Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Negli ultimi anni una delle espressioni di maggiore fascino per i commentatori di politica estera è stata quella della “mezzaluna sciita”, dall’Iran fino allo Yemen, passando per l’Iraq, la Siria e il Libano. Peccato che queste concezioni su presunti internazionalismi religiosi si scontrino con smentite piuttosto pesanti. Il maggiore alleato di Israele in Asia centrale è infatti l’Azerbaigian, di religione islamica sciita. Nel 2023 Israele, insieme con la Turchia sunnita, ha armato una guerra dell’Azerbaigian contro l’Armenia. Negli ultimi anni i rapporti militari e commerciali tra Israele e l’Azerbaigian si sono ulteriormente rafforzati.
Un episodio inquietante che ha riguardato l’Azerbaigian è la strana morte nel maggio dello scorso anno, per “incidente aereo”, del presidente iraniano Raisi e del suo ministro degli Esteri; entrambi erano di ritorno da un incontro col presidente azero Aliyev. Per quanto i persiani siano loro correligionari, gli azeri sono di lingua ed etnia turca; inoltre l’Iran ha al suo interno una minoranza azera che rappresenta oggettivamente una sponda per le velleità mini-imperialistiche dell’Azerbaigian.
Così come in Siria, sembra che vi sia, pur tra conflitti e competizioni, una convergenza quantomeno episodica tra le aspirazioni ad una Grande Turchia ed i sogni di un Grande Israele. La differenza tra le due aspirazioni (o velleità) è che la “Grande Turchia”, per quanto ancora latente, ha un’effettiva base demografica, in gran parte dislocata in Stati a maggioranza turcofona, ma anche presente con consistenti minoranze in vari paesi; molte di queste minoranze turcofone si trovano nella Federazione Russa, oltre che in Iran. Il “Grande Israele” è invece privo di base demografica e si fonda soltanto su una enorme bolla di armi e di soldi che proviene regolarmente dagli USA, con gli annessi di un giro internazionale di corruzione e riciclaggio di denaro gestito da lobby come l’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee).
Iran e Russia sono paesi praticamente confinanti, e il fatto che siano separati da uno specchio d’acqua peggiora le cose per la Russia, perché le si potrebbero piazzare contro dei missili ad un tiro di schioppo senza il rischio di subire la ritorsione di una rapida invasione. Ma l’aspetto più importante, per il quale una prospettiva di destabilizzazione dell’Iran dovrebbe allarmare Mosca, è che la popolazione persiana è l’unica nell’area dell’Asia centrale ad avere un potenziale demografico tale da contenere la spinta alla Grande Turchia che proviene dal gioco di sponda tra Ankara e Baku. L’Azerbaigian si trova anche a fare da ponte tra il Mar Nero ed il Mar Caspio, quindi è in posizione di forza per il controllo di entrambi. In base a considerazioni “geopolitiche”, sarebbe stato ragionevole aspettarsi che Mosca fosse molto più ferma contro il gioco a tutto campo messo in atto da Turchia ed Israele. In realtà l’atteggiamento russo nei confronti della crescente aggressività di USA ed Israele contro l’Iran appare piuttosto esitante ed ambiguo, così come Mosca si era mostrata tiepida e poco convinta nel sostenere l’Armenia nel 2023. Altrettanto corriva è la posizione russa nei confronti di Israele, che, col suo “proxy” azero, la sta insidiando ai confini. Abbiamo assistito l’anno scorso al cedimento russo in Siria nei confronti dell’espansionismo turco ed israeliano. L’unica consolazione per Mosca è che la solita intemperanza israeliana sta provocando problemi ad Erdogan.
Da più di vent’anni si discute tra Russia e Iran di un corridoio di infrastrutture di trasporti che dovrebbe collegare la Russia direttamente al Golfo Persico, in modo da evitare l’eccessiva dipendenza russa dal Mar Nero, il cui accesso è controllato dalla Turchia. Nel gennaio scorso si è firmato l’ennesimo accordo di partenariato strategico ed economico tra Russia e Iran; un trattato che aveva suscitato grandi aspettative e invece si è rivelato molto meno incisivo di quanto era stato previsto. Nonostante la oggettiva convergenza di interessi strategici ed economici con Teheran, Mosca sembra molto più preoccupata di evitare di entrare in urto con Ankara e Tel Aviv.
