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"La distruzione di ogni potere politico è il primo dovere del proletariato. Ogni organizzazione di un potere politico cosiddetto provvisorio e rivoluzionario per portare questa distruzione non può essere che un inganno ulteriore e sarebbe per il proletariato altrettanto pericoloso quanto tutti i governi esistenti oggi."

Congresso Antiautoritario Internazionale di Saint Imier, 1872
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.

Di comidad (del 26/09/2019 @ 00:33:11, in Commentario 2019, linkato 7256 volte)
Ciclicamente ritorna l’offensiva per il “no cash”, l’abolizione del contante. Oltre l’instancabile Gabanelli, c’è stavolta Confindustria, con il suo centro studi, a proporre addirittura di tassare i prelievi di contante.
È molto improbabile che questo tipo di misure possa interessare in questo momento un governo alla disperata ricerca di popolarità. Il PD sta cercando anche di inseguire il consenso degli insegnanti, prospettando l’eliminazione di una delle misure più odiose per la categoria, il famigerato bonus al “merito”. Gli insegnanti sono una categoria che in maggioranza è ancorata al politicorretto e quindi stravede per l’Europa e per Greta, eppure il PD era riuscito nel capolavoro di perderne i consensi.
Un soccorso per il PD è giunto persino da Matteo Renzi, che se ne va con armi e bagagli dal partito portando con sé altri personaggi che comportavano un grossa emorragia di consensi elettorali, Maria Elena Boschi e lo zelota dell’euroliberismo Luigi Marattin.
Molti commentatori hanno cominciato ad elucubrare sulla genialità tattica di Renzi, il quale ora potrebbe ricattare il governo. In realtà Renzi avrebbe potuto ricattare il governo molto meglio dall’interno del PD, dove era ancora il padrone del partito, mentre la sua dipartita per Nicola Zingaretti è tutto grasso che cola in vista della restaurazione della finzione del PD come partito di “sinistra”. È più attendibile perciò che Renzi sia stato costretto ad andarsene e che qualche ricatto, probabilmente giudiziario, lo abbia subito proprio lui.
Se si elucubrasse di meno e si andasse un po’ più al sodo, anche la proposta “no cash” di Confindustria non avrebbe acceso il solito dibattito sui pro e sui contro del contante, bensì avrebbe attirato l’attenzione sul paradosso di una associazione di industriali che si mette a fare lobbying bancario. Non si comprende infatti quale possa essere per un industriale l’interesse di contrastare la piccola evasione fiscale favorita dal contante. A differenza della grande evasione fiscale, che se ne va tutta in speculazioni finanziarie, quella piccola invece alimenta la domanda di beni di consumo, quindi agli industriali dovrebbe far comodo. Chi invece ha un interesse preciso a tenere bassa la domanda e quindi l’inflazione, anzi a trasformarla in deflazione, è la grande finanza, poiché la deflazione mantiene inalterato nel tempo il valore dei crediti e costringe Stati e individui ad indebitarsi sempre di più.
L’allineamento crescente degli industriali con gli interessi della finanza ha però cause oggettive e profonde. Non si tratta solo della caduta tendenziale del saggio di profitto, che rende più remunerativi gli investimenti finanziari che quelli produttivi. Il punto è che il lobbying finanziario possiede un’intrinseca capacità di fagocitare gli interessi industriali.

