Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
L’elezione di Elly Schlein alla segreteria del PD ha suscitato molti sarcasmi a proposito delle origini altolocate del personaggio. Qui non si tratta affatto di prendere sul serio le primarie del PD, ed è ovvio che Stefano Bonaccini è stato fatto fuori in faide interne alla burocrazia di partito; ma, al di là di questo, forse era più interessante chiedersi se Elly Schlein sarebbe mai stata presentabile nella parte di outsider se non provenisse da quegli ambienti elitari, magari non particolarmente facoltosi, ma comunque privilegiati. Per fabbricare la Popolana della Garbatella ci sono voluti anni, e persino Bruno Vespa a farle da testimonial, mentre la Schlein è stata tirata fuori come un coniglio dal cilindro, e ciò proprio grazie ad un retroterra “raffinato”, che ora le consente persino di ostentare un artificioso look selvatico.
Anche chi non si farebbe mai comprare dai soldi, ne subisce spesso la suggestione; e lo stesso vale per le gerarchie antropologiche, per cui anche chi sia ostile alle discriminazioni di classe, tende a lasciarsi affascinare dallo status sociale. Non è questione di farsi da soli i processetti per capire quanto siamo puri e perfetti nelle nostre recondite intenzioni, bensì di osservare come certe concezioni gerarchiche vengano elargite alla pubblica opinione con la massima disinvoltura.
In una conferenza stampa del 15 febbraio scorso, il segretario della NATO Jens Stoltenberg ha dichiarato che l’Ucraina entrerà nell’alleanza atlantica, ma solo dopo aver sconfitto la Russia. Il rapporto tra NATO e Ucraina ricorda quindi certe fiabe, nelle quali un ragazzo di umili origini deve superare tante terribili prove per potere sposare alla fine la principessa. Ma se l’Ucraina si dimostrasse in grado di sconfiggere la Russia, sarebbe più logico che la NATO si mettesse sotto la protezione dell’Ucraina e non viceversa. Anzi, se è vero il mantra secondo cui l’esercito ucraino ha impedito a Putin la presa di Kiev e del nord del Paese ancora prima dell’arrivo delle armi occidentali, non si capisce perché non abbiamo già tutti supplicato di avere la cittadinanza ucraina.
Il paradosso comunicativo è abbastanza evidente: l’Ucraina ci viene celebrata ed esaltata in ogni modo da giornali e televisioni, ma non si perde comunque occasione di ricordarle il suo rango inferiore nella gerarchia internazionale, tanto che sorge il dubbio che non sia davvero previsto il lieto fine della fiaba, e neppure le nozze con la principessa. Pare proprio che all’Ucraina venga riservato il ruolo di popolo “Hobbit”, cioè di una razza inferiore che trova la propria gloria nel sacrificarsi per le razze superiori. Non a caso lo Hobbit è uno dei miti preferiti dal neonazismo ed anche dal neofascismo. C’è chi ancora si ostina a rinfacciare alla Meloni la sua presunta incoerenza, mentre invece in lei non c’è assolutamente niente di strano o imprevedibile. Il fascista odia l’uguaglianza ed ama la gerarchia in quanto tale, per cui gli va benissimo anche il ruolo del servo.
Del resto quando il Buffone di Arcore o il Mafioso Super-Raccomandato hanno voluto esprimere la propria insofferenza verso la guerra, se la sono presa con l’irrilevante Zelensky e non con i veri responsabili, cioè con i potenti lobbisti delle armi nel Dipartimento di Stato USA, come ad esempio Victoria Nuland, che è la principale responsabile per la politica sull’Ucraina. La Nuland è un pubblico funzionario ai vertici della diplomazia statunitense, proveniente però dall’Albright Stonebridge Group (ASG), un’agenzia privata internazionale di affari. L’ASG può essere considerato un tempio del conflitto d’interessi, dato che è stato fondato da un ex segretario di Stato come Madeleine Albright, che ha lasciato questa valle di lacrime circa un anno fa. La Nuland ostenta tranquillamente il proprio conflitto d’interessi, poiché le sue due posizioni gerarchiche si supportano ed esaltano a vicenda; in parole povere: si è molto più importanti e credibili se si può vantare di avere contemporaneamente le mani in pasta sia nella politica sia negli affari.