In definitiva, il concetto di “strategia” si rivela il grande fantasma nell’analisi dei rapporti internazionali, per cui l’idea che gli Stati siano soggetti razionali che tendono a seguire i propri interessi, risulta più un pregiudizio che una descrizione della realtà. Non è questione di capacità personali dei singoli capi di governo, bensì di dinamiche interne alle oligarchie. Dire “Putin” va bene finché è una sineddoche, se è un modo di indicare un regime, un gruppo di potere, col nome della sua figura di riferimento; mentre invece si casca nel patetico se si dà retta alla fiaba del dittatore e dell’autocrate, come se dalle nostre parti ci fossero la democrazia e lo Stato di Diritto. Al di là del grado di lucidità dei singoli, il comportamento di gruppo delle oligarchie appare sempre estemporaneo. Israele significa contatti d’affari e riciclaggio di denaro, e quindi l’oligarchia russa non rinuncia a intrattenerci buone relazioni, tanto più che ci sono tanti russo-israeliani a poter svolgere il ruolo di faccendieri. Se poi il bullo arriva al proprio confine, allora ci si dà una sveglia, magari anche per timore che i militari prendano il potere. Quando invece si è trattato di allontanare preventivamente la minaccia dai propri confini costringendo il bullo a impantanarsi altrove, da Mosca l’occasione non è stata colta. Nel 2011 la Russia non ha approfittato dei quasi mille chilometri di confine tra Algeria e Libia per far pervenire aiuti a Gheddafi. Nel 2013 Putin ha addirittura tolto le castagne dal fuoco ad Obama, inducendo Assad a cedere le armi chimiche. Ma c’è stato di peggio. Nel maggio del 2022 la stampa israeliana riportò allarmata la notizia (poi rivelatasi infondata) che per la prima volta i russi avevano consentito in Siria l’uso del sistema antiaereo S-300 contro i jet israeliani, che fino a quel momento avevano fatto il comodo proprio, sia contro l’esercito siriano, sia contro le truppe iraniane, sia contro Hezbollah. L’apparizione della falsa notizia fu comunque utile a dichiarare a chiare lettere che l’aviazione israeliana poteva bombardare la Siria solo grazie al permesso ed alla compiacenza dei russi.
Dal Cremlino ci si è preoccupati di precisare che nell’incontro di San Pietroburgo dell’11 aprile tra Putin ed il mediatore americano Witkoff non si è parlato del dossier Iran. Ce n’è quindi abbastanza per supporre che la verità sia il contrario. Del resto non ci sarebbe nulla di strano se Trump e Witkoff coltivassero il sogno nel cassetto di accontentare l’AIPAC ma senza sobbarcarsi le terribili incognite di una guerra nel Golfo Persico. Si tratterebbe di ottenere una rinuncia dell’Iran alle sue capacità missilistiche e nucleari, quindi esponendosi inerme ai bombardamenti da parte di Israele, ed affidando in toto la propria sicurezza ad un “garante”, che dovrebbe essere Putin. Tra l’altro sarebbe lo stesso Putin che non ha mai concesso ai siriani l’uso della contraerea di fabbricazione russa contro gli attacchi israeliani.
Lo schema dell’accordo desiderato da Washington dovrebbe ricalcare quello del 2013 tra Obama e Putin sullo smantellamento dell’arsenale chimico siriano. Obama non aveva nessuna voglia di intervenire militarmente in Siria, ma purtroppo aveva incautamente imposto ad Assad la linea rossa del non usare armi chimiche nel conflitto con le milizie sunnite che cercavano di rovesciare il regime. Con una dichiarazione così ingenua era pressoché inevitabile che arrivasse un “false flag” con cui accusare Assad di aver varcato la linea rossa.
D’altra parte l’Iran dovrebbe già sapere che come “garante” Putin è in grado di offrirti una sola garanzia, cioè che, prima o poi, ti rifilerà il bidone, esattamente come ha fatto lo scorso anno con Assad e, prima ancora, con Saddam Hussein e Gheddafi. Nella guerra nel deserto i proiettili di artiglieria chimici sono efficaci per bloccare le avanzate nemiche. Nel dicembre dello scorso anno le truppe governative siriane si sono trovate per la prima volta in grave inferiorità tecnica di fronte agli attacchi dei droni di fabbricazione turca e, senza più avere a disposizione proiettili chimici, si sono dovute interamente affidare ad un appoggio aereo russo, che sembrava “garantito” dal 2015 e che invece è venuto a mancare.
L’inaffidabilità dimostrata dalla Russia come “garante” e “alleato” non è dovuta soltanto a motivi soggettivi, ma anche oggettivi, nel senso che non ci sono più le condizioni materiali per le grandi potenze di assicurarsi delle precise zone di influenza in cui far valere la propria volontà. Il passo indietro della Russia in Siria infatti ha immediatamente innescato una lite condominiale tra Israele e Turchia, che si trovano per la prima volta ad essere confinanti. Per decenni Erdogan ha pronunciato vuote chiacchiere contro i massacri compiuti da Israele, mentre ora l’espansionismo sionista viene a pestargli direttamente i piedi. Se reagisse, Erdogan andrebbe in rotta di collisione con gli USA; se invece non reagisse, si dimostrerebbe debole e vulnerabile nei confronti dei suoi oppositori interni. Forse ad Erdogan sta sorgendo il dubbio di aver fatto il passo più lungo della gamba.
