Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Molti dei tagli fiscali varati da Trump nel dicembre 2017 a favore delle corporation e delle grandi ricchezze, sono in scadenza proprio nel 2025, quindi è questione di mesi. Nello scorso anno il Congressional Budget Office, cioè l’organo istituzionale del Congresso USA per le stime di bilancio, quantificava a quattrocento miliardi di dollari all’anno la cifra necessaria per mantenere i tagli fiscali anche per il futuro. L’estensione dei tagli fiscali per i ricchi all’intero decennio prossimo costerebbe quattro trilioni di dollari. I tagli fiscali di Trump, come già quelli di Bush junior, non sono stati coperti da nuove entrate, cioè sono stati effettuati a debito. Per riuscire ad accontentare i donatori che hanno finanziato la sua campagna elettorale, Trump ha quindi bisogno di vendere titoli del Tesoro per quattrocento miliardi all’anno. In base al gioco delle parti, i democratici hanno sempre demonizzato Trump, avallando il mito del presunto populista e isolazionista, ma si sono ben guardati dal correggerne la politica fiscale.
Dato che ai ricchi non si fa mancare niente, i quattro trilioni di dollari neanche basterebbero, poiché, oltre agli sgravi fiscali, bisogna calcolare i sussidi federali e statali alle imprese. Il complesso di questi sussidi negli USA supera i centoventi miliardi di dollari all’anno, ma sicuramente la cifra è sottostimata. Dando una sbirciata all’elenco dei miracolati del welfare per ricchi, si scoprono non soltanto i soliti noti come Boeing e Tesla, ma anche multinazionali straniere che operano negli USA, come Volkswagen. Non si tratta di sostenere l’industria, visto che tra i destinatari dei soldi dell’assistenzialismo per ricchi ci sono Amazon e la Disney, e persino banche come Jp Morgan e Goldman Sachs. Le corporation pagano sempre meno tasse; sono invece le corporation a tassare i governi.
Di fronte ad una tale voragine finanziaria da colmare, il nervosismo e la goffaggine di Trump sono comprensibili, dato che la priorità di un uomo di potere è di non farsi mollare da quelli che lo hanno messo al potere. I democratici risultano altrettanto goffi, dato che, per ritornare alla Casa Bianca non possono toccare i privilegi dei donatori. In un regime di lobbying integrale come quello statunitense, rimane scarso spazio a considerazioni strategiche e geopolitiche, per cui l’attività concreta del governo e della sedicente opposizione consiste nel fare pubbliche relazioni e, soprattutto, nel fare debiti per mantenere e allargare i privilegi delle lobby.
Non si tratta soltanto di tagli fiscali ma anche di favorire l’elusione fiscale attraverso trucchi legali come il non profit, che è un paradiso fiscale teoricamente concesso ad attività “benefiche”, sennonché si tratta di beneficiare se stessi. Il maggiore sostenitore elettorale di Trump è infatti l’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee); perciò, parafrasando il personaggio di Al Capone del film di Brian De Palma, si potrebbe dire che Trump è solo chiacchiere e distintivo dell’AIPAC. Questa super-lobby può svolgere la sua attività di supporto a Israele in condizioni di esenzione fiscale, grazie alla definizione legale di organizzazione non profit. L’immunità fiscale era concessa anche alla organizzazione antenata dell’AIPAC, l’American Zionist Council. Grazie al non profit i contributi elargiti da privati all’AIPAC possono essere detratti dai donatori dalla loro dichiarazione dei redditi.
L’AIPAC è un’organizzazione specializzata nel raccogliere fondi e convogliarli verso un paese straniero con il preciso scopo di sostenere la politica dei suoi governi. Ciò comporta non soltanto un’evasione fiscale legalizzata, ma anche un riciclaggio legalizzato, dato che una volta che i soldi arrivano in Israele risulta impossibile tracciarne il percorso. Nulla impedisce che una parte degli eventuali profitti realizzati investendo quei fondi ritorni ai disinteressati donatori. Quando uno Stato riconosce lo status giuridico di non profit ad organizzazioni che operano all’estero ed in funzione di governi esteri, compie un’abdicazione alla propria sovranità sia in ambito fiscale, sia in ambito penale; ma può sempre raccontarci che lo fa per la santa causa della lotta all’antisemitismo. In definitiva sono le lobby i veri soggetti politici, non gli Stati. L’aspetto interessante è che questa illegalità legalizzata non solo non viene arginata ma diventa un modello vincente. In Europa agisce una lobby sionista ad hoc, il Transatlantic Institute del Jewish American Commitee, di cui ha parlato qualche mese fa anche Report. Si tratta ancora una volta di un lobbying che si avvale di un’accattivante immunità fiscale che trasforma tutti in ammiratori del sionismo.