Il conflitto di interessi e la porta girevole tra incarichi pubblici e carriere private non vengono considerate corruzione; anzi, sono un segno di competenza, cioè di appartenenza alla cerchia ristretta di coloro che sanno dove mettere le mani. La corruzione è invece uno stigma dei popoli inferiori, perciò, mentre la Nuland e soci gestiscono il contrabbando di armi, ai corrotti ucraini spetta il ruolo del capro espiatorio. Il mese scorso persino il quotidiano britannico “Financial Times” ha finto di stupirsi del fatto che le armi ufficialmente inviate all’Ucraina ormai sono dappertutto; ed è ovvio che i sospetti cadano sui corrottissimi ucraini, non certo sulla purissima lobby del Dipartimento di Stato USA. La reazione del governo ucraino ai sospetti è stata prevedibilmente goffa, con le scontate accuse alla disinformazione russa; il che equivale comunque ad accettare la posizione di inferiorità dell’imputato.
Non esiste fenomeno più gerarchizzato dell’affarismo, che non funzionerebbe senza razzismo. Non si potrebbe fare affari senza questa distinzione tra uomini superiori ed uomini inferiori: razzismo ed autorazzismo, il rango superiore del cosiddetto “competente” ed il rango inferiore del cosiddetto “corrotto”, cioè di colui che accetta il ruolo di manovale dell’illegalità e di facile bersaglio per gli strali del moralismo. Proprio per evitare facili moralismi, occorre tener presente che il razzismo funziona a tenaglia. Chi fa parte di etnie “inferiori” è sottoposto a preclusioni ed esclusioni che spesso lo costringono a cercare protezione mafiosa anche se non vorrebbe. Ad esempio, si può finire in carcere in attesa di giudizio non per vera complicità con organizzazioni criminali, ma per semplice contiguità fisica con esse; una sorte che capita spesso a chi abiti in certe zone. Quando si è detenuti, anche se si spera in un’assoluzione o in un proscioglimento, la sopravvivenza immediata è comunque condizionata alla sottomissione ai boss; e le autorità carcerarie non fanno assolutamente nulla per impedirlo, sebbene il 41bis ci sia stato venduto con questa narrazione.
Chi denuncia i conflitti di interesse, può aspettarsi come massimo risultato di beccarsi un’etichetta di complottista. Il conflitto d’interessi infatti non suscita indignazione e neppure preoccupazione; anzi, il conflitto d’interessi conferisce prestigio e importanza a chi lo porta, fa status sociale e status antropologico. Ciò ha una sua oggettività, in quanto il potere se ne infischia delle fittizie distinzioni tra Stato e mercato, pubblico e privato, legale ed illegale, e rivendica sfacciatamente la propria trasversalità. In Italia, come ovunque, i vertici dei servizi di “intelligence” civili o militari, una volta dismesso il loro ruolo pubblico, trasmigrano ai vertici delle grandi imprese. Si ricordano i casi di Giulio Da Silva, Giampiero Massolo, Gianni De Gennaro, Luciano Carta, e tanti altri. Si badi bene che tutto è legale, dato che viene richiesta un’autocertificazione in cui si attesta di non avere situazioni di incompatibilità. Ormai è un mondo limpido e trasparente, infatti non si usa nemmeno più quella brutta locuzione di “servizi segreti”, ma appunto quella di servizi di “intelligence”, che è una parola più “aziendale” e si adatta meglio a descrivere la trasversalità tra ruolo pubblico e interesse privato. La parola “servizi” è davvero fuorviante, dato che non si tratta di organismi che lavorano in funzione della potenza degli Stati, bensì per proprio conto e per proprio interesse, semmai facendo da catalizzatore anche per interessi affaristici altrui. Non è affatto detto che i cosiddetti “servizi” procedano in modo omogeneo, per cui al loro interno possono esserci guerre per bande e scontri tra cosche d’affari diverse.
