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LE MASCHERE DEL SOFT POWER
Di comidad (del 16/12/2025 @ 00:07:27, in Documenti, linkato 184 volte)
Quando gli Stati Uniti pretendevano di sedurre piuttosto che dominare

«Il presidente Trump non capisce il “soft power” ,
è quanto di recente affermava con rammarico Joseph Nye,
l’inventore della nozione “potenza morbida”. Questo tipo di potere
d’influenza, soprattutto culturale, del quale si servirebbero
gli Stati Uniti per soggiogare il mondo, ha esso stesso sedotto
numerosi intellettuali. Il suo successo è dovuto in particolare al fatto
di ricoprire con un gentile guanto di velluto il pungo d’acciaio della coercizione.

Dal momento in cui è stata enunciata nel 1990 dal politologo e specialista del potere americano Joseph Nye, la nozione di soft power - «potenza morbida» - si è imposta per descrivere la diplomazia di influenza associata alla mondializzazione liberale americano-centrica che arriva alla sua fine sotto i nostri occhi. Ripresa sia in Cina che in Europa, è stata a lungo utilizzata nei discorsi dei politici, degli esperti e nei commenti dei media. Al tempo del grande riarmo, dello sfilacciamento del diritto internazionale e della crescita degli impulsi di un etno-nazionalismo aggressivo, il soft power non riesce più ad avere presa sulle realtà mondiali – ammesso che ne abbia mai avuta.

Quando attacca l’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale (Usaid), Donald Trump prende di mira una istituzione concepita per lottare contro il comunismo, e più recentemente, contro dei cosiddetti regimi «illiberali», diffondendo un’immagine favorevole del «mondo libero». Alla volontà di conquistare i cuori e le coscienze si sostituiscono ormai i rapporti di forza con le grandi potenze (Cina, Russia) e di dominazione brutale con i «deboli» (Panama, Colombia, Palestina, ecc.)
«I forti fanno ciò possono e i deboli sopportano ciò che devono» : la formula degli Ateniesi resa celebre da Tucidide si s’addice alla diplomazia trumpiana.
[Più precisamente, Tucidide diceva: I forti fanno ciò che devono fare e i deboli accettano ciò che devono accettare. N.d.T.]

La critica della potenza dolce rimane comunque necessaria perché, al di là della debolezza teorica1, essa maschera più di quanto non sveli delle poste in gioco del potere geopolitico. Il concetto trova la sua origine nella indagine americana sul ruolo e sulla collocazione del paese nelle relazioni internazionali alla fine della guerra fredda: la mondializzazione dei flussi sembrava mettere a rischio le politiche di potenza «classiche». Nelle sue pubblicazioni degli anni ‘902, Nye intendeva dissipare l’ipotesi del declino americano, largamente diffusa nel corso del precedente decennio, e orientare in maniera prescrittiva il dibattito pubblico al fine di «garantire la posizione degli Stati Uniti come Stato più grande e più potente alla fine del XXI secolo. Il potere «soft» doveva formare lo strumento ideologico-politico di quella impresa. Nye lo definisce come l’insieme delle risorse immateriali che producono effetti «osservabili ma intangibili» di attrazione nelle relazioni internazionali in grado di condurre alla convergenza attorno a politiche favorevoli allo «Stato dominante». Tutto si basava, secondo Nye, sul carattere globalmente «seducente » dei valori americani, «l’attrazione della cultura [e] degli ideali politici» e la capacità di istituzionalizzare un ordine che legittimasse le preferenze di quello Stato. Poiché disponevano «da molto tempo di una grande potenza morbida», gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di utilizzarla allo scopo di evitare il ricorso « al costoso esercizio della coercizione o della forza» grazie al «consenso» volontario di altre società e Stati.

La corazza della coercizione

Questa idea lusinga tanto l’ego imperiale quanto il senso comune. È molto meglio evidentemente portare gli altri a conformarsi alle proprie preferenze facendogliele desiderare piuttosto che costringerle all’obbedienza con la forza. Ma i meccanismi messi in azione sono ambigui. Si sa da sempre che, a parte le tirannie, il consenso non poggia unicamente sul potere autoritario né sul timore della violenza. Ma anche, se non soprattutto, sulla convinzione di una larga parte della popolazione che l’autorità rivendicata da coloro che la esercitano sia legittima. In altri termini, che vi sia interdipendenza tra governanti e governati.

