Gallino, il quale ha documentato in un'intervista al quotidiano gli effetti disastrosi, in Italia come in Germania, della "flessibilità" sul numero di ore effettivamente lavorate. Rifattasi così una verginità ed un'aura di "sinistra", "La Repubblica" può tornare ringalluzzita a fare ciò che le riesce più naturale, cioè l'organo confindustriale. Ma i dati oggettivi sui disastri causati dalla "flessibilità" sono lì, ed indicano che lo slogan della flessibilità non esprime preoccupazioni di produttività, ma copre qualcos'altro.
Tra i progetti di legge del ministro Sacconi c'è forse la risposta; infatti il ministro propone di privatizzare gli ammortizzatori sociali, da finanziare attraverso ulteriori contributi dei lavoratori ed incentivi fiscali. Non si tratterebbe soltanto di una gestione privata dei sussidi di disoccupazione, ma anche di un sistema di "finanziamento ai consumi", espressione che nel gergo finanziario indica i prestiti a strozzo agli indigenti. Anche gli ammortizzatori sociali dovrebbero perciò diventare un business finanziario gestito dal padronato; quindi la disoccupazione può rendere, e parecchio (ovviamente non ai disoccupati).
L'opinione pubblica viene resa volutamente non consapevole della quantità di denaro che smuovono i contributi dei lavoratori per le pensioni e gli ammortizzatori sociali. L'INPS esibisce enormi attivi di bilancio da anni, ed anche l'ente previdenziale per gli statali, il bistrattato INPDAP (che dovrebbe confluire nell'INPS), ad onta degli allarmi mediatici, presenta ad ogni rendiconto annuale insospettate risorse finanziarie accumulate nel tempo. Si comprende quindi perché questo settore venga presentato dai media in perenne emergenza, e perché gli affaristi privati vogliano metterci le mani.
Disoccupazione e precarizzazione si inseriscono perciò in un disegno internazionale di complessiva finanziarizzazione del rapporto di lavoro, in cui il salario sia sempre più integrato e soppiantato dal prestito ad interesse. I progetti di legge di Sacconi sono infatti ricalcati sui prontuari dei "tecnici" del Fondo Monetario Internazionale, il quale da decenni allestisce i suoi consueti business basati sulla coltivazione e sullo sfruttamento della miseria. Il FMI può essere considerato infatti lo Stato Maggiore della guerra mondiale di classe dei ricchi contro i poveri.
Consultando il sito del Ministero degli Esteri, si apprende che il FMI è stato fondato nel 1944, ma è realmente operativo dal 1946; il FMI ha inoltre un inquadramento giuridico in ambito ONU, e riveste funzioni istituzionali di "sorveglianza" (il sito del Ministero dice proprio "sorveglianza") sulle politiche economiche di tutti i Paesi membri. Quindi il governo mondiale già esiste, e non è affatto un'organizzazione segreta.
Molte critiche sono state rivolte al FMI per l'apparente schizofrenia della sua precettistica economica. Secondo il FMI un alto tasso di disoccupazione costituirebbe una precondizione indispensabile per la crescita economica, perché la disoccupazione determina flessibilità e abbassamento del costo del lavoro; ma la crescita rischia di far aumentare l'occupazione e i salari, quindi, per favorire la crescita, occorre impedire... la crescita, con politiche economiche restrittive. Di fatto nessun Paese povero che sia incorso nelle cure del FMI è mai riuscito ad avere una crescita economica.
Ma l'apparente assurdità dei precetti del FMI è solo l'effetto del doppio significato di parole come crescita o sviluppo. Da quaranta anni i Paesi "occidentali" sono in una costante decrescita economica, eppure i profitti e le ricchezze private sono cresciuti a dismisura, molto di più che nel trentennio tra il 1950 ed il 1970; tanto che la maggior parte della ricchezza si trova ormai nelle mani di una piccola minoranza. La crescita economica complessiva di una società non solo non coincide con la crescita delle ricchezze private, ma addirittura la ostacola, dato che aumenta il potere contrattuale del lavoro e quindi i salari, togliendo spazio ai business della finanziarizzazione dei consumi. Coloro che credono di fare opposizione parlando di "decrescita", dovrebbero tener conto del fatto che la decrescita già c'è, ed è funzionale ai business di finanziarizzazione.