Con la Legge 124/2007 del governo Prodi, con ministro degli Interni Giuliano Amato, la commistione tra servizi di “intelligence” e imprese è stata formalizzata e legalizzata. Grazie a quella legge non soltanto si è istituzionalizzato il passaggio dalle carriere pubbliche a quelle private, ma anche viceversa, per cui le imprese private possono dislocare i propri uomini nei servizi di “intelligence”. In fin dei conti, che significa praticamente “Intelligence”? Vuol dire sapere su di te qualche cosa con cui posso ricattarti. Ricatti e affari sono oggettivamente entità complementari e non potrebbero esercitarsi gli uni senza gli altri. Come diceva giustamente Giuliano Ferrara, la ricattabilità di una persona è il più importante titolo di merito per consentirle di far carriera. Chi non fosse ricattabile, infatti non sarebbe affidabile. Victor Hugo diceva che c’è gente che pagherebbe per vendersi; ed in effetti riuscire a “sporcarsi” è un modo per inserirsi almeno nei ranghi inferiori dell’affarismo. Per questo oggi c’è il ministero dell’Istruzione e del “Merito”, proprio per insegnare ai giovani come ricattare e come diventare ricattabili.
Lo stesso atto di rivendicare meriti, di per sé rende ricattabili, poiché ti espone a quelle osservazioni al microscopio dalle quali risulta sempre che non sei irreprensibile. Ciò che ha reso irritante e insopportabile Alfredo Cospito, è proprio il fatto di aver spiazzato la procedura meritocratica. Se Cospito avesse detto che, poverino, lui non si meritava il 41bis, allora lo avrebbero tollerato, poiché si esponeva ad essere giudicato e umiliato. Cospito invece pretende per sé esattamente ciò che spetterebbe a chiunque altro, cioè che si tolga il 41bis a tutti e quindi anche a lui. Così Cospito si è “meritato” non solo l’odio del “Forca Quotidiano” di Gomez e Travaglio, ma anche, da parte del mainstream unanime, il titolo di Imperatore della Galassia Anarchica che minaccia l’indifeso pianeta Terra.
L’evasione di un cosiddetto “boss del Gargano” dal carcere di Nuoro ha ispirato un illuminante commento del locale capo della polizia penitenziaria, il quale è stato categorico: “Non si è trattato di un’azione estemporanea (sic!) …”. Se ne deduce che in un carcere di massima sicurezza le evasioni potrebbero essere anche un’improvvisata. Il questore di Nuoro ha voluto anche lui cimentarsi nella gara di perspicacia, chiarendo che questa evasione è “una cosa che sembra difficile da realizzare senza averla programmata e studiata”. Le telecamere di sicurezza riprendono infatti il boss della mafia garganica che se la squaglia utilizzando la tecnica delle lenzuola annodate, e altre modernissime tecniche del manuale dell’abate Faria. Non è interessante stabilire se tale evasione sia stata autogestita oppure assistita, e se le lenzuola le abbia fornite il ministro della Giustizia in persona; tanto meno ci interessa sapere se si tratta di un’evasione a tempo indeterminato, oppure di una licenza a termine, giusto per sbrigare qualche commissione, come quella concessa un mesetto fa a un detenuto agli arresti domiciliari, che la stampa ha indicato come un pericoloso killer di ‘Ndrangheta. Quell’evento dei primi di febbraio non aveva avuto una particolare risonanza, eppure era già un indizio che nel regime del 41bis ci sono figli e figliastri. Il punto vero è che nel sistema penitenziario, come in qualsiasi altra forma di potere, la cialtroneria e la crudeltà possono benissimo coesistere, anzi si completano a vicenda.
