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"Politically correct" è l'etichetta sarcastica che la destra americana riserva a coloro che evitano gli eccessi del razzismo verbale. "Politicamente corretto" è diventata la locuzione spregiativa preferita ovunque dalla destra. In un periodo in cui non c'è più differenza pratica tra destra e "sinistra", la destra rivendica almeno la sguaiataggine come proprio tratto distintivo."

Comidad
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.

Di comidad (del 26/11/2015 @ 01:45:05, in Commentario 2015, linkato 2319 volte)
La colonna sonora della scorsa settimana è stata l'inno della Marsigliese, suonato in tutte le salse ed in tutte le occasioni; ciò, si è detto, per "solidarietà" nei confronti del popolo francese. In realtà la riproposizione dell'inno della Rivoluzione Francese del 1789 ha finito per assumere una valenza simbolica molto più profonda, ed anche molto meno rassicurante.
La Rivoluzione Francese, almeno ai suoi inizi, aveva proposto un'idea di cittadino non come semplice soggetto di diritti e doveri, ma come vera e propria funzione della Repubblica. In tale concezione, il cittadino si poneva come controllore assiduo della legalità e della legittimità degli atti del governo e dell'amministrazione. Già nei decenni successivi questo ideale si annacquava tramite la mediazione della stampa, che trasformava la cittadinanza in "opinione pubblica", la cui presunta funzione di controllo diventava così controllabile.
Gli avvenimenti di queste ultime settimane configurano un modello di potere addirittura opposto a quello del 1789, dato che il cittadino si ritrova retrocesso al ruolo nemmeno di suddito, ma di ostaggio da parte di un potere che pretenderebbe di porsi come protettore e difensore di una popolazione che esso stesso minaccia con le sue proprie iniziative spericolate.
Che il presidente francese Hollande possa arrogarsi il diritto di parlare a nome delle vittime degli attentati di Parigi, che possa pretendere di essere lui ad adottare iniziative belliche e diplomatiche per proteggere i Francesi, appare infatti alquanto paradossale. Anche volendo ammettere l'improbabile matrice ISIS/Daesh degli attentati di Parigi, non è stato lo stesso Hollande uno dei maggiori destabilizzatori del potere legale in Siria dal 2011 in poi? Non è stata questa destabilizzazione a fornire una base territoriale all'ISIS? Non è stato lo stesso Hollande a fornire pieno riconoscimento diplomatico alle "opposizioni" in Siria, cioè indirettamente anche all'ISIS? E allora di che parla?
Se il cittadino si ritrova ridotto ad ostaggio del proprio governo, l'opinione pubblica viene avvilita al ruolo di claque di quello stesso governo. L'informazione ufficiale si fa carico di seminare l'opportuna confusione, affinché le poche notizie concrete si sfilaccino in un confusionario rumore di fondo. Tra i dati certi c'è il ruolo di finanziatori dell'ISIS svolto dalle petromonarchie del Golfo Persico, che sono i maggiori partner commerciali della Francia ed anche i suoi maggiori clienti nella vendita di armi. Gli affari sono affari, perciò le responsabilità dell'Arabia Saudita e del Qatar devono sparire dal dibattito ufficiale e, per gettare un po' di fumo, autorevoli organi d'informazione come "La Stampa" di Torino mettono sullo stesso piano le precise contestazioni rivolte a Qatar ed Arabia Saudita con le accuse generiche e non circostanziate lanciate contro Assad e contro l'Iran.
"La Stampa" è però lo stesso quotidiano che l'anno scorso documentava i rapporti finanziari tra Qatar ed ISIS. Si vede che allora non si era ancora stabilito del tutto il sistema delle veline e delle censure.
