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"La condanna morale della violenza è sempre imposta in modo ambiguo, tale da suggerire che l'immoralità della violenza costituisca una garanzia della sua assoluta necessità pratica."

Comidad
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.

Di comidad (del 22/12/2016 @ 02:48:56, in Commentario 2016, linkato 5822 volte)
L’uguaglianza non è un’utopia ma un dato di fatto, purtroppo al ribasso. Si può essere il rampollo di una delle più antiche famiglie d’Europa, aver ricevuto tutte le opportunità di istruzione e dimostrarsi comunque un povero deficiente. Molti commentatori si attendevano dal nuovo Presidente del Consiglio un mutamento di stile rispetto al predecessore, ma le attese sono rimaste deluse. Nella prima delle sue sortite internazionali, Paolo Gentiloni ha riproposto infatti il velleitarismo e la scompostezza comunicativa che già avevano contraddistinto Renzi. L’occasione della brutta figura è stato l’incontro con il Primo Ministro colombiano, Juan Manuel Santos, chiamato da Gentiloni con il suo nome di battesimo, Manuel, come se fosse il suo amichetto del bar. Ma la conversazione da bar ha caratterizzato anche le dichiarazioni di Gentiloni, il quale, nel congratularsi con i risultati del suo omologo colombiano, non ha esitato a compiere un impietoso paragone tra la situazione in Colombia e quella in Italia, in quanto mentre i Colombiani avrebbero dimostrato di saper superare le difficoltà di una guerra civile, noi Italiani rimarremmo impantanati in guerre di parole.

Che ad un capo di governo estero in visita si facciano i complimenti per il suo accordo interno di pace (ancorché sconfessato da un referendum popolare) e per aver ricevuto il premio Nobel per la pace (per quello che vale, visti i precedenti), fa parte del bon ton diplomatico. Il fatto però, che nel fare tali complimenti, il rappresentante di un Paese denigri pubblicamente il Paese che dovrebbe rappresentare, costituisce non solo un esempio di irresponsabilità comunicativa, ma anche il segnale che egli interpreta la propria pubblica funzione come un mero strumento di salvezza personale. Gentiloni non si è posto infatti come chi svolgesse una pubblica funzione, bensì come un privato che intrattiene rapporti con un altro privato.
Molti commentatori hanno classificato come ennesimo caso di demeritocrazia la promozione di Angelino Alfano a ministro degli Esteri. Sarebbe stato forse più consono collocarlo in quel generale processo di privatizzazione e cialtronizzazione della politica estera italiana di cui sono stati manifestazione prima il Buffone di Arcore, poi Renzi e lo stesso Gentiloni. La nomina di Alfano può infatti vantare una sua logica, poiché dal 2011, anno del disastro diplomatico dell’intervento militare italiano in Libia (imposto dalla NATO per tramite di Giorgio Napolitano) l’Italia non detiene più qualcosa di simile ad una politica estera. L’Italia è notoriamente occupata da basi militari NATO e USA, basi che, come ha ricordato tempo fa anche l’ex deputato verde Mauro Bulgarelli, sono in gran parte pagate dal contribuente italiano, o direttamente o con la fornitura di servizi. Può essere quindi considerato normale che il contribuente italiano paghi anche per una politica estera non propria; e da un Alfano messo a fare il ministro degli Esteri nessuno si attenderà nulla di diverso.