In un’intervista alla “Stampa”, il PM antimafia Sebastiano Ardita, già del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha ovviamente avallato lo scaricabarile della Corte di Cassazione su Alfredo Cospito, ma non ha potuto fare a meno di constatare a denti stretti che la sua vicenda ha completamente sputtanato il mito del 41bis, e che il regime è ormai un porto di mare, talmente pletorico da rischiare il crac. Insomma, il 41bis è sicuramente tortura per alcuni detenuti, ma non significa affatto sicurezza, anzi, prevede incontri, e magari persino summit, tra i boss. Il mito del grande castigamatti era stato alimentato dalle fiction di mafia, congegnate a volte come veri e propri spot, nei quali la minaccia del 41bis faceva tremare i boss e induceva i protervi malavitosi alla collaborazione. Il 41bis era stato quasi personificato e ci era stato spacciato come un altro Mastro Lindo, potente ed efficiente con un tocco di sadomaso, invece si trattava di pubblicità ingannevole, per cui non solo si teneva lo sporco nascosto sotto il tappeto, ma ci si stava soprattutto vendendo qualcos’altro.
In linea con l’iperbole pubblicitaria i quotidiani e i telegiornali fabbricano balle spaziali sugli anarchici; una sorta di “fantanarchia”, al cui confronto la “fantarcheologia” del caro vecchio Peter Kolosimo era un modello di rigore scientifico. Abbiamo così anarchici che obbediscono ciecamente ad un capo, anti-organizzatori organizzatissimi e irreggimentati, individualisti sottoposti ad una disciplina ferrea, nemici della gerarchia che troverebbero nelle gerarchie mafiose il loro Eden, e via delirando. Il tg3 del 25 febbraio ci informava di alcune azioni rivendicate (letteralmente) dalla “Galassia anarchica”. Niente potrebbe essere più preciso e circostanziato che la Voce della Galassia. Chi mai oserebbe avanzare dubbi su di una simile rivendicazione? Per contrastare le minacce cosmiche, la risposta potrebbe essere quella suggerita dalla serie Star Trek, nella quale si arriva all‘auspicata FUP, la Federazione Unita dei Pianeti, per tenere a bada le agitate galassie. La cialtroneria della comunicazione ufficiale non soltanto è complementare alla crudeltà inquisitoria nei confronti delle opposizioni, ma soprattutto è funzionale al business dell’antiterrorismo che esige una narrativa tanto generica e fumosa quanto suggestiva. Qualcuno infatti potrebbe ridurre tutta la narrativa galattica ad una questione di deficit intellettivo dei giornalisti, invece le cose non vanno meglio quando si tratta dei mitici “inquirenti”, come dimostra il rapporto di intelligence presentato dal governo lo scorso 28 febbraio. A parte la beffa per il contribuente, costretto a pagare profumatamente per questo cumulo di banalità e aria fritta, gli “esperti di intelligence” confessano a pagina 93 del rapporto di aver allestito un “dispositivo informativo” sulla minaccia anarchica, in pratica una rete di infiltrati e confidenti, dalla quale si apprende che la civiltà occidentale sarebbe, nientemeno, minacciata da un’internazionale di autostoppisti e saccopelisti.
Il concetto di mafia è giuridicamente preciso e delimitato, mentre quello di terrorismo è assolutamente vago e indistinto, può diventare un contenitore in cui c’è tutto e il contrario di tutto; non a caso ora è spuntata anche la proposta di configurare un nuovo reato, il terrorismo di piazza. Il petardo attribuito a Cospito è stato riconfigurato dalla Cassazione come strage, perciò non ci sarebbe nulla di strano nel considerare terrorismo anche il cercare di danneggiare a colpi di cranio delle proprietà dello Stato come i manganelli dei poliziotti. L’operazione di enfatizzazione della minaccia terroristica e del mettere assieme cose che non c’entrano l’una con l’altra, non è affatto nata ora, bensì risale a quando nel ministero della Giustizia si è istituito un organismo come la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo (DNAA); in tal modo si è creato un ibrido foriero di confusione e del tutto disfunzionale alla legalità, ma funzionalissimo agli affari delle lobby.