Perché essa renda naturale la gerarchia, la legittimazione del dominio partecipa a quello che i sociologi Max Weber e poi Pierre Bourdieu chiamano «addomesticamento del consenso», concetto molto vicino a quello di fabbrica del consenso. Quest’ultimo si trova regolarmente rimesso in discussione, e la corazza della coercizione per gestire le classi pericolose rimane sempre sullo sfondo. L’idea stessa di una assenza di costrizione nelle relazioni politiche e sociali elude i rapporti di forza e di conflittualità. Il potere simbolico – è di questo che si tratta – non è che la forma «irriconoscibile, trasformata e legittimata delle altre forme di potere »3 (Bourdieu).
Vi sarebbe quindi consenso volontario nelle relazioni internazionali, sfera per eccellenza di competizione fra attori ineguali? Il problema della «potenza morbida» non è tanto che la si possa quantificare e isolare per farne una variabile esplicativa del comportamento internazionale degli Stati, ma piuttosto che essa copre gli interessi nazionali e imperiali dei dominanti con gli abiti della universalità. Per Nye come per altri teorici liberali, il soft power emanerebbe dalle società occidentali, Stati Uniti in testa, portatrici dall’Illuminismo in poi di valori politici e morali universali ai quali ogni individuo razionale dovrebbe spontaneamente aderire. Dal XIX secolo in poi, l’Occidente pretende di apportare modernità e «civilizzazione » a un resto del mondo che si presume pietrificato a degli stadi anteriori dello sviluppo umano: per l’osservatore occidentale, viaggiare dal nord al sud è come andare a ritroso nel tempo. Ma la pretesa all’universalità di una società particolare entra in tensione con il pluralismo della vita internazionale e con altre rivendicazioni di legittimità fondate su delle traiettorie storiche distinte. Nel caso occidentale, essa si trova contaminata da un passato coloniale o imperiale che non passa.
Per la maggior parte dei paesi del Sud globale, l’esercizio della potenza americana, attraverso la forza o con l’intermediazione di istituzioni quali il Fondo monetario internazionale (FMI), non ha lasciato il ricordo di un’estasi democratica e della dolcezza. Né il bilancio dell’interventismo militare degli Stati Uniti dopo il 1945, né quello dei centocinquanta anni precedenti (in particolare la guerra contro il Messico del 1846-1848), né infine il sostegno di Washington ai regimi autoritari (capitalistici) durante la guerra fredda corroborano l’idea di una legittimità democratica inerente a quel paese. La stessa constatazione vale per la Francia, specificamente in Africa. Ciò nonostante, la società americana ha indubitabilmente esercitato una forma di attrazione. Ma quando, in che modo e su quali popolazioni?
Nel corso della seconda metà del XIX secolo e fino quando non chiude le porte, nel 1924, ai popoli di colore e agli europei considerati non del tutto bianchi4, essa ha attirato (senza accoglierli sempre degnamente) milioni di migranti, soprattutto europei, irlandesi, italiani del Sud, greci, ebrei dell’Europa dell’est in fuga dalla povertà o dalle persecuzioni religiose o etniche. Nella seconda metà del XX secolo, ha accolto i transfughi della guerra fredda, ma meno spesso gli animatori dei movimenti sociali della sinistra europea o i rivoluzionari del sud, che vedevano impero e razzismo istituzionalizzato là dove gli altri vedevano la libertà.
L’America esercitava una seduzione particolare sulle élite commerciali e culturali che si spostano senza intoppi tra le megalopoli del mondo; sui ricercatori stranieri di alto livello e gli studenti degli insegnamenti superiori. E, per motivi completamente diversi, aveva attratto milioni di migranti e richiedenti asilo dall’America latina e da altri regioni del Sud globale che cercavano un rifugio contro la povertà e la violenza endemica. L’attrazione o la repulsione dipendono dall’esperienza storica, dalle posizioni sociali e culturali dell’osservatore. Dipendono dalla parte dello specchio da cui si guarda il mondo. Le rivendicazioni di legittimità internazionale non possono molto semplicemente fondarsi su caratteristiche atemporali di una società – sulla sua essenza.
Quello che vale per l’America si applica anche alla Cina. E si può rivolgere una critica analoga ai discorsi di legittimazione postmaoisti sulla «grandeur» e l’attrattiva mondiale della cultura cinese. La direzione del Partito comunista cinese (PCC) ha adottato il soft power nel 2006, per farne una parola chiave della politica internazionale del paese. Il presidente Hu Jintao aveva allora dichiarato davanti ad un comitato ristretto : «Il rafforzamento dello statuto internazionale e dell’influenza internazionale della Cina deve riflettersi allo stesso tempo nella potenza dura, in particolare nell’economia, nella scienza e nella tecnologia, nella difesa nazionale, e nel “soft power” come la cultura.» L’anno successivo, in occasione del XVII Congresso del PCC in ottobre 2007, Hu ufficializzava quella posizione : «La cultura è divenuta una fonte significativa di coesione e di creatività nazionali e un fattore importante nella competizione per la forza nazionale globale...[Dobbiamo] rafforzare la potenza culturale morbida del paese».5
Il suo successore Xi Jinping ha sintetizzato quegli obiettivi nella sua visione del «sogno cinese», inteso come progetto storico del rinnovamento nazionale attraverso la costruzione di una società prospera, la promozione della «fierezza nazionale» e di una « civilizzazione spirituale socialista », l’amplificazione della voce della Cina nel mondo attraverso la promozione della sua cultura «eccellente...la cui storia dovrebbe essere ascoltata in tutto il mondo », e il rafforzamento della sua potenza.6 Concepito inizialmente per rifondare l’identità collettiva e la legittimità del partito-Stato attraverso la mobilitazione della cultura e del sentimento nazionale, il «sogno» si prolunga in ambito internazionale tramite la proliferazione degli istituti culturali Confucio nel mondo (da 156 nel 2007 a 525 attuali). Il successo di un simile progetto rimane aleatorio poichéè quasiimpossibile rilevare una corrispondenza tra la «civilizzazione spirituale socialista “ e l’azione internazionale del paese. Inoltre, sembra una vera acrobazia attribuire la dinamica della crescita ad una «cultura tradizionale» che i modernizzatori, dalla fine della dinastia Qing fino a Mao Tse-tung stesso, avevano identificato come la fonte del relativo ritardo del paese e dei gravi fallimenti dello Stato nel XIX secolo.
Proprio come i discorsi di soft power dell’America del Nord, quelli della Cina mascherano le poste in gioco di potere nella politica mondiale. In tutti e due i casi, la corazza della coercizione permane– e spesso in primo piano. Poco dopo il discorso di Xi nel 2012, l’Esercito popolare di liberazione (EPL) ha chiesto ai marinai della portaerei Lioaning di posizionarsi sul ponte in modo da formare sei caratteri cinesi che significano «sogno cinese, sogno militare », poi ha diffuso l’immagine su Internet.

