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"Un'idea che non sia pericolosa non merita affatto di essere chiamata idea."

Oscar Wilde
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.

Di comidad (del 22/09/2016 @ 03:06:14, in Commentario 2016, linkato 1572 volte)
A volte l’astensionismo tende ad attribuire agli elettori un fideismo che, se mai c’è stato, è scomparso da tempo. Non è la fiducia in questa o quella lista, o questo o quel candidato, a muovere l’elettore ma, più spesso, un atteggiamento che si potrebbe definire “almenistico”. Nelle ultime elezioni amministrative gran parte del voto si è concentrato sul Movimento 5 Stelle nonostante il crescente scetticismo che lo circonda, per l’obiettivo modesto di evitarsi “almeno” di dover vedere la faccia soddisfatta di Renzi alla proclamazione dei risultati. Mentre un establishment sempre più autoreferenziale cerca di attribuire all’elettoralismo un ruolo esclusivamente plebiscitario, come reazione “dal basso” l’elettoralismo ha trovato nuovi fervori nutrendosi di un crescente minimalismo nei confronti delle attese.
In questa concezione minimalistica dell’elettoralismo alcuni si sono determinati a votare no al referendum costituzionale, che dovrebbe svolgersi nei prossimi mesi, pur riconoscendo che le Carte Costituzionali lasciano il tempo che trovano e che i meccanismi di regolazione del potere sono altrove. C’è persino chi dice che “almeno” non è il caso di farci ridere dietro da tutto il mondo presentando una nuova Costituzione irta di passaggi farneticanti e sgrammaticati. La Costituzione sarà studiata anche nelle Università estere, dove rischieremmo di esibire un testo talmente malfermo da risultare intraducibile. Per gli “almenisti” c’è in giro in questi giorni anche altro materiale tale da spingere a correre a votare no. L’ambasciatore USA in Italia, John Phillips, ha dichiarato che una vittoria del no allontanerebbe gli investimenti statunitensi, e questa sortita potrebbe costituire anch’essa un’ottima motivazione per votare, così “almeno” si respingerà al mittente tanta protervia.
Stranamente stavolta le esternazioni dell’ambasciatore USA hanno riscosso nel mondo politico una unanime mandata a quel Paese, persino da parte del mite Pier Luigi Bersani. L’ex segretario del PD appare oggi come un leader degli “almenisti”, tanto che si dichiara pronto anche a votare sì in cambio di una nuova legge elettorale che “almeno” eviti pasticci maggioritari e garantisca l’elezione, e non la nomina, di deputati e senatori. Il tanto bistrattato Bersani stavolta centra il nocciolo del problema: persino una legge elettorale è più decisiva di un testo costituzionale.

Nei giorni scorsi la morte di Carlo Azeglio Ciampi, oltre alle retoriche celebrazioni di rito, è stata l’occasione per rivangare quell’episodio del 1981, quello del famoso “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, consumato dal ministro Beniamino Andreatta e dallo stesso Ciampi, allora governatore della banca centrale. In un articolo di dieci anni dopo, pubblicato su “Il Sole-24 ore”. Andreatta definì quell’operazione come una “congiura aperta” compiuta da lui e da Ciampi per mettere il governo davanti al fatto compiuto. Un “complotto” in piena regola, ma alla luce del sole.
Il povero Andreatta evidentemente si sopravvalutava, perché avrebbe dovuto spiegarci come mai i suoi successori nella carica di ministro del tesoro non avessero “pensato bene” di annullare quel “divorzio” che stava mandando alle stelle il nostro debito pubblico in quanto non era più la banca centrale ad acquistare i titoli di Stato invenduti, bensì il “mercato”, che esigeva esosi tassi d’interesse. Il punto è che il “mercato” era composto da una lobby italiana di banchieri e imprenditori, anche di Stato, che avevano “pensato benissimo” di investire in titoli del debito pubblico, sicuri e remunerativi, invece che in rischiosi investimenti produttivi. La “narrazione” ufficiale ha spacciato la lievitazione del debito pubblico come un mezzo adottato dai nostri politici per consentire l’espansione del welfare (campioni di altruismo!); mentre il debito pubblico è stato invece uno strumento della prima grande deindustrializzazione, quella degli anni ‘80. Gli imprenditori pubblici e privati avevano ricevuto in quegli anni una pioggia di finanziamenti statali per la “riconversione industriale” (sessantamila miliardi di vecchie lire solo alla FIAT), e quasi tutti quei soldi statali finirono nell’acquisto di ... titoli di Stato!
Andreatta invocava a giustificazione del “divorzio” anche la tenuta dello SME, il sistema monetario europeo a cambi fissi, prodromo dell’unificazione monetaria. L’alibi europeo costituì un ottimo viatico anche per le nostre lobby bancarie e industriali, che però non avevano calcolato che sarebbero man mano rimaste avviluppate nelle spire di quello stesso alibi, al punto da perdere ogni autonomia e di condannarsi ad un tale declino e ad un tale grado di colonizzazione da non essere più libere nemmeno di salvare le proprie banche.

