Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La futilità è una categoria dello spirito ampiamente sottovalutata. Magari si pensa che ci si sarebbe potuto risparmiare almeno la mamma della Meloni, come se la figlia non fosse già d’avanzo; invece è stata un’esperienza istruttiva. L’augusta genitrice ci ha infatti intrattenuto sulla sua filosofia, così riassumibile: “li poveri nun deveno magnà, se no nun lavoreno”. Nel pacchetto-Meloni non poteva mancare l’ingrediente dell’esibizionismo parentale, dato che il prodotto OGM di finta alternativa era stato in gran parte confezionato nel laboratorio/salottino di Bruno Vespa, mescolando la canzone “Semo gente de borgata” dei Vianella e Califano con l’inno dei marines.
Non sarebbe però corretto concludere che il partito della Meloni abbia subìto un tale bagno neoliberista e mediatico da non avere più nulla a che vedere con la tradizionale “destra sociale” del MSI. In realtà lo stile è ancora quello. Negli ultimi settanta anni Roma è stata la roccaforte del nostalgismo fascista a base popolare. La retorica “der popolo” è stata ovviamente declinata in senso favorevole all’establishment. In parte ciò è stato dovuto ad un meccanismo scontato: da sempre infatti la pratica della violenza ha rappresentato un ascensore sociale per le classi subalterne, sia con le carriere istituzionali di poliziotto o carabiniere, sia con le opportunità illegali dei mestieri di mazziere o campiere; per cui si riscontrava (e tuttora si riscontra) questa affinità ideologica ed elettorale tra esponenti delle “forze dell’ordine” e gli esattori della malavita, che spesso sono anche confidenti della stessa polizia. Ma non si può ignorare che il nostalgismo fascista ha spesso avuto anche i suoi percorsi del tutto idealistici e disinteressati, cioè una sincera mistica del popolo, che si risolveva comunque in un’involontaria, quanto inevitabile, mistica dell’establishment. Ciò che conosciamo come “popolo” è infatti in gran parte un prodotto dell’oppressione, perciò si finisce per identificare le virtù popolari proprio nelle fittizie “gabbie valoriali” imposte da quello stesso establishment che poi le scredita: la mamma, la patria, la bandiera, ed anche il dovere del lavoro. Non per niente la Meloni ha innalzato a proprio vessillo la “lotta all’assistenzialismo” ed è stata investita (almeno mediaticamente, visto che il governo lo fa Mattarella) della “missione” di compiere questa ennesima vendetta dell’establishment nei confronti dei subalterni. Ciò le procura il plauso di Confindustria e degli opinion leader, ma pone anche in evidenza come tutta l’operazione Meloni abbia il fiato cortissimo, dato che “er popolo” a riguardo è molto più sgamato di quanto si creda. Oggi nessun disoccupato è più disposto a digerire il fatto che i soldi pubblici siano riservati esclusivamente agli Elkann ed ai Benetton. Probabilmente la consapevolezza teorica del carattere intrinsecamente assistito del capitalismo mancherà ancora per molto tempo. Ma, visto che esiste l’evidenza empirica di questo enorme (e sputtanatissimo) assistenzialismo per ricchi, sarà difficile convincere che non possa esserci anche un po’ di assistenzialismo per poveri. Ammesso poi che sia vero che il reddito di cittadinanza scoraggi dal cercare lavoro, ciò non sarebbe affatto negativo, poiché se i lavoratori si facessero ancora più concorrenza sui pochi posti disponibili il livello dei salari crollerebbe sotto terra.
La parziale resurrezione elettorale dei 5 Stelle in versione Conte è stata certamente dovuta al fatto di aver saputo superare le squallide ipocrisie costruite sul concetto di assistenzialismo, secondo le quali bisognerebbe vergognarsi di ricevere i seicento euro di sussidio del RdC, mentre sarebbero da santificare i regali statali da decine di miliardi che vanno a beneficio dei finti industriali che stanno già delocalizzando quel poco di produzione che era ancora rimasto in Italia. Moralismi meschini dello stesso tenore sono stati riservati anche all’altra misura economica voluta dai 5 Stelle, cioè il superbonus edile, al quale è stato rimproverato di essere diventato una sorta di moneta fiscale. Ma il 6% in più di PIL spinto dal superbonus è stato proprio dovuto al fatto di aver creato un nuovo mezzo di pagamento. Se uno Stato in difficoltà finanziaria, invece di indebitarsi, usasse il credito fiscale per pagare i suoi fornitori, ciò sarebbe un bene per l’economia, ma non per le multinazionali delle finanza, che sono quelle che contano e che possono permettersi di fare la morale ai comuni mortali. Il denaro compra i tanti pronti a vendersi, ma riesce a suggestionare anche tutti quegli altri che non sarebbero disposti a farsi comprare.