Lo scorso anno il quotidiano britannico "The Guardian" forniva le stesse informazioni, e dava conto delle dirette responsabilità non solo del Qatar, ma anche dell'Arabia Saudita e del Kuwait nella genesi e nello sviluppo del terrorismo pseudo-islamico. Il tutto veniva corredato con l'illustrazione degli intrecci d'affari che coinvolgevano il Regno Unito.
Ciò non impediva lo scorso anno al Qatar di ospitare nientemeno che un summit della NATO, con la presenza del segretario generale Stoltenberg. La NATO è una cordata di lobby degli affari ma, nel suo ruolo istituzionale, viene chiamata a santificare in nome dei principi della difesa e della sicurezza tutte quelle operazioni di vendita di armi e di traffico clandestino di petrolio che mettono a rischio le popolazioni.
I media hanno creato un mito superomistico attorno all'ISIS: un'entità arcaica, ma modernissima, espertissima in tecniche di comunicazione e nell'uso dei social network, abilissima ad autofinanziarsi con tassazioni sul territorio e traffico di petrolio. Una Spectre islamica da film di 007.
Sarebbe molto rassicurante, e fuorviante, anche ridurre la questione ISIS ad una narrazione del tipo della Creatura di Frankenstein sfuggita al controllo del suo creatore. Così come rappresenterebbe una sbrigativa semplificazione l'ipotesi che l'attentato di Parigi sia un false flag di marca "europeistica", per avere il pretesto per approntare una "difesa europea" e sforare il Patto di Stabilità con i business della "sicurezza". False flag certamente sì, ma il quadro d'insieme non è affatto chiaro. Il vero problema è che il casino suscitato con la destabilizzazione della Libia e della Siria va ben oltre la stessa ISIS.
Ben quattro Paesi sono stati coinvolti sin dall'inizio nel finanziamento dell'ISIS: Arabia Saudita, Qatar, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti. Nell'addestramento e nell'appoggio alla stessa ISIS sono risultati coinvolti gli USA, la Francia, il Regno Unito e la Turchia. Il reclutamento dei militanti ISIS è stato operato in un'area che va dal Vicino Oriente sino ai Balcani. Tutto ciò con il coinvolgimento di varie agenzie, sia statali che private, con il ruolo, ovviamente, anche di istituti bancari per il trasferimento di fondi. Gli intrecci affaristici che si sono creati tra Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Turchia da un parte e petromonarchie dall'altra, hanno quindi messo in campo una serie di lobby d'affari, trasversali agli stessi Stati ed agli stessi servizi segreti, ogni lobby attorno ad uno specifico business, o anche più business. L'estensione, la ramificazione ed il potere di queste lobby rappresenta oggi la vera incognita. Anche l'oscura uccisione dell'ambasciatore USA Stevens a Bengasi nel 2012 si inquadra, probabilmente, in una di queste faide affaristiche.
A questo punto non si sa neppure chi siano i veri attori del gioco, ed Hollande sta solo fingendo un attivismo che dia l'illusione di poter controllare la situazione. L'abbattimento di martedì scorso di un jet russo da parte della Turchia riconferma che non è affatto l'ISIS il centro del problema.
Di tutto ciò la gran parte dell'opinione pubblica non ha alcuna consapevolezza. Il dibattito mediatico si accende invece sulle responsabilità dell'Islam e sul problema delle banlieue, i quartieri degradati di Parigi, a riprova del fatto che l'alternativa ludica che viene offerta all'opinione pubblica non è tra razzismo ed antirazzismo, ma tra un razzismo "hard" ad uso delle destre, ed un razzismo "soft" ad uso delle "sinistre".
 