Le “borghesie nazionali” sono un mito (o una svista) del XIX secolo, dato che tutte le oligarchie tendono a coltivare il senso del proprio sradicamento verso i rispettivi contesti nazionali, ponendosi come “bolle” autoreferenziali che trovano nella relazione sovranazionale gli strumenti, gli appoggi e le scadenze per regolare all’interno i conti con le proprie classi subalterne. Il simbolo più clamoroso di questo orgoglio del proprio sradicamento è la City finanziaria di Londra, amministrativamente autonoma e, di fatto, uno Stato nello Stato, che, senza remore, attribuisce la cittadinanza onoraria a potenti di tutti Paesi, Putin compreso. Anche in Italia vi è un’oligarchia che si è riprodotta attraverso le generazioni tramite i propri riti, le proprie scuole e le proprie logge massoniche; un’oligarchia che ha usato il finto ideale - in realtà pretesto - europeistico per esasperare lo sfruttamento dei lavoratori e dei contribuenti. Anche se oggi i rapporti di forza sovranazionali condannano questi oligarchi nostrani ad un ruolo sempre più subalterno, ciò non può risvegliare in loro una “coscienza nazionale”, dato che è la lobby a conferirgli identità ed a riscuotere la loro fedeltà. Meno male che gli è rimasta la risorsa del collaborazionismo.
 
Di comidad (del 15/09/2016 @ 01:30:00, in Commentario 2016, linkato 1760 volte)
Non c’è dubbio che l’impegno di Massimo D’Alema nel sostenere il “no” al prossimo (?) referendum sulla revisione costituzionale costituisca un motivo di imbarazzo per il resto del fronte del no, in quanto la presenza di un personaggio come D’Alema fornisce molti argomenti polemici, anche piuttosto scontati, all’avversario. Matteo Renzi infatti non ha perso occasione per rinfacciare allo stesso D’Alema la sua posizione di leader del “passato”, cioè esponente del vecchiume politico che il renzismo si è incaricato di spazzare via in nome del “nuovo”. Per la sua polemica, Renzi si è fatto fornire dai suoi “spin doctor” anche un colpo basso, rinfacciando a D’Alema di aver solo firmato, e non scritto, il suo opuscoletto di una ventina di anni fa, quello in cui si proponeva di trasformare finalmente l’Italia in un “Paese normale”.
Invocare la “normalità” ha un solo e sicuro effetto pratico, cioè proclamare la propria anormalità. La “anomalia italiana” è diventata un’espressione proverbiale che si risolve nel conferire al provincialismo uno status ideologico. Di questo provincialismo ideologico risente anche il dibattito sul referendum costituzionale. Alcuni si sono spinti a chiedersi a cosa serva una Costituzione scritta, visto che gli Inglesi ne fanno a meno. Gli Inglesi hanno il self-control e l’understatement, perciò non hanno bisogno di norme scritte, se non come formalizzazione a posteriori. Altro che abolire il senato, si può abolire addirittura la Costituzione. Cosa non si farebbe per diventare “normali”.