A molti è piaciuto questo Giuseppe Conte che ha saputo contrastare dialetticamente le ipocrisie dell’establishment, ed è anche riuscito in parte a dissociarsi dalla retorica bellicistica. Il problema è che nel 2020 abbiamo visto un Conte in una versione un po’ più inquietante. Il suo governo fu preso inizialmente in contropiede dall’emergenza Covid, enfatizzata pretestuosamente da Attilio Fontana e soci in funzione del protagonismo della Lombardia e del creare fatti compiuti nel senso dell’autonomia differenziata. Ma Conte poi ha fatto propria quell’emergenza pandemica e l’ha trasformata in un vero e proprio percorso di “grandeur” dell’Italietta, assurta ad esempio e lume per il mondo. Conte ha usato il lockdown come un’esibizione, come uno spettacolo di disciplina patriottica delle masse italiche in modo da estorcere l’ammirazione del pubblico internazionale. Dopo aver determinato un crollo del PIL a livelli da guerra mondiale, lo stesso Conte ha trovato anche la magica soluzione, la palingenesi, per risollevare le sorti dell’Italietta e dell’Europetta tutta: il mitico e rigenerante Recovery Fund, o Next Generation EU.
Il lockdown del 2020 trova ancora tantissimi sostenitori, i quali non esitano a dichiarare che, con quella scelta, Conte avrebbe evitato milioni di morti. Qualcuno però dovrebbe spiegarci come mai nello stesso anno, il 2020, un Paese come la Bielorussia non ha adottato nessun lockdown e non abbia per questo registrato un aumento della mortalità. Anzi, nello stesso periodo i media ci narravano entusiasticamente degli oltre cento giorni di manifestazioni di piazza contro il presidente Lukashenko, il cattivissimo dittatore così inviso al Sacro Occidente. Visto che i manifestanti di Minsk lottavano per la democrazia occidentale, evidentemente il Covid li risparmiava.
Quando si dice che la politica nostrana è soggetta ai dettami della NATO e della UE, si afferma una cosa sicuramente vera ma anche incompleta. I protagonismi della politica possono impadronirsi dell’emergenzialismo e gestirlo in proprio, e quindi accelerare processi che avrebbero richiesto ben altri tempi. A Conte va sicuramente il “merito” di aver contribuito a costruire la tenaglia tra l’emergenza Covid e la palingenesi del Recovery Fund. Il disastro economico e l’euforia nazionalistica del lockdown hanno poi giustificato la sottomissione salvifica ad una serie di debiti e vincoli esterni.
I lockdown hanno contribuito notevolmente anche all’attuale crisi energetica, poiché si è verificato dapprima un crollo dei prezzi delle materie prime e poi una loro rapida risalita non appena la produzione è ripresa; e, in un mercato delle materie prime iper-finanziarizzato, ciò ha favorito enormemente la speculazione. Conte dovrebbe spiegarci come mai nel 2020 il suo governo non abbia approfittato del crollo dei prezzi del petrolio e del gas per assicurarsi delle scorte. Oppure queste scorte sono state fatte e ora ci si sta vendendo a trecento ciò che è stato comprato a venti?
Molti se la prendono, giustamente, con l’imperialismo americano che ci impone una disciplina energetica in funzione dei suoi interessi. Senza la rappresentazione mediatica della guerra in Ucraina, gli USA non riuscirebbero a bloccare l’export russo e ad imporci il loro antieconomico gas di scisto. Ma è anche vero che l’imperialismo è una strada a due sensi, per cui l’oligarchia nostrana desidera e invoca i vincoli euro-atlantici, che rappresentano il pretesto e la sponda su cui realizzare la sua vera priorità, cioè la vendetta contro i propri sudditi. Quando Padoa Schioppa buonanima ci parlava della riscoperta della “durezza del vivere”, intendeva che era ora di regolare i conti con il ceto medio, che, negli anni della guerra fredda, era stato fatto espandere troppo in funzione anticomunista, sino ad assorbire molti settori operai del Centro-Nord. Si tratta adesso di usare lo strumento fiscale e tariffario per trasferire altra ricchezza verso la finanza, per cui le bollette e la probabile patrimoniale sono l’arma, l’atlantismo e l’europeismo sono l’alibi, mentre i bersagli e le vittime sono le casette e i risparmiucci.
A differenza di molti Paesi cosiddetti ”in via di sviluppo”, l’Italia non è assolutamente indebitata con il Fondo Monetario Internazionale. Semmai è il FMI a dipendere finanziariamente dall’Italia per circa il 3% delle quote di partecipazione, che sino a qualche tempo fa corrispondevano ad una quindicina di miliardi e che, con gli ultimi versamenti, sono diventati una ventina.