Sebbene abbiano un astratto interesse prospettico all’aumento della domanda di beni, i mitici imprenditori hanno un interesse molto più concreto e immediato a ridurre la quota salari, cioè a risolvere i loro problemi con la compressione del costo del lavoro. E c’è un solo modo certo per ridurre i salari, cioè quello di aumentare la concorrenza tra i lavoratori creando disoccupazione. Il ricatto occupazionale è fondamentale per le imprese non solo per comprimere i salari, ma anche per i rapporti di potere sui luoghi di lavoro. Più il lavoratore rischia di perdere il suo posto e di non poterne trovare un altro, più sarà disponibile ad accettare umiliazioni.
La contraddizione principale del capitalismo industriale riguarda perciò la sua esigenza di mantenere e consolidare i rapporti di potere nella società; un’esigenza che rappresenta un oggettivo freno interno alle sue potenzialità di sviluppo. Al contrario, la finanza non vive questa contraddizione; anzi, i suoi interessi sia immediati che prospettici sono rigorosamente funzionali all’inasprimento della gerarchizzazione sociale. La finanza si pone quindi come erede naturale delle gerarchie sociali precedenti, anche le più arcaiche. Il nesso tra gerarchizzazione e pauperizzazione risulta di nuovo evidente, perciò l’illusione di un superamento della scarsità dovrebbe essere definitivamente tramontata. Il capitalismo, sia industriale che finanziario, non può fare a meno della povertà, che rimane la sua principale risorsa, la sua materia prima fondamentale.
Disoccupazione e povertà determinano deflazione e quindi maggiore dipendenza degli Stati nei confronti degli “investitori istituzionali”, cioè multinazionali bancarie e soprattutto fondi di investimento. Il creare disoccupazione rappresenta un terreno di interesse comune tra finanza e industria, ma l’alleanza tra finanza e industria contro il lavoro comporta il totale allineamento pratico e ideologico dell’industria al lobbying della finanza.
La resa incondizionata della società nei confronti del potere della finanza si manifesta oggi nella crescente applicazione delle tecniche biometriche al credito, una tendenza che non trova alcun ostacolo nella legislazione, a dimostrazione ulteriore che la Legge non sta affatto lì per proteggere il cittadino comune. Il progetto di poter sostituire la carta di credito e lo smartphone con l’impronta digitale o con la traccia dell’iride, apre scenari da film splatter. Se sei un indebitato, non avrai modo di sfuggire, poiché ogni debito sarà tracciabile attraverso il tuo corpo, con la prospettiva di doversi tagliare una mano o cavare un occhio pur di sfuggire ai creditori.
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Di comidad (del 03/10/2019 @ 00:35:12, in Commentario 2019, linkato 7108 volte)
Il caso del voto trasversale del parlamento europeo sui “crimini” del comunismo presenta alcune riconferme ed anche qualche questione irrisolta. Tra le ovvie riconferme ci sono la compiaciuta rottura del PD con la propria tradizione politica ed il carattere fittizio/truffaldino del sovranismo della Lega, che ancora una volta smentisce una delle premesse fondamentali del sovranismo stesso, cioè il non farsi impegolare nelle diatribe ideologiche del passato per non perdere di vista l’obbiettivo prioritario della liberazione nazionale.
La questione aperta riguarda invece il vero movente della criminalizzazione del comunismo da parte delle oligarchie capitalistiche. È difficile credere che i capitalisti soffrano per la sorte dei Kulaki e degli internati nei Gulag. Qual è dunque il vero “crimine” che la memoria del comunismo sovietico è chiamata continuamente a scontare?
Si tratta di un delitto di lesa maestà. L’Unione Sovietica, con la sua semplice esistenza, aveva costretto per quasi due decenni il capitalismo a derogare dalle sue ferree regole di avarizia ed a concedere un po’ di benessere materiale alle popolazioni. La minaccia del comunismo, la sua apparente capacità espansiva, ha determinato infatti la necessità per le oligarchie occidentali di cercare consenso. Ciò ha comportato in alcune fasi persino una condizione di quasi piena occupazione dei lavoratori, una situazione che è arrivata sino all’inizio degli anni ’70.
Solo a metà degli anni ’70, la percezione della crescente debolezza strutturale dell’Unione Sovietica ha permesso al capitalismo di ritornare alle vecchie pratiche pauperistiche e di restaurare le gerarchie sociali attraverso la disoccupazione ed il conseguente ricatto occupazionale nei confronti dei lavoratori. Il successivo crollo dell’Unione Sovietica ha consentito addirittura di rompere gli argini e di avviare sistematicamente pratiche deflazionistiche. La deflazione si è istituzionalizzata con la nascita dell’Unione Europea e della moneta unica, i cui effetti di stagnazione si esercitano non solo in Europa ma a livello globale. La deflazione dell’area-euro è oggi il buco nero dell’economia mondiale. La deindustrializzazione, la decadenza degli standard produttivi e delle infrastrutture, sono stati prezzi che il capitalismo ha pagato per garantirsi la restaurazione delle gerarchie sociali; ma sono stati prezzi pagati senza alcuna remora, sostituendo disinvoltamente la ricchezza reale con le bolle finanziarie. Ad esempio, venti anni fa la Telecom era ancora una delle maggiori aziende telefoniche del mondo, mentre oggi è ridotta ad una piattaforma informatica e qualche call center, di cui una parte è dislocata in Romania per comprimere i costi. L’azienda non detiene più un proprio personale tecnico e deve rivolgersi di volta in volta a soggetti avventizi, con ritardi mostruosi per le riparazioni. Se si volesse minimizzare a tutti i costi il caso Telecom ritenendolo un esempio troppo estremo, allora come abbassamento degli standard aziendali può essere considerata paradigmatica la vicenda della Volkswagen che truccava il rilevamento delle emissioni inquinanti. La persistenza del mito/luogo comune del capitalismo produttivistico/consumistico, ha impedito per decenni di riconoscere che la sua vera priorità consiste nel perpetuare comunque il dominio di classe. La stessa nozione di capitalismo è rimasta vaga, concretizzandosi solo nel principio giuridico secondo il quale il potere in un’azienda si calcola in base alle quote di capitale; mentre tutto il resto può essere annoverato sotto il capitolo dell’assistenzialismo per ricchi.

