Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
L’immagine di Israele nel mondo non è mai stata ad un livello così basso; eppure i crimini commessi nei giorni scorsi a Gaza non sono peggiori di quelli del 1948 o del 1967, quando l’immagine di Israele era alle stelle.
Cos’è dunque che non ha funzionato? Il fattore tempo.
Nel 1948 i sionisti agirono con una rapidità impressionante: non avendo a disposizione un’aviazione, fecero saltare le case dei Palestinesi piazzando gli esplosivi manualmente e, in pochi giorni, costrinsero centinaia di migliaia di persone alla fuga, convincendo però il mondo che se ne fossero andate di propria volontà.
Nel 1967 Israele fece la “Guerra dei Sei Giorni”, e si annesse i nuovi territori passando anche per Paese aggredito.
Sino al 1967 il trucco ha funzionato: i sionisti riuscivano a mettere il mondo davanti al fatto compiuto così presto, che non c’era nemmeno il tempo di verificare ciò che combinavano, né di smentire la loro propaganda. Nel crimine la rapidità è essenziale: il criminale lento si fa scoprire.
Più di un mese non è bastato ai sionisti per avere ragione di Hamas, e dopo tanto tempo gli slogan sugli scudi umani non sono riusciti più a coprire l’evidenza. A un certo punto hanno dovuto ritirarsi perché avevano preso con gli Stati Uniti l’impegno di concludere tutto prima dell’evento mediatico della cerimonia di incoronazione di Obama. Nessun rumore di bombe doveva rendere stonato il coretto con storiella del nero che sessanta anni fa non poteva essere servito a tavola ed ora è presidente degli USA.
Perché i tempi si sono allungati? Per due motivi:
- affarismo e privatizzazioni hanno reso inefficiente la macchina militare israeliana,
- l’effetto-sorpresa è finito, perché ormai tutti sanno di cosa sono capaci i sionisti.
Mentre a Gaza oltre un milione di persone è a rischio di genocidio, per i media ed il governo la vera emergenza è costituita dalle bandiere israeliane bruciate e da presunte “scritte antisemite”. Dato che il presidente della Repubblica Napolitano ha sancito che antisionismo ed antisemitismo si identificano, oramai quest’ultimo deve intendersi in senso molto lato, sino a comprendere qualsiasi forma di mancanza di entusiasmo per Israele e per le sue imprese.
A questo punto manca solo che i soliti servizi segreti organizzino un attentato contro qualche sinagoga o cimitero ebraico, ed i ruoli di carnefice e vittima saranno completamente rovesciati, consentendo un’ondata mediatica che travolgerà e metterà alla gogna per primi tutti coloro che in questi giorni hanno fatto esercizio di “equidistantismo”, cercando colpe anche ad Hamas.
Il fatto è che qualunque cosa si pensi di Hamas, risulta evidente che il problema non è Hamas, e che se anche i Palestinesi si convertissero in massa al buddismo, non sfuggirebbero comunque al tentativo di soluzione finale nei loro confronti, dato che la soluzione finale della questione palestinese è inscritta nella logica stessa dello Stato di Israele.
In questi anni infatti non vi è stata nessuna pausa all’insediamento di coloni israeliani nei territori occupati della Cisgiordania, nonostante il collaborazionismo del presidente dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen, celebrato da tutti i media “occidentali” come esempio di “moderazione”.
Ma il colonialismo israeliano non si è limitato alla Palestina. Stuoli di coloni erano al seguito delle truppe anche nelle tre invasioni israeliane del Libano (del 1978, del 1982 e del 2006); nel 1982, quando gli Israeliani davano per scontata la vittoria, i coloni si mossero addirittura insieme con l’esercito. Del resto questi coloni sono organizzati in vere e proprie formazioni paramilitari, con abbondante equipaggiamento di ogni tipo di arma. Fu proprio questa presenza di coloni, peraltro segnalata dalla informazione “occidentale”, a determinare la nascita del movimento di resistenza Hezbollah nel sud del Libano; un movimento etichettato poi come “terrorista” dagli stessi media occidentali che avevano ammesso in precedenza che gli scopi delle invasioni israeliane erano di attuare un’occupazione coloniale.
