Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Per circa una settimana i programmi tv sono stati agitati da dibattiti sullo stupro di Guidonia e sul presunto tentativo di linciaggio dei presunti colpevoli da parte di una presunta folla. Nell’epoca del “dominio delle immagini” ci si accorge che, in realtà, l’immagine è dominata dalla parola che ne fornisce l’interpretazione e ne deforma il senso. Nei video circolati in questi giorni - e che è possibile ancora reperire su internet -, infatti manca proprio la “folla”.
Il cosiddetto tentativo di assalto alla caserma dei carabinieri che detenevano i presunti stupratori romeni, è stato operato da un numero di persone che risulta persino inferiore a quello dei rappresentanti delle sedicenti forze dell’ordine. Dalle immagini non risulta neppure che i carabinieri abbiano fermato o, almeno, identificato gli “assaltatori”, cosa che non sarebbe stata difficile, dato che i soggetti in campo non erano nemmeno una ventina.
Insomma, tutto fa pensare ad un falso, ad una messinscena che servisse a fornire l’impressione di una condizione di esasperazione della “gente”. Le riprese erano infatti effettuate a campi cortissimi, con una tecnica che i registi adoperano quando vogliono dare l’illusione della presenza di masse che non ci sono; solo che questo espediente avrebbe potuto funzionare per qualche secondo di video, ma dopo un minuto già può essere scoperto.
Queste “folle infuriate” si esibiscono spesso sui giornali e nelle televisioni. Una folla del genere comparve anche durante il colpo di Stato che determinò la caduta del regime craxiano: la “folla” lanciò contro Craxi delle monetine, ed anche allora, mentre le parole degli speaker ufficiali descrivevano una folla, le immagini non riuscivano a riprendere più di una decina di individui. Anche in quel caso, il comportamento troppo remissivo delle “forze dell’ordine” doveva far pensare a qualcosa di preordinato e concordato. Poco tempo prima, un altro colpo di Stato, in Romania, era stato condito da una analoga coreografia popolare, e, in una ripresa televisiva, si era visto - o si era creduto di vedere - il “dittatore” Ceausescu contestato dalla folla.
A Napoli le “sommosse popolari spontanee” hanno di recente colpito dei campi di nomadi o di immigrati africani, e sempre a Napoli l’arresto di pregiudicati in vari quartieri è invariabilmente accompagnato da un presunto tumulto degli abitanti contro le presunte forze dell’ordine, che trovano così un ottimo alibi mediatico per giustificare la loro “impotenza” - o connivenza - verso la criminalità organizzata.
In democrazia c’è da aspettarsi che i gruppi di potere attuino le loro manovre nascondendosi dietro la “gente”, la “volontà popolare” o la “rabbia popolare”, ma quello che è strano è che lo stesso schema propagandistico sia stato attuato dal potere aristocratico in epoche lontane; perciò ci si è narrata molte volte la fiaba secondo cui un leader popolare sarebbe stato eliminato da quello stesso popolo che egli pretendeva di liberare.
È il caso di Cola di Rienzo a Roma, ed anche di Etienne Marcel a Parigi tutti e due nel XIV secolo; e, ancora, di Masaniello a Napoli nel XVII secolo, e di Carlo Pisacane a Sapri nel XIX secolo.
Nel XIV secolo, a Firenze, la rivolta degli operai specializzati nota come “Tumulto dei Ciompi” fu sì repressa da un esercito mercenario, ma non prima che gli oligarchi facessero diffondere la voce che fossero i ceti operai più umili ad auspicare quella repressione. A riferire della fine ingloriosa di questi antichi tentativi rivoluzionari, furono i cronisti dell’epoca, da considerare sicuramente attendibili quanto i giornalisti attuali.
Lo schema propagandistico ha attraversato indenne i secoli, dato che persino di Che Guevara, notoriamente eliminato dalla CIA, si riuscì comunque a dire che a determinarne la cattura erano state le spiate dei contadini che intendeva liberare.
Se i gruppi affaristici al potere intendono cambiare o inasprire la loro politica verso l’immigrazione, o contro un certo settore di immigrati, non hanno da fare altro che scatenare una “spontanea” sommossa popolare che costituisca il comodo paravento per decisioni già programmate. In tutto ciò che riguarda l’immigrazione, l’illusione di spontaneità risulta dominante. Secondo la fiaba ufficiale, gli immigrati arrivano qui per loro spontanea volontà, mentre lo Stato si fa guidare a riguardo dagli umori spontanei della gente. L’illusione viene sistematicamente coltivata dai media, sebbene ormai si sappia che le quote di immigrazione vengono decise dai trattati commerciali internazionali, quote che determinano persino la percentuale di clandestini, la cui presenza illegale viene pianificata come strumento di ricatto utile a tenere il più basso possibile il costo medio del lavoro.
Fra gli immigrati sono i Romeni ad essere oggi maggiormente sotto tiro, proprio perché il loro status giuridico di comunitari non li espone al disagio della clandestinità, quindi vanno tenuti sotto pressione con altri tipi di ricatto, come quelli del pericolo per l’ordine pubblico e della esasperazione della “gente”.