Putin e soci, con la loro politica della Russietta bottegaia, magari pensavano di star facendo il passo più corto della gamba; in realtà era un azzardo anche puntare sulla strategia commerciale dei gasdotti in territori militarmente occupati dagli USA, come appunto la Germania. Era quindi scontato che la propaganda della NATO sovvertisse l’evidenza e spacciasse il bottegaio Putin come un nuovo Hitler o un nuovo Gengis Khan. Da bravi bottegai, i dirigenti di Mosca continuano a vendere troppo facilmente gli alleati in base alla valutazione che gli costi troppo sostenerli; ma la coperta è corta, ed il non correre rischi spesso li aumenta. L’Iran confina con la Russia e, mentre in Ucraina Putin e soci stanno ancora tappando la falla che gli si è aperta ad ovest, adesso con la loro ambiguità nei confronti delle minacce sioniste e statunitensi contro Teheran, rischiano di ritrovarsi una falla ancora più larga a sud.
Tutte le potenze sono tendenzialmente imperialiste, ma stabilire un’area di influenza comporta un livello di superiorità militare ed economica che sembra non essere più alla portata di nessuno. L’insicurezza dei propri mezzi rende sempre più inaffidabili e imprevedibili. Mentre Putin vende i propri alleati, Trump li umilia inutilmente. Ciò che rende ridicole e velleitarie le sortite di Trump su Groenlandia, Canada e Panama, è che questi territori già fanno parte da svariati decenni dell’orticello coloniale degli USA e non manifestano alcuna intenzione di uscirne. Gli apologeti di Trump si fanno incantare dalle dichiarazioni roboanti contro l’invadenza cinese e non vedono che il problema riguarda l’incapacità degli Stati Uniti di investire in quei paesi e di farsi carico delle loro infrastrutture; anzi, gli USA hanno dimostrato di non essere più in grado di mantenere neanche le proprie infrastrutture, dato che rete elettrica, strade, ponti, ferrovie e porti sono tutti in stato di grave obsolescenza. La Cina ha cominciato ad entrare a Panama ed in Groenlandia con propri investimenti perché c’era un vuoto in cui inserirsi. Se Trump annettesse formalmente quei paesi dovrebbe affrontare i costi amministrativi della loro gestione e quindi non farebbe altro che mettere in evidenza ulteriormente l’incapacità americana di sostenere le spese di un’annessione.
Ma i maggiori specialisti degli assegni senza copertura si trovano da questo lato dell'Atlantico. Nel 2011, con l’aggressione alla Libia, abbiamo visto una riedizione dell’imperialismo franco-britannico, che sembrava sepolto dopo la figuraccia del 1956 a Suez. Dopo pochi giorni dall’attacco Sarkozy e Cameron finirono le munizioni e dovettero rivolgersi ad Obama; infatti questi in un’intervista di qualche anno dopo si lamentò di essere stato turlupinato, in quanto francesi e britannici gli avevano fatto credere di essere in grado di sostenere i rischi e gli oneri del dopo Gheddafi; ovviamente erano tutte fanfaronate. L’11 settembre del 2012 a Bengasi una milizia islamica assalì il consolato americano uccidendo l’ambasciatore Christopher Stevens, ed inducendo anche gli USA a sloggiare. Dato che la natura aborre il vuoto, oggi la Libia è lottizzata da due colonialismi a fichi secchi, quello turco e quello russo.
Con lo stesso velleitarismo e con la stessa cialtroneria del 2011, oggi i franco-britannici vorrebbero persino lanciare una nuova cordata imperialistica contro la Russia, in una specie di rievocazione amatoriale della guerra di Crimea del 1853-1856. Nel grottesco ci sono risvolti ancora più grotteschi, come il seguito di follower che il cialtro-imperialismo di Francia e Regno Unito si è conquistato tra giornalisti e accademici di “area progressista” sin dall’epoca dell’attacco alla Libia. Nel 2011 contro Gheddafi, come adesso contro Putin, uno dei più entusiasti nell’accodarsi alla cordata franco- britannica è Aldo Giannuli. Il professore infatti ripresenta sempre lo stesso schema comunicativo, con innumerevoli distinguo e intricate contorsioni dialettiche, il cui scontato risultato però è semplicissimo; cioè che, quando si tratta di eliminare il “dittatore” di turno, al Sacro Occidente tutto è permesso.
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