C’è infatti una sorta di smania di fare pellegrinaggi in Terrasanta. Vediamo un’altra ondazione non profit, la Med-Or di Leonardo SpA, presieduta dal portagirevolista Marco Minniti, stabilire legami speciali con Israele e portarsi dietro l’intera cordata delle grandi aziende a partecipazione pubblica. Si potrebbe dire che oggi la politica estera dell’Italia (ma non solo dell’Italia) è in mano ad organizzazioni non profit, cioè di associazioni a delinquere legalizzate e finalizzate all’evasione fiscale ed al riciclaggio. Il tutto è stato formalizzato ed ufficializzato, dato che, durante il governo Draghi, il ministero degli Esteri aveva messo nero su bianco i termini del rapporto con Med-Or, eleggendo questa fondazione a musa ispiratrice della politica estera dell’Italia. Ovviamente nulla è cambiato con l’attuale governo, perché i governi passano e le lobby rimangono.
Trump ha sempre rivendicato con orgoglio di essere un lacchè di Israele già da molto prima di entrare in politica, dai tempi in cui giocava ancora con le figurine. Nel 2016 Trump testimoniò questa sua antica fedeltà sionista davanti alla platea dei lobbisti dell’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) e si conquistò il loro plauso attaccando l’allora presidente Obama per aver siglato un accordo con l’Iran sul nucleare. Gli insulti di Trump a Obama furono talmente violenti da costringere la dirigenza dell’AIPAC a prenderne le distanze, dato che proprio Obama in quello stesso periodo stava inviando in Israele finanziamenti per trentotto miliardi di dollari, al solito scopo di difenderlo dalle “minacce”. Minacce decisamente redditizie; infatti c’è una lobby che paga i politici di uno Stato affinché spremano il loro contribuente per inviare finanziamenti ad uno Stato straniero. Magari una parte di quei soldi spediti all’estero viene riutilizzata dalla lobby per finanziare nuovamente i politici, in modo da convincerli ad inviare altro denaro pubblico allo Stato straniero; e così via, all’infinito. Una mente ristretta definirebbe tutto ciò come peculato, frode e riciclaggio, mentre una mente illuminata lo chiama “civiltà occidentale”.
La fedeltà sionista (espressa nei termini più scurrili e senza le ipocrisie dei democratici) rappresenta l’unica questione nella quale Trump non è risultato mai ondivago ed è rimasto costantemente fedele alla linea. L’attuale amministrazione Trump infatti consegna la politica estera americana a sionisti di sicura fede e di pieno gradimento dell’AIPAC: Pete Hegseth a dirigere il dipartimento della Difesa, Mike Waltz a consigliere della sicurezza nazionale; ed alla direzione della CIA la ex democratica Tulsi Gabbard, la quale una volta si rendeva popolare dichiarando di opporsi alle avventure belliche.
La nuova direttrice della CIA ha invece costruito la sua “credibilità” in questi ultimi tempi parlando del pericolo che Hamas rappresenterebbe per gli USA, ed inoltre ha affermato di considerare le proteste universitarie contro il genocidio a Gaza come un sostegno ad Hamas. Questa posizione si è dimostrata in linea con quella dell’amministrazione Trump, che ha sospeso i finanziamenti alla Columbia University, costringendo il rettore non solo ad impedire le manifestazioni studentesche pro Palestina, ma anche a controllare i contenuti didattici sulla storia del Medio Oriente inserendo personale fedele a Israele. Secondo alcuni Israele non è uno Stato perché mancano le fondamentali premesse giuridiche per definirlo come tale, cioè la forma istituzionale (repubblica o monarchia) e la dichiarazione dei propri confini. Se non è uno Stato, in compenso Israele è uno status, una condizione di superiorità antropologica; infatti negli USA, ed anche in Germania, è proibito criticarlo. Ciò dimostra che lo Stato è solo un’astrazione giuridica, mentre ciò che conta è lo status. Elon Musk, che è attualmente uno dei PR dell’amministrazione Trump, ha fatto un’apparizione telematica al congresso della Lega dichiarando tra l’altro che i “cattivi” si riconoscono proprio dal fatto che sono contro la libertà di parola. Appunto, se lo dice lui.
