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"La nozione di imperialismo americano non si deve intendere come dominio tout court