Il “normalismo” trova la sua appendice, peraltro contraddittoria, nell’eccezionalismo di altri popoli, specialmente quelli anglosassoni. Negli Stati Uniti il senso della propria eccezionalità e della propria missione mondiale è un dato scontato del dibattito interno. I popoli vassalli possono rifulgere a loro volta di luce riflessa militando nello schieramento del popolo superiore; schieramento oggi definito “Occidente”. Come italiano non vali una sega, ma come “occidentale” puoi vantare dei titoli di nobiltà.
Se da un lato l’ideologia della normalità costituisce la formalizzazione della propria sottomissione coloniale, dall’altro lato si è visto dove ha condotto la posizione di un certo “antagonismo di destra” che qualche anno fa aveva individuato orgogliosamente nel berlusconismo la manifestazione di una vivace anomalia italiana da rivendicare senza vergogna. In realtà la caricatura vivente impersonata dal Buffone di Arcore ha reso credibile nel 2011 agli occhi dell’opinione pubblica nazionale e internazionale quell’emergenza spread che non aveva alcuna pezza d’appoggio nei numeri dei conti pubblici. Il culto della propria anomalia è a sua volta un sottoprodotto dell’ideologia della normalità. Le figuracce internazionali del Buffone erano infatti funzionali a ribadire l’anomalia italiana e quindi a legittimare la normalizzazione poi imposta dalla grigiocrazia montiana.

Il nazionalismo finisce sempre per impantanarsi, poiché si infervora nel cercare un’evanescente identità nazionale e perde di vista il fatto che il colonialismo costituisce lo schema fondamentale della riproduzione del potere, e non esistono popoli e Stati immuni da questo schema. Una classe dominante può esasperare la sottomissione del proprio popolo tramite i vantaggi che gli derivano dallo sfruttamento di un popolo straniero e dalla partnership con la casta dominante del popolo sottomesso, come avveniva con il colonialismo britannico in India. Ma anche nei Paesi in stato di soggezione coloniale le classi dominanti si avvantaggiano dell’investitura, magari temporanea, che gli proviene da poteri stranieri o sovranazionali.
Insomma, le “borghesie nazionali” non esistono e la coscienza di classe di una qualsiasi “ruling class” è indissociabile dal collaborazionismo imperialistico, che funziona sempre in modo bilaterale, altrimenti non si spiegherebbe l’ossessione statunitense per avere “alleati”. Senza la pioggia di denaro degli investimenti dell’Arabia Saudita, la controffensiva reazionaria e “neoliberista” del reaganismo degli anni ‘80 sarebbe stata impossibile, e ciò ha determinato anche il formarsi negli USA di una potente lobby saudita, di cui notoriamente fa parte la famiglia Bush.

Lo stesso D’Alema potrebbe essersi sentito investito e appoggiato da qualche potentato internazionale nel momento in cui ha avviato la sua crociata contro Renzi. D’Alema è meno furbo di quanto crede di essere, e il suo impegno potrebbe non sortirgli nuove investiture dalla NATO come nel caso dell’aggressione alla Serbia del 1999, ma semplicemente una momentanea strumentalizzazione per sostituire Renzi con un commissariamento da parte della Troika.Per questo motivo Renzi sta facendo di tutto per rendersi il più insopportabile possibile, in modo da farci apparire persino la Troika come una “liberazione”.
Certo è che bisognerebbe capire perché mai dopo Renzi l’unica alternativa praticabile sarebbe costituita dal commissariamento da parte della Troika. Il filosofo Massimo Cacciari accredita indirettamente questa ipotesi affermando che lui vota sì perché una vittoria del no al referendum comporterebbe una caduta nel caos politico. La convinzione secondo cui sarebbe impossibile sostituire rapidamente Renzi con le consuete procedure istituzionali non trova il minimo riscontro, se non nell’universo autoreferenziale della propaganda, che ci indurrebbe a credere che un’Italia così irresponsabile da rifiutare di farsi “normalizzare” dalle salvifiche riforme di Renzi, non può che meritarsi un commissariamento.
 
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


19/03/2024 @ 08:54:56
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