La barzelletta corrente denomina queste quote versate al FMI come “diritti speciali di prelievo” (DSP), poiché i “detentori” delle quote stesse avrebbero la facoltà di richiederle e riutilizzarle in proprio. Colei che oggi viene presentata come la Presidente del Consiglio in pectore (Mattarella permettendo), tra il 2020 e il 2021 propose che l’Italia ricorresse a quei DSP. Le rispose Carlo Cottarelli, ex dirigente del FMI per le politiche fiscali: l’Italia quei soldi se li può scordare, poiché ormai il FMI se li è presi e se li usa per ricattare i Paesi poveri. Nel dibattito televisivo con la Meloni, Enrico Letta ha rinfacciato quell’episodio alla sua rivale. La Meloni saprà però certamente redimersi da quell’ingenuo errore di gioventù ed allinearsi non solo ai voleri della NATO (cosa che il suo partito ha sempre fatto) ma anche del FMI. La Meloni è così pompata dai media perché è una Pierina che dal banco battibecca coi professori facendosi forte della protezione del preside, e che sa imparare alla svelta quali siano i deretani da prendere a calci e quali vadano invece lustrati a dovere. Una volta la carriera di Giorgia non sarebbe andata oltre il grado di rappresentante di classe o d'istituto, ma oggi è la democrazia scolastica a fare da paradigma alla democrazia parlamentare.
A proposito di deretani che contano, ci sono una serie di indizi che dovrebbero mettere sull’avviso per quanto riguarda l’effettivo ruolo delle organizzazioni sovranazionali nei confronti di Paesi come l’Italia. Gli ultimi due presidenti della maggiore banca italiana, Unicredit, non sono soltanto due ex ministri dell’Economia e Finanze, ma entrambi provengono dalla carriera interna al FMI. Fabrizio Saccomanni buonanima, ministro nel governo Letta, era distaccato al FMI per conto della Banca d’Italia. Il suo successore alla presidenza di Unicredit, Pier Carlo Padoan, era stato suo successore anche al Ministero dell’economia, nei governi Renzi e Gentiloni. Padoan proveniva a sua volta dal FMI, dove aveva svolto la funzione di direttore esecutivo per l’Italia; successivamente lo stesso Padoan ha svolto l’incarico di vicesegretario e di capo-economista presso un’altra organizzazione sovranazionale, l’OCSE, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo. Se si considera che anche Mario Draghi ha ricoperto un ruolo dirigenziale nella Banca Mondiale, la sorella minore del FMI, si può notare che nel curriculum di porte girevoli degli oligarchi della finanza non manchi quasi mai l’appartenenza nella prima fase della carriera ad uno di questi organismi sovranazionali.
Ovviamente il FMI non è onnipotente e talvolta i suoi ex appartenenti si rivelano degli sfigati irrimediabili, come Carlo Cottarelli; ma si può essere certi che il marchio FMI lo renderà ancora riciclabile.
Le lobby si formano appunto in questa trasversalità delle carriere tra pubblico e privato, tra nazionale e sovranazionale, per cui le oligarchie locali vantano sempre sponde e agganci all’estero. In definitiva è proprio il loro conflitto di interessi ad accreditare gli oligarchi di un alone di “competenza”, elevandoli all’Olimpo di una sorta di super-razza degna di detenere il potere politico e finanziario; ciò in nome di capacità che sono presunte e desunte esclusivamente sulla base delle carriere personali e delle aderenze internazionali, non degli effettivi risultati economici, che invece risultano regolarmente disastrosi. Paradossalmente il successo di un oligarca non consiste nello scongiurare le emergenze bensì nel provocarle.
Il ruolo di centrale del lobbying finanziario svolto dal FMI è stato particolarmente evidente nel caso della devastante bolla dei titoli ESG (Environmental, Social, Governance), cioè la finanza indirizzata agli investimenti verso l’economia cosiddetta “sostenibile” e “green”. Fu Christine Lagarde, all’epoca direttore del FMI, a promuovere l’influencer dei social Greta Thunberg (un’altra Pierina) al rango di interlocutore dei potenti in materia di ambiente e di riscaldamento globale. I soliti imbecilli di mestiere si sono incaricati di conferire l’etichetta di teorico della cospirazione a chiunque notasse questa evidenza, come se il fatto non fosse rilevante in sé e necessitasse per forza di una dietrologia per assumere significato. La tecnica infallibile dell’imbecille professionista è quella di porre sempre una domanda in più del necessario, in modo da ignorare il dato oggettivo e creare confusione con falsi problemi, come appunto l’attribuire per forza una dietrologia ad ogni constatazione di un dato di fatto. Lo schema ricorrente è quello del famoso aforisma attribuito ad Harry Truman: “Se non puoi convincerli, confondili”.
Volente o nolente, infatti Greta è stata usata come testimonial pubblicitario dei titoli ESG, della finanza “green”. Il 22 aprile 2021, in occasione della Giornata della Terra, il quotidiano confindustriale “Il sole-24 ore” titolava: “Generazione Greta ed Europa spingono per una finanza più sostenibile”.
Poi tutta questa manfrina della finanza green si è rivelata per quello che era: una speculazione al ribasso sui titoli dei combustibili fossili, per poi rastrellare quegli stessi titoli. Il fondo di investimento che ha spinto maggiormente sulla finanza “green” è stato Blackrock, ed è lo stesso fondo che detiene 82 miliardi di investimenti nel carbone ed altri 468 miliardi nel gas e nel petrolio.
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