Era quindi ovvio che il ritiro israeliano da Gaza fosse solo temporaneo, ed infatti è stato seguito da un assedio, con lo scopo di prendere per fame i Palestinesi lì residenti e spingerli a cercare scampo altrove. L’attacco armato di questi giorni è quindi la conseguenza del fallimento di questa strategia israeliana, dato che non solo i Palestinesi non se ne sono andati, ma hanno costruito una rete assistenziale che ha consentito sia la loro sopravvivenza, sia la costruzione di un modello sociale alternativo al darwinismo sociale oggi imperante in Israele.
Qualsiasi confronto storico astratto, il cercare di stabilire se nella situazione attuale la parte dei nazisti la facciano quelli di Israele o quelli di Hamas - o un po’ tutti e due -, risulta fuorviante rispetto al fenomeno che si ha di fronte, cioè un colonialismo di occupazione e ripopolamento, che si muove secondo le sue dinamiche interne, le quali prevedono che, in un modo o nell’altro, le popolazioni autoctone vengano eliminate.
Gli Israeliani che a questo gioco al massacro non ci stanno, sanno bene di non avere davanti a sé la chance della “pace”, ma quella di andarsene o di cercare di andarsene; ed è infatti quello che in molti stanno già facendo da tempo. Uno dei maggiori problemi economici di Israele è, di conseguenza, il crollo del valore degli immobili: chi ha soldi da spendere non compra certo case in Israele, ma all’estero. Tutta la propaganda israeliana sui razzi di Hamas, costituisce perciò un modo di mascherare questa situazione, attribuendo al “terrorismo” il fatto che la gente non voglia più comprare case.
La popolazione israeliana è soggetta ad un rigido conformismo ideologico costituito da luoghi comuni vittimistici, e neppure molti di coloro che scappano sono poi in grado di sottrarsi a questo conformismo; ma ciò non vuol dire affatto che tale conformismo vittimistico si esprima in una determinazione collettiva a proseguire la colonizzazione, anzi le defezioni si fanno sempre più estese. Il colonialismo israeliano viene così alimentato attraverso il continuo reclutamento di mercenari: è il denaro a sostituire un movente ideologico ormai sempre più debole.
Per decenni ci si è propinata una propaganda ossessiva sull’esperienza “socialista” dei kibbutz in Israele, ma si trattava della enfatizzazione di fenomeni comunitari, o pseudo-tali, che in realtà avevano una portata limitatissima, irrilevante rispetto al resto della società israeliana. Oggi qualche kibbutz è conservato in Israele allo stesso titolo di un museo delle cere, ma della pur esile spinta ideologica che li motivava, non vi è più alcuna traccia.
Il sionismo reale che esiste attualmente è perciò definibile negli stessi termini di una battuta che circolava un secolo fa: “Cos’è il sionismo? Il sionismo è un ebreo che chiede i soldi ad un altro ebreo per mandare un terzo ebreo in Palestina.”
Alla base del colonialismo israeliano vi è dunque il denaro spillato alle comunità ebraiche di tutto il mondo, tenute sotto controllo con il ricatto morale, i sensi di colpa ed il terrore delle liste di proscrizione. Il reclutamento mercenario dei coloni avviene inoltre con metodi sempre meno scrupolosi, tanto che oggi anche l’effettiva origine ebraica dei coloni appare molto dubbia. In molti casi è evidente che si tratta semplicemente di criminali comuni, addestrati ad esibire una fittizia motivazione ideologica. Nessun giornalista “occidentale” oserebbe mai fare indagini sulla effettiva provenienza di questi soggetti, poiché sa benissimo che se ci provasse gli rimarrebbe ben poco da vivere.
Ecco dunque cos’è Israele oggi: uno Stato militarista mercenario al soldo degli Stati Uniti, usato per compiere operazioni sporche in tutto il mondo, dall’America Latina all’Africa, sino alla recente e fallimentare avventura in Georgia; uno Stato mercenario che a sua volta alimenta la propria occupazione della Palestina reclutando come coloni degli altri mercenari.
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