L’accordo di mutua difesa firmato da Arabia Saudita e Pakistan lo scorso 17 settembre ha precedenti storici abbastanza noti, dato che è stata proprio la petro-monarchia di Riad a finanziare il programma nucleare militare pakistano, ufficializzato nel 1998. D’altra parte occorre considerare la tempistica dell’annuncio di tale accordo, che arriva pochi giorni dopo l’attacco israeliano al Qatar, sebbene la petro-monarchia di Doha ospiti una grande base militare degli Stati Uniti. In altre parole, l’inaffidabilità degli USA ha costretto il regime saudita a diversificare i “fornitori di sicurezza” ed a favorire l’ingresso di un nuovo soggetto nell’area medio-orientale; il Pakistan, appunto. Il regime di Islamabad ha ufficialmente buoni rapporti con gli USA, quindi il suo ingresso nell’area medio-orientale non assume il carattere di una sfida dichiarata al presunto “ordine” statunitense, sebbene oggettivamente rappresenti un segnale del suo crescente discredito.
Molte analisi geo-strategiche si sono concentrate sulle conseguenze negative che un tale accordo potrebbe comportare per il principale avversario del Pakistan, cioè l’India. Sembra però che in questo ambito non si sia detto finora molto di concreto, specialmente per ciò che riguarda le sorti del
corridoio infrastrutturale e commerciale che dovrebbe collegare l’India al Medio Oriente. Il porto israeliano di Haifa avrebbe dovuto essere tra le infrastrutture essenziali per rendere operativo il corridoio con l’India; è stato però lo stesso Israele a bruciare questa prospettiva attaccando l’Iran, i cui missili hanno dimostrato che Haifa è troppo vulnerabile e insicura. La stampa sionista finge che nulla sia cambiato per Haifa, ma intanto il regime israeliano continua a minacciare l’Iran, scoraggiando gli investimenti in un’infrastruttura dal destino così incerto.
Inoltre l’Arabia Saudita non ha mai avuto nessun contenzioso con l’India, ed ha finanziato l’atomica pakistana per avvantaggiarsene in caso di conflitto con l’Iran. Sei anni fa vi furono
gravi attacchi con missili e droni agli impianti petroliferi sauditi; quegli attacchi vennero imputati all’Iran. Neppure in quel caso la “protezione” americana funzionò. Riad non ritenne in quella circostanza di ricorrere ad un accordo di mutua difesa col Pakistan, ma scelse di risolvere il conflitto con l’Iran affidandosi alla mediazione cinese, il che ha portato ad un accordo con Teheran che sembra reggere. Infatti il comportamento di Israele, come quello delle altre potenze “occidentali”, non dà la priorità a interessi economici o di sicurezza, bensì di primato nella gerarchia internazionale. Per questo motivo Israele non fa differenza tra amici e nemici; nel momento in cui non è possibile attaccare il nemico (o presunto tale) si può colpire anche un paese praticamente alleato come il Qatar, perché l’importante è ribadire il proprio status, stabilendo che si è al di sopra delle regole. Per questo motivo è impossibile qualsiasi composizione o qualsiasi accordo con Israele, il quale percepisce ogni impegno che possa limitarne i movimenti come un attacco al proprio status.
Gli USA si comportano in modo analogo, in più si illudono di poter sempre monetizzare il loro primato nella gerarchia internazionale. Trump infatti ha cercato di sottomettere al suo racket delle estorsioni un paese come l’India, pur considerato dagli USA un partner militare fondamentale per contenere la Cina; inoltre è dall’India che proviene la gran parte degli ingegneri necessari allo sviluppo dell’high-tech americano. A differenza dell’Europa e del Giappone, guidati anch’essi dal criterio gerarchico di far parte a tutti i costi del club delle razze superiori (il mitico Occidente), l’India ha seguito il suo interesse vitale di mantenere i rapporti politici e commerciali con la Russia e di migliorare, almeno momentaneamente, le relazioni con la Cina. La cultura indiana è esplicitamente gerarchica, quindi c’è a riguardo un grado di consapevolezza che rende possibile prendere le distanze dalla nozione di status quando questa confligga con interessi di sopravvivenza. La società cosiddetta “occidentale” ha invece avvolto le gerarchie in una nube di eufemismi e paralogismi che rendono il culto della disuguaglianza una nozione automatica e scontata, che diventa immune alla riflessione e alla critica. Assistiamo perciò al paradosso occidentale di miliardari che diventano leader “populisti”, così come il conflitto di interessi, quella forma di cleptocrazia che consiste nell’avere contemporaneamente le mani in pasta nel privato e nel pubblico, diventa sinonimo di “competenza”. Ciò spiega come mai la NATO o la UE non siano considerate “laicamente” come delle organizzazioni (o, ancora più “laicamente”, come associazioni a delinquere), bensì come ascensori antropologici.
L’accordo di Riad del 17 settembre non sembra presentare risvolti negativi per l’India; semmai il contrario, dato che il suo antico rivale, il Pakistan, andrebbe a ritagliarsi un proprio spazio di grandeur lontano dai confini indiani. L’arrivo in Medio Oriente di un nuovo attore sunnita come il Pakistan va a disturbare non soltanto lo status di Israele, ma anche a sminuire il ruolo dell’altra grande potenza sunnita dell’area, cioè la Turchia, che non è un paese arabo, ma potrebbe rivendicare un passato imperiale di tutore del mondo arabo. Erdogan ha però ampiamente dimostrato di non essere in grado di recuperare questo ruolo di tutore; infatti, dopo aver stretto profondissimi legami finanziari e militari con il Qatar,
non è stato capace di difenderlo dagli attacchi di Israele. Oggi al regime di Ankara arrivano esplicite minacce da Israele, ma finora non vi è stata alcuna reazione, neppure in Siria, dove le forze armate turche potrebbero immediatamente ridimensionare le pretese espansionistiche di Netanyahu.
Erdogan usa spesso una retorica che farebbe supporre una sua visione neo-ottomanista, che comporterebbe assumersi più responsabilità nei confronti dei paesi arabi, evitando di destabilizzarli, come invece ha fatto con la Siria. Erdogan ha puntato tutto sul panturchismo, perciò, al di là della retorica ufficiale, ha dovuto considerare l’Iran come principale avversario ed Israele come oggettivo alleato; poiché il dominio persiano impedisce il ricongiungimento di Ankara con le popolazioni turcofone del Caucaso e dell’Asia centrale. Ma, come l’Iran, anche Russia e Cina sono ostacoli al panturchismo, perciò Erdogan, al di là dei suoi giri di valzer, rimane legato mani e piedi alla NATO, agli USA e Israele. Alla fine Erdogan deve constatare che Israele non gli ha fatto il favore di eliminare l’Iran, perciò
il panturchismo appare senza prospettive. Inoltre lo stesso Israele ha messo in evidenza l’inadeguatezza della Turchia come protettore del mondo arabo, aprendo uno spazio ad una potenza come il Pakistan, che non soltanto non è un paese arabo, ma è addirittura inedito come attore nell’area medio-orientale.