Alcuni fanno risalire la controffensiva restauratrice del capitalismo al documento della Commissione Trilaterale del 1975 sulla “crisi della democrazia”. In quel testo si puntava il dito contro il presunto inceppamento dei processi decisionali all’interno dei regimi democratici e si invocava un’emarginazione delle masse dalla politica per insediare processi di “governance”, un concetto che in Italia venne tradotto come “governabilità”.
La prosa fumosa di quel documento lasciava comunque intendere quali fossero le decisioni allora “paralizzate” che andavano sbloccate, cioè le privatizzazioni e l’eliminazione dei limiti alla circolazione internazionale dei capitali. In realtà accreditare associazioni private come la Trilateral di una capacità direttiva sul capitalismo mondiale è molto azzardato. Il lobbismo privato detiene il suo vero punto di sintesi e di forza in istituzioni, almeno formalmente, pubbliche.
Le informazioni sul deterioramento della situazione interna dell’URSS erano acquisite da organi come il Pentagono, la CIA, la NATO e dal loro complemento finanziario, il Fondo Monetario Internazionale. Non vi è stato neppure bisogno di prendere decisioni, poiché è stata la stessa debolezza del nemico sovietico a far riprendere sicumera e arroganza alle oligarchie occidentali. Il capitalismo non è affatto un sistema impersonale; anzi, in esso sono determinanti sentimenti “umani” come l’avarizia, il rancore, l’odio verso l’uguaglianza e la libidine del comando.
La Trilateral ha rappresentato semplicemente il terminale di pubbliche relazioni di questo nuovo stato d’animo di rivalsa e vendetta sociale. Come avrebbe scritto qualche decennio dopo il ministro di “centrosinistra” Tommaso Padoa Schioppa in un suo articolo-manifesto del neo-deflazionismo, occorreva insegnare nuovamente alle masse la “durezza del vivere”, cioè rieducarle alla catena delle gerarchie sociali attraverso il ricatto del bisogno e della povertà.
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


16/10/2024 @ 02:50:24
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