Di comidad (del 03/12/2015 @ 01:43:32, in Commentario 2015, linkato 1984 volte)
Le dichiarazioni del ministro del Lavoro (?), Giuliano Poletti, sul superamento dell'orario di lavoro come strumento contrattuale sono state accolte dai sindacati in parte come il consueto annuncio/spot/diversivo, in parte come riproposizione acritica dell'ultra-liberismo come soluzione dei problemi economici e sociali. Queste reazioni possono apparire sensate, ma in realtà prescindono dal dato fondamentale, e cioè il conflitto di interessi legato alla persona del ministro Poletti.
Il ministro Poletti proviene infatti da un'agenzia di "somministrazione" del lavoro (quelle che una volta si chiamavano agenzie di lavoro "interinale"), perciò egli esprime gli interessi di una lobby nata attorno ad un tipico business della recessione, cioè lo sfruttamento della disoccupazione e del precariato attraverso un'intermediazione parassitaria. Le dichiarazioni di Poletti costituiscono quindi un messaggio di rassicurazione alla propria lobby, a cui si fa sapere che il governo intende continuare per la stessa strada: nessun limite alla disoccupazione ed alla precarizzazione del lavoro.
Ad ottobre l'ISTAT ha pubblicato dei dati confezionati in modo confuso ad uso dei telegiornali, dati da cui risulterebbe, ad una lettura superficiale, un calo della disoccupazione ed un conseguente successo delle politiche governative. La stessa notizia, sulla carta stampata, si presta a tutt'altra lettura, poiché il presunto calo della disoccupazione avviene a fronte di un aumento degli "inattivi", cioè di quelli che rinunciano ad iscriversi alle liste di disoccupazione. L'inattività non è solo l'effetto dell'inutilità della ricerca di un lavoro, ma soprattutto di salari troppo bassi e di condizioni lavorative troppo vessatorie, che costringono a consumare i già magri salari in spese di trasporto e di salute.
Sul mercato del lavoro rimangono quindi i "disposti a tutto", coloro che sperano in un'occupazione in funzione del continuare a sperare che tale occupazione si stabilizzi. Si tratta delle vittime ideali dell'intermediazione parassitaria delle "agenzie di somministrazione", come quella di Poletti, la quale ha un nome involontariamente autoironico : "Obiettivo Lavoro". I sindacati avrebbero potuto incamerare la confessione del lobbista Poletti come un proprio risultato, e non c'era neppure bisogno di rinfacciare apertamente a Poletti il suo conflitto d'interessi, poiché bastava ricordare che la precarizzazione è diventata un business per alcuni. I sindacati hanno invece preferito parlare d'altro, con ciò alimentando il sospetto che in quel business anche gli stessi vertici sindacali siano coinvolti.
Si tratta di uno schema comunicativo ricorrente, - anzi, costante -, per il quale una questione di business, e di annesso lobbying, viene spostata sul piano astratto del confronto ideologico. L'ideologia, da strumento per interpretare la realtà, diventa un modo per oscurarla. Tale schema comunicativo vale a tutti i livelli. La destabilizzazione del Vicino Oriente ha permesso l'insediamento di una rete di affari legata al traffico di armi ed al contrabbando di petrolio. Nella comunicazione ufficiale, e di gran parte delle opposizioni, tutto ciò è stato messo in ombra grazie allo spostamento dell'attenzione sul dato religioso. L'Islam viene apertamente criminalizzato dal razzismo antropologico delle destre, che lo presentano come culto della violenza e della conquista; oppure indirettamente criminalizzato dal razzismo sociologico delle sinistre, che presentano il fanatismo islamico come espressione della frustrazione degli esclusi e degli emarginati.
Si è arrivati ad una mitizzazione dell'ISIS, alla narrazione delle doti soprannaturali di un'organizzazione espressione sia dell'Islam più fanatico e retrivo che dell'efficientismo più moderno. L'ISIS si autofinanzierebbe attraverso la tassazione dei territori che controlla (una sorta di "equi-ISIS"). Oppure ci si è raccontato che l'ISIS fa traffico di petrolio, ma, visto che non possiede una flotta di petroliere, allora si è andati a concludere che lo rivende allo stesso Assad, lo stesso contro il quale l'ISIS combatte. Oggi persino un settimanale come "l'Espresso" ammette però che la storia del traffico di petrolio gestito direttamente dell'ISIS è stata gonfiata e non corrisponde ai dati disponibili. Cos'è successo da indurre una parte della stampa alla rettifica?
A tagliar corto su queste fiabe è arrivata la pubblica confessione del presidente turco Erdogan, il quale abbattendo l'aereo russo che stava colpendo le vie di comunicazione del traffico di petrolio, ha ammesso pubblicamente il proprio coinvolgimento nell'affare. Ecco che allora il ridimensionare le cifre sul contrabbando di petrolio dell'ISIS giunge tempestivamente a minimizzare le colpe di Erdogan, il quale magari qualche affaruccio con l'ISIS l'ha fatto, ma sarebbe poca cosa.
Per quanto di scarsa entità, i traffici con l'ISIS avrebbero dovuto comunque collocare la Turchia nella lista dei paria internazionali o degli "Stati Canaglia". Invece è accaduto tutt'altro, dato che la Turchia qualche giorno fa si è vista addirittura concedere dall'Unione Europea tre miliardi di euro per la gestione del business dell'emergenza migranti; ed in più si sono persino riaperte le trattative per l'ingresso della stessa Turchia nell'Unione Europea, un ingresso che solo un anno fa appariva definitivamente bloccato.
Questo eccesso di solidarietà nei confronti della Turchia può essere interpretato come un pubblico riconoscimento di corresponsabilità dell'UE nei business che oggi vedono coinvolta la stessa Turchia, e non solo quelli del traffico di petrolio e armi, ma anche quello del traffico di migranti. Forse Erdogan non è l'unica canaglia, e neppure la principale, ma solo quella che si è esposta di più. Qui il problema evidentemente non riguarda le briciole gestite dall'ISIS, e neppure la sovraesposizione di Erdogan, ma c'è qualcosa di molto più rilevante da nascondere. Si può essere certi che anche queste confessioni non verranno accolte come tali, e si preferirà parlar d'altro.
 
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


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