L’operazioncina di ibridazione è stata compiuta di soppiatto dal governo Renzi nel febbraio 2015, in un Decreto Legge numerato con il 7, nel quale si metteva un po’ di tutto. In effetti all’epoca le masse erano intrattenute e distratte con demenziali quanto inutili progetti di revisione costituzionale, perciò quasi nessuno si accorse della nascita del nuovo organismo geneticamente modificato, ed i giornalisti per anni hanno continuato a riferirsi a quell’organismo solo per quel che riguardava la sua funzione antimafia, dimenticandosi di quella A in più che compariva nell’acronimo e che ne rende il suono particolarmente inquietante. Il forzato incontro tra Cospito e i boss era stato, in un certo senso, già combinato in quel decreto del febbraio 2015, convertito in legge nell’aprile successivo. Avrebbe anche dovuto mettere sull’avviso il fatto che in un unico decreto si parlava di mafia, terrorismo ed anche di missioni militari, ma prima si sarebbe dovuto sapere che quel decreto esisteva.
Il militarismo ha i suoi meccanismi inesorabili, per cui ogni investimento nella guerra diventa inevitabilmente investimento nella guerra civile. Il militarismo non può accontentarsi dei nemici esterni, ma necessita di nemici interni, poiché la spesa nella ricerca tecnologica per gli armamenti e per l’intelligence militare deve comportare delle ricadute in ambito civile, altrimenti il business non risulta abbastanza conveniente. Mettere Difesa ed antiterrorismo, antiterrorismo e antimafia, tutti nello stesso calderone, è appunto un’operazione di lobbying d’affari. Se di terrorismo ce n’è troppo poco per creare allarme, non c’è problema, dato che basta dilatare la categoria di terrorismo e l’emergenza è servita. Ogni cittadino va criminalizzato preventivamente in quanto potenziale terrorista, perciò va spiato e controllato in ciascun interstizio della sua esistenza; o, almeno, questa è la fiaba “noir” che deve giustificare il giro d’affari. Per coronare il business, per farcelo digerire, non poteva e non doveva mancare lo spot dell’antimafia; poiché l’antimafia è buona, è bella, è civilizzatrice, è progressista, è politicamente corretta, quindi non desta diffidenze come il militarismo.
Mentre gli anarchici hanno assoluta necessità di capi, di gerarchie, di disciplina ferrea anche solo per allacciarsi le scarpe, ed obbediscono come un sol uomo agli impulsi telepatici di Cospito, al contrario il lobbying non ha bisogno di impartire ordini. Il lobbying infatti può esibire l’irresistibile seduzione del movimento di denaro: è sufficiente alludere al fatto che un po’ di terrorismo farebbe comodo agli affari, perché tutti (politici, magistrati, giornalisti) si adeguino spontaneamente. Non per scusare i giudici della Cassazione, ma ormai il business dell’antiterrorismo si è messo in moto e non si può pretendere da dei comuni mortali che frappongano il loro fragile corpo allo tsunami del denaro. Secondo la vulgata, Diritto e politica dovrebbero essere macchine dotate dello sterzo, del freno e della marcia indietro, cioè della capacità di correggersi; ma politica e Diritto sono stati soppiantati dal lobbying, dall’attivismo delle cosche d’affari, e quello ha solo l’acceleratore, ed è anche unidirezionale. Nel lobbying è il denaro che pensa al posto tuo, e pensa esclusivamente a come riprodursi, adottando ogni volta l’etichetta che fa comodo in quel momento, che può essere lo Stato o il mercato, il pubblico o il privato, il legale o l’illegale. Permane comunque un fascino delle astrazioni per cui dopo tutto quello che è successo con l’emergenzialismo Covid, che ha travolto ogni illusione di legalità, il povero Giorgio Agamben continua a trattare lo Stato non come un “brand”, ma come se fosse veramente un soggetto politico/istituzionale.
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