Oltre all'inganno del doppio significato delle parole "crescita" e "sviluppo", ce n'è anche un altro, molto caro alla destra, che tende a far credere che il cosiddetto "imprenditore" ed il "finanziere" (o "usuraio") siano due figure distinte e separate, e addirittura avversarie. Dal 1919 l'industriale Henry Ford fu il maggiore sostenitore di questa mistificazione propagandistica, ed ebbe fra i suoi discepoli anche Mussolini, Hitler ed il poeta Ezra Pound. Quando Marchionne è diventato l'Amministratore Delegato della FIAT, anche a sinistra in molti avevano esultato per l'arrivo di un "vero imprenditore" che prendesse finalmente il posto dei finanzieri alla Cesare Romiti. Ma il "vero imprenditore" non disprezza affatto i business finanziari; anzi, è proprio la sua posizione di imprenditore a consentirgli di intercettare molte opportunità per business finanziari.
La scorsa settimana la deputata del Partito Democratico Federica Mogherini ha diffuso, indignata, la terribile notizia che il governo ha rinunciato al comando della missione NATO in Kosovo (missione nota con la sigla KFOR), dato che la manovra finanziaria non consentirebbe di reperire i fondi necessari neppure per mantenere l'attuale contingente. Un ritiro, parziale o totale, dei militari italiani, per qualsiasi motivo venga deciso, di per sè non sarebbe una di quelle notizie in grado di suscitare particolare dolore; ma il problema è che, come sempre, c'è l'inganno.
Il blog di "Panorama" - periodico guerrafondaio e privatizzatore come tutti gli altri organi d'informazione, ma più sfacciato -, ci ha offerto la spiegazione del mistero, dietro le parole di uno dei soliti "esperti" di cose militari: la soluzione del problema della missione in Kosovo consisterebbe nell'affidarla a ditte private, specializzate in "servizi bellici", quelli che sono ormai conosciuti con l'eufemismo di "contractor". La logica di questo suggerimento non appare inattaccabile, poiché, se il problema della missione militare italiana in Kosovo riguarda la mancanza di fondi, allora un appalto a ditte di contractor non lo risolverebbe, dato che non lavorano certo gratis. Ma solo un antimilitarista irriducibile si perderebbe in un dettaglio così trascurabile.
Consideriamo perciò pareri più equanimi e meno prevenuti. Commenti provvidenziali, tanto da apparire pilotati, sono infatti venuti in soccorso dell'opinionista di "Panorama", affermando che bisognerebbe uscire dal pregiudizio pacifista che mostra i contractor come dei lanzichenecchi assetati di sangue e di sesso, dato che si tratterebbe di professionisti fornitori di servizi. Ma l'immagine dei contractor come semplici mercenari assetati di sangue e di sesso appare alquanto addolcita, molto al di sotto del pericolo reale che essi costituiscono.
Le agenzie private di servizi bellici forniscono in appalto qualcosa che in precedenza lo Stato produceva da sé ed a costi molto inferiori. Se una volta la CIA uccideva persone con propri agenti ed in economia, oggi invece commissiona un appalto a ditte composte da suoi ex agenti, che, per lo stesso "servizio", si fanno pagare mille volte di più (anche se occorre detrarre dal guadagno la tangente da versare al committente). Due degli agenti CIA uccisi in un attacco della resistenza afgana poco più di sei mesi fa erano in in effetti dei dipendenti della ex Blackwater, che oggi si fa chiamare XeServices. L'appalto dei servizi militari a ditte private prevede che queste usino anche infrastrutture pubbliche, come le basi militari USA e NATO. Si tratta perciò di privatizzazione, ma, come sempre, di privatizzazione assistita e sovvenzionata dal denaro pubblico in ogni sua fase.
Si dice spesso che il vantaggio per i governi nell'usare i contractor consisterebbe nel fatto che i mercenari uccisi in azione non risultano nelle statistiche ufficiali dei morti, come invece accade per le forze armate regolari. Può esserci del vero, ma il motivo principale sta nella possibilità per il privato di far lievitare al massimo i costi di gestione, cosa che un funzionario pubblico non potrebbe fare senza infrangere la legge ed incorrere in rischi di sanzioni penali. Sono i vantaggi del diritto privato rispetto al diritto pubblico. Lo si è capito anche in Italia, ed ecco il motivo per il quale tutte le aziende pubbliche sono diventate delle Società per Azioni, anche se a capitale pubblico.