L’AIPAC è la parte sostanziosa del trumpismo, poi c’è la parte fumogena, la costruzione di un’immagine di bullo per avvolgere nell’epica e nel mito la squallida condizione del lacchè dell’AIPAC. Sarebbe un errore ritenere che dietro certe pantomime vi siano lucidi disegni di mistificazione; in realtà la mistificazione è una relazione sociale che può comportare ostilità autentiche e irriducibili, per quanto vuote di concrete alternative. Non si potrebbe stabilire chi sia più sionista tra un Roberto Saviano ed un Daniele Capezzone, eppure militano su sponde ideologiche che si sentono opposte, recitando la loro parte con quell’eccesso di immedesimazione che, come diceva Diderot, è tipico dei pessimi attori. In questo senso i sionisti fanatici alla Fiamma Nirenstein (consulente speciale del governo israeliano per la lotta all’antisemitismo) hanno una tale idiosincrasia per le ipocrisie del politicamente corretto da offendersi a morte quando Biden fingeva di prendere in considerazione l’ipotesi dei “due popoli, due Stati”, oppure di dispiacersi per la sorte dei bambini di Gaza. Il sionismo fanatico ha talmente preso alla lettera le ipocrite formule “liberal” da porre le condizioni per quella scomposta reazione ideologica in cui è nato il fenomeno Trump. Il paradosso di uno come Trump è che veramente si è bevuto la propaganda dei democratici ed ora si è convinto che i guai degli americani derivino dall’essere stati “troppo buoni”, dall’aver pensato prima agli altri invece che ai propri interessi, e gli altri ne avrebbero approfittato. In tal modo il bullismo è diventato epica del riscatto e della “liberazione” dai truffatori e parassiti. Si tratta di un caso da manuale di auto-intossicazione con la propria stessa propaganda.
Come è noto, l’ultima manifestazione di bullismo di Trump ha riguardato i dazi, da lui definiti appunto come “liberazione”. Secondo alcuni, almeno sui dazi Trump si sarebbe dimostrato “coerente”, poiché ne parla da decenni. In realtà Trump un giorno dichiara che i dazi sono i pilastri di una stabile strategia protezionista, e poi il giorno dopo dice che sono solo uno strumento negoziale ed è pronto a ritirarli; quindi c’è coerenza, ma solo nel senso della costante confusione; tra l’altro i dazi sono tasse e quindi, secondo la Costituzione americana, potrebbero essere imposti solo previa approvazione del Congresso. Ma delle Costituzioni chi se ne frega. La caoticità delle imposizioni tariffarie sulle merci importate non fa neppure intravedere alcun piano di protezione dell’industria statunitense; semmai il contrario, dato che i sistemi produttivi dei vari paesi sono interconnessi. Vari commentatori hanno cercato perciò di trovare nei dazi una “ratio” puramente finanziaria, partendo dall’ipotesi che questo sia uno shock utile ad ammorbidire le controparti e ad indurle a certe concessioni. La prima concessione dovrebbe riguardare il cosiddetto “accordo di Mar a Lago” (dal nome del resort di proprietà di Trump). Secondo Bloomberg si tratterebbe di imporre ai possessori esteri di titoli del debito statunitense dei nuovi “bond” del Tesoro a scadenza centennale a compensazione della rinuncia a pretendere il rimborso dei titoli attuali. Ammesso che gli investitori esteri siano disposti ad aspettare cento anni, il problema è che solo poco più di un terzo del debito USA è in mani straniere, quindi un eventuale accordo del genere non sarebbe decisivo per ovviare alla portata stratosferica del debito stesso e degli interessi da pagare.
Secondo altri commentatori lo scopo del piano dazi sarebbe di costringere i vari Stati ad aprirsi ai fornitori americani di servizi finanziari, in modo da potere accedere alla gestione del risparmio delle famiglie, che specialmente in Europa è abbastanza sostenuto, anche se non più come negli anni ’80 e ’90. Anche in questo caso la spiegazione appare un po’ faticosa, dato che non c’era bisogno di alcuno shock per riottenere ciò che già è nella propria disponibilità. Attualmente Blackrock è il maggiore azionista di UniCredit, che a sua volta sta tentando la scalata alla tedesca Commerzbank. Dopo il via libera della BCE alla fusione, l’ultima parola spetterebbe al prossimo cancelliere tedesco Merz, che proviene da Blackrock. Se la Commissione Europea non fosse interamente immersa nel gioco di ruolo, penserebbe a reagire ai dazi di Trump proprio sanzionando Blackrock.
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