La firma dell’accordo con il governo per il nuovo modello contrattuale da parte di CISL e UIL, è stata salutata con toni trionfalistici, in quanto rappresenterebbe la fine del potere di veto della CGIL. In realtà il potere di veto della CGIL, ammesso che sia mai esistito, era già finito negli anni ’80, all’epoca del governo Craxi, con il taglio della scala mobile, che ebbe l’approvazione delle sole CISL e UIL. Con il secondo governo Berlusconi vi fu il cosiddetto “Patto per l’Italia”, anche questo con CISL e UIL e senza la CGIL. Da questo punto di vista non ci sono vere novità, semmai era inusitato che un segretario generale della UIL potesse celebrare una divisione tra organizzazioni sindacali come l’alba di una nuova e luminosa era.
Toni di così sfrenato compiacimento per l’emarginazione della CGIL non si erano usati neppure negli anni più aspri della guerra fredda, quando CISL e UIL indicavano, seppure con affettazione e ipocrisia, la divisione sindacale come un doloroso stato di necessità.
La differenza con allora è che l’Unione Sovietica rappresentava sì una minaccia esagerata e strumentalizzata, ma costituiva comunque un avversario di una certa consistenza, con cui fare i conti, e che certo non si poteva controllare esclusivamente in base ai tempi ed alle scadenze della propaganda ufficiale. Il nemico attuale, il terrorismo, è invece una costruzione giudiziario-mediatica puramente fittizia, rispetto alla quale la propaganda ufficiale non deve subire nessun adattamento dettato da effettivi rapporti di forza.
Non è un caso che all’accordo sul nuovo modello contrattuale sia stata fatta corrispondere la sceneggiata del professor Pietro Ichino al processo contro le presunte nuove Brigate Rosse, dove si è costituito parte civile pur senza averne nessun titolo.
I titoli dei giornali hanno riportato la notizia di minacce rivolte dagli imputati al professore, con il seguito delle solite reazioni indignate da parte di esponenti politici, primo fra tutti Walter Veltroni, segretario del partito per il quale Ichino è stato eletto parlamentare. Sennonché, leggendo gli articoli, si scopre che da parte degli imputati non vi sono state né minacce né insulti, ma solo ordinate manifestazioni di dissenso; anzi è stata avanzata da uno di loro un’obiezione che consiste in una oggettiva constatazione, e cioè che Ichino ha costruito le sue fortune criminalizzando i lavoratori. Procedendo nella lettura degli articoli si scopre poi che, in realtà, Ichino si è minacciato da solo, dato che la frase riportata dai titoli dei giornali con tanta enfasi - “Chi tocca lo Statuto dei Lavoratori muore” -, non è stata pronunciata da nessuno dei cosiddetti brigatisti, ma proprio dallo stesso Ichino.
A paragone con l’attuale situazione giudiziaria in Italia, c’è ormai di che far passare persino Torquemada per un garantista, poiché assistiamo al sequestro di cittadini che sono non solo processati per accuse che non si è in grado di provare, ma che vengono anche esposti alla gogna, e per opinioni neppure espresse da loro. La violazione dei diritti e della dignità degli imputati, come tutta la messinscena giudiziaria, avevano quindi un preciso scopo, cioè associare nella mente dell’opinione pubblica lo Statuto dei Lavoratori al terrorismo, per cui è terrorista o loro complice chiunque difenda lo Statuto dei Lavoratori. L’intimidazione nei confronti della CGIL non poteva esser più palese, e sono già cominciati i ricatti da parte di Veltroni per indurla ad accettare l’accordo; cosa che non dovrebbe risultare difficile, data la storica incapacità del gruppo dirigente della CGIL di reggere a questo tipo di accerchiamenti.
Non sorprende perciò che il segretario generale della UIL possa esibire tanta sicumera, dato che, in caso di bisogno, non ha altro da fare che imitare Ichino, cioè minacciarsi da sé, per poter immediatamente raccogliere una messe di solidarietà e di elogi. I segretari generali della UIL sono personaggi anonimi, di cui nessuno sa o si ricorda il nome o la faccia, ma, con qualche auto-minaccia terroristica, anche per loro ci potrà essere un panegirico sulla prima pagina di “La Repubblica”, un panegirico pari a quello che si è meritato Ichino.
Anche per il segretario della UIL sarà riservata una scorta, dato che la scorta oggi non costituisce più un semplice status symbol, ma un vero segno di santità, come le stimmate di Padre Pio. Come le stimmate, però, anche la scorta fa soffrire chi può esibirla, ed infatti Ichino ha intrattenuto la stampa narrando del dolore che questa condizione di scortato gli comporta.
Ichino ha le sue ragioni, poiché lo Stato, in effetti, gli ha dato la scorta non per proteggerlo, ma per tenerlo in ostaggio, pronto a sacrificarlo se ciò dovesse servire ad esasperare la pseudo-emergenza terroristica. Uno Stato così affamato di terrorismo - che costituisce per esso l’alibi/pretesto/giustificazione universale ed onnicomprensiva per ogni suo crimine affaristico -, può essere tentato di sacrificare i suoi servi. D’altra parte inconvenienti del genere fanno parte del gioco e dei privilegi che Ichino ha accettato, quando ha assunto il ruolo ufficiale di pubblico accusatore del pubblico impiego al fine di privatizzarlo. Altri invece vengono sacrificati senza aver accettato nessun gioco e senza accedere a nessun privilegio.
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