D’altra parte si può esser certi che verrà rimpianto l’Alfano ministro degli Interni ora che a sostituirlo è stato chiamato un “esperto di servizi segreti” come Marco Minniti, il quale vanta un curriculum quasi ventennale in questo campo. Una scelta, quella di Minniti a ministro degli Interni, davvero “preveggente”, visto l’attentato a Berlino di appena due giorni fa.
Nella sua veste di sottosegretario agli Interni come addetto appunto alla “Intelligence”, Minniti aveva tenuto nel novembre scorso una conferenza all’Università di Milano Bicocca nella quale aveva pubblicizzato il ruolo dei servizi segreti lanciando persino un appello per il reclutamento degli studenti in quel campo. L’aspetto contraddittorio ed inquietante del quadro offerto dalle dichiarazioni di Minniti è che in definitiva viene a cadere proprio la “intelligence”, cioè l’esigenza di sapere, di acquisire nuove informazioni. Per Minniti infatti il terrorismo sarebbe inequivocabilmente islamico, i testi da scrutare sarebbero immancabilmente arabi, cioè si hanno già pronte le etichette da appiccicare agli attentati passati, presenti e futuri. Ogni volta che si mette in dubbio la matrice di un attentato, dall’altra parte si grida immediatamente al “complottismo”, uno slogan che in effetti non c’entra assolutamente nulla. Il terrorismo è infatti, per definizione, un’arma ambigua, nella quale l’incertezza dell’attribuzione costituisce un elemento caratterizzante. Una “intelligence” che non dubita della matrice di un attentato non è una “intelligence”, perché rinuncia alla ricerca.
Si potrebbe quindi dedurre che i servizi segreti abbiano ben poco a che fare con la “intelligence” e molto più a che fare con la provocazione e l’intossicazione dell’informazione. Del resto oligarchie che hanno azzerato ogni spazio di mediazione sociale, per cui si drammatizzano all’estremo questioni ovvie come il salvataggio di una banca o come l’eliminazione dei voucher, non dispongono ormai di altro strumento di controllo che il terrore.
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Di comidad (del 29/12/2016 @ 01:45:08, in Commentario 2016, linkato 5745 volte)
Le cose starebbero così: Sesto San Giovanni è come Dodge City e il giovane vicesceriffo, da poco nominato, alla prova del fuoco ha fatto fuori il pericoloso ricercato casualmente fermato. Vabbè.
Il neo-ministro agli Attentati Islamici, Domenico Minniti detto Marco, inizia quindi con un gran colpo di “fortuna” il suo mandato, come del resto molti osservatori avevano facilmente previsto, vista la sua “esperienza di servizi segreti”. Col solito compiaciuto provincialismo ci fanno sapere che l’uccisione del tunisino, presunto attentatore di Berlino, avrebbe procurato all’Italia molti apprezzamenti dalla Germania, con una pioggia di tweet di plauso.
Si aspettano invece con trepidazione i tweet del governo tedesco, della BCE e della Commissione Europea sull’operazione di salvataggio pubblico di Monte dei Paschi di Siena, peraltro “inspiegabilmente” contorta. Si aspetta anche la fine dell’operazione per capire chi lucrerà dal passaggio delle obbligazioni in azioni e poi delle stesse azioni in obbligazioni.
Sul quotidiano confindustriale “Il Sole-24 ore” il commentatore, dopo aver illustrato i termini dell’operazione MPS ed aver constatato il prevedibilissimo squagliamento dei tanto decantati “investitori privati”, si chiedeva con finta ingenuità come mai si sia atteso tanto per compiere un salvataggio pubblico che poteva essere attuato alle medesime condizioni sin dall’estate scorsa.
Molti lettori del quotidiano confindustriale già conoscono la risposta a questa domanda retorica, poiché ancora nel settembre scorso il governo affidava l’intera operazione di salvataggio di MPS alla illuminata consulenza di JP Morgan, la quale con le sue mani sagaci avrebbe dovuto gestire anche il presunto salvataggio da parte di mitici privati. Gran parte della stampa governativa arrivava addirittura a toni celebrativi nel descrivere il rapporto privilegiato instauratosi tra il governo Renzi e la multinazionale bancaria americana.
Si tratterebbe a questo punto di chiarire non solo quanto il governo abbia direttamente elargito a JP Morgan per la sua “consulenza”, ma anche quali e quante operazioni di “insider trading” la stessa JP Morgan abbia potuto compiere sul titolo MPS da quella posizione privilegiata. Alla fine il governo si era comunque deciso a varare un decreto per salvare MPS da cui sembravano uscire immuni i risparmiatori. Su questa questione il PD si gioca la sopravvivenza politica e forse anche fisica, perché finché l’attacco si è concentrato sul welfare e sui diritti del lavoro non si era ancora infranto il nocciolo dell’equilibrio sociale. In Italia un vero welfare pubblico non c’è mai stato, ed il solo welfare funzionante è il risparmio delle famiglie, perciò il “bail-in” attacca il cuore della sopravvivenza sociale.
JP Morgan aveva fatto i suoi sporchi affari, poi era arrivato l’intervento pubblico a sanare la situazione e tutti sembravano felici e contenti.
Sennonché non appena JP Morgan si è trovata fuori dai giochi MPS, il Super-Buffone di Francoforte, in arte Mario Draghi, ed i suoi buffoni di complemento si sono improvvisamente accorti che le condizioni di ricapitalizzazione della banca avrebbero dovuto essere molto più esose, in base alla regola aurea che col contribuente le regole siano decisamente più severe.
Ma JP Morgan non è mica il Comune di Roma o il Comune di Milano, perciò non ha da temere dai magistrati neppure un avviso di garanzia. Nel 2014 la Corte di Appello di Milano ha persino assolto JP Morgan ed altre multinazionali bancarie dal reato di truffa ai danni di vari Comuni italiani, annullando la sentenza di condanna in primo grado; una condanna già di per sé ridicola in quanto le banche se la cavavano con una novantina di milioni di sanzioni varie, a fronte di una truffa miliardaria.
La bufera che investe attualmente la giunta romana della Raggi è diventata il pretesto per i commentatori ufficiali per riciclare la retorica filo-oligarchica già cara ad Eugenio Scalfari. Secondo tali commentatori il tonfo della giunta Raggi dimostrerebbe la necessità della presenza di élite di governo, altrimenti l’alternativa sarebbe il caos e l’improvvisazione.
Intanto il caso della giunta Raggi scoppia dopo l’assalto contro la giunta Marino, anch’essa travolta da una combinazione di scandali pilotati e di colpi di mano istituzionali; e non si può certo dire che Marino non si fosse circondato di assessori dotati delle qualifiche opportune in base ai criteri ufficiali. In realtà ciò che costituisce una élite - ciò che la caratterizza, la legittima e la giustifica come tale -, non è affatto la sua competenza, bensì la sua impunità, come ci insegna proprio JP Morgan.
A questo punto l’unica speranza sarebbe che anche JP Morgan venisse casualmente intercettata da qualche pattuglia a Sesto San Giovanni.
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


19/03/2024 @ 10:43:28
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