In Iraq la ex Blackwater è stata responsabile di stragi fra i civili, di traffico di armi, e persino di traffico di minorenni per usi sessuali; e per tutto ciò è risultata lo scorso anno imputata presso commissioni del Congresso e presso corti federali statunitensi, anche se oggi non si sa che fine abbiano fatto questi procedimenti. La ex Blackwater è presente anche in Colombia (dove fa traffico di cocaina), in Afghanistan (dove traffica in eroina), ed anche in Pakistan, dove alcuni suoi agenti camuffati sono stati beccati sul fatto mentre stavano per commettere un attentato. La stessa ditta viene utilizzata persino sul territorio USA, come nel caso delle evacuazioni forzate in seguito all'uragano Katrina. La ex Blackwater risulta presente anche in Kosovo, lo Stato fantoccio edificato attorno alla base militare USA di Bondsteel. Si tratta della più grande base militare USA al di fuori del territorio statunitense; una base che, secondo Alvaro Gil-Robles (inviato del Consiglio d'Europa per i Diritti Umani nel 2005), nasconderebbe anche una Guantanamo bis.
Ma, una volta tanto, in Kosovo non è la ex Blackwater a fare la parte del leone negli appalti militari e nei relativi business collaterali. Se l'Iraq, l'Afghanistan e la Colombia sono terreno di caccia di appalti e traffici illegali soprattutto per la ex Blackwater, i Balcani costituiscono invece da venti anni il feudo di un'altra ditta privata, la Military Professional Resources Inc. (MPRI). Fondata nel 1988 da ex militari statunitensi (quindi nove anni prima della Blackwater), la MPRI è stata protagonista nelle guerre dei Balcani, ottenendo nel 1994 dal Pentagono anche l'appalto per l'addestramento e l'armamento del neonato esercito croato. La creatura di cui la MPRI può andare più orgogliosa è però l'UCK, la milizia che ha condotto la "resistenza" anti-serba in Kosovo, divenuta nota per le sue attività nel traffico di armi, di eroina e di organi umani. Mai come in questo caso, la creatura appare ad immagine e somiglianza del creatore.
La MPRI appartiene alla L-3 Communications, una delle più grandi compagnie statunitensi specializzate nella fornitura di software e prodotti elettronici per lo spionaggio. La L-3 Communications rappresenta una gigantesca concentrazione di potere di "intelligence" e di forza militare sul campo, quindi può aggiungere alla coercizione violenta anche l'arma del ricatto sui governi e sui funzionari dei vari Stati "clienti".
La MPRI, dal canto suo, non si limita a fornire servizi, per quanto sporchi, nelle varie guerre, ma costituisce un'agenzia che prepara ed organizza le guerre e le trasforma in un veicolo per ogni genere di affari criminali. Tra le grandi competenze dimostrate dalla MPRC c'è stata quella di reclutare ed addestrare la criminalità comune del luogo, in modo da farne una forza organizzata e presente in modo capillare sul territorio. Si deve però, almeno in parte, all'addestramento ed all'armamento della MPRI la pessima figura dell'esercito georgiano contro la Russia nella guerra per l'Ossezia del 2008.
Insediatasi in Kosovo da prima della NATO, a cui ha preparato il terreno, oggi la MPRI si configura come un potere superiore alla stessa NATO. MPRI e NATO sono entrambe emanazioni del Pentagono, ma la MPRI ha il vantaggio di non dover accondiscendere a quelle procedure che lasciano spazio ai Paesi satelliti degli USA.
Risulta evidente che oggi i militari italiani cominciano a risultare di troppo in Kosovo, dato che assorbono finanziamenti che potrebbero essere più utilmente versati a ditte private.
Far parte della NATO non deve quindi più consistere nel fornire truppe all'alleanza, ma nel versare una "tassa di alleanza" (o tassa coloniale) per assegnare appalti alle solite ditte private statunitensi. Con l'istituzione, nell'ambito dell'ultima legge finanziaria, della Servizi Difesa SPA (società di diritto privato a capitale pubblico), il governo italiano si sta infatti adeguando a queste nuove direttive del Pentagono. Tali direttive comportano che la spesa militare non si concretizzi più in una Forza Armata nazionale, ma nell'appalto a ditte private di contractor, che, anche se ufficialmente italiane, rappresentino delle filiali delle case madri statunitensi.
La coincidenza della istituzione della Servizi Difesa SPA con la chiusura dei rubinetti finanziari per le truppe italiane in Kosovo, ovviamente è del tutto casuale, e solo degli incorreggibili "cospirazionisti" possono vedere in tale coincidenza delle motivazioni affaristiche, dato che, notoriamente, gli interessi privati non hanno nessuna influenza sulle scelte di governo. Conforta comunque il sapere che per i militari italiani non c'è pericolo di disoccupazione, dato che potranno sempre diventare dipendenti della MPRI o della XeServices.
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