Il diritto piuttosto che la dolcezza

È una musichetta che risuona regolarmente nei media ufficiali. Nel 2013, ad esempio, China Daily pubblicava un articolo di Meng Xiangqing, professore dell’università di difesa nazionale di Pechino, dal titolo «Il sogno cinese include un EPL forte». L’autore sostiene che «un esercito solido è una condizione preliminare per la costruzione di una società prospera… e per il ringiovanimento della nazione cinese», conformemente alla «posizione mondiale del paese ». L’affermazione della Cina in materia di potenza militare differirebbe, secondo lui, da quelle di altri Stati, poiché il «sogno cinese, compreso quello di costruire un esercito forte», è in sintonia con la «pace e lo sviluppo win-win per la Cina e per il resto del mondo»7 Si può ragionevolmente dubitare che il «resto del mondo», Sud est asiatico compreso, abbia interpretato in questo modo la dimostrazione di forza in occasione del settantesimo anniversario della Repubblica popolare nel 2019, la militarizzazione crescente del Mar della Cina meridionale e gli sforzi di bilancio più significativi dedicati da quel momento in poi all’aspetto militare.
A questo punto bisognerebbe abbandonare la «potenza morbida» come categoria di analisi. Certo, il ricorso alla forza bruta differisce dalla risoluzione diplomatica dei conflitti. Ma è il diritto, e non la «dolcezza» che si oppone alla forza e alle violenze visibili della potenza. Ora, su questo piano, gli Stati Uniti, come altri “grandi”, subordinano nella maggior parte dei casi, il diritto internazionale alla loro sovranità e ai loro interessi, e questo con tutte le diverse amministrazioni – in Irak, in Ucraina o a Gaza.

Philip Golub
Professore di relazioni internazionali all’Università americana di Parigi.
Autore di Un’autre histoire de la puissance américaine, Seuil, 2011

Tratto da Le Monde diplomatique , aprile 2025

1- Per una discussione più ampia, cfr. «Soft power, soft concept and imperial conceit », Monde chinois, nouvelle Asie, n°60, Paris javier 2019
2 - Joseph Nye, Bound to Lead: The Changing Nature of American Power, Basic Books, New York, 1990; «Soft Power», Foreign Policy, Washington, DC, n°80, autunno 1990, Soft power: The Means to Success in World Politics, Public Affairs, New York, 2004.
3 - Cfr. Pierre Bourdieu, Sur l’Etat, Cours au Collège de France 1989-1992, Raison d’agir – Seuil, Paris 2012; «sur le pouvoir symbolique» , Annales Economie, societé, civilisation, vol.32, n°3, Armand Colin, Paris, giungo 1977.
4 - La legge sull’immigrazione del 1924 (Immigration act of 1924, detta anche legge Johnson Reed) bloccò in modo netto l’immigrazione non europea per quattro decenni, fissò delle quote discriminatorie per le migrazioni provenienti dall’Europa del sud e da quella centrale e orientale.
5 - Citato da Bonnie S. Glaser e Melissa Murphy, «Soft power with Chinese characteristics: The ongoing debate», in Carola McGiffert ( sotto la direzione di), Chinese Soft Power and Its Implications for the United States. Center for Strategic & International Studies, Washington, DC, 10 marzo 2009.
6 - «Background: connotations of Chinese dream», China Daily, Pechino, 5 marzo 2014.
7 - Meng Xiangqing, «China dreams includes strong PLA», China Daily, 8 ottobre 2013.
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


16/12/2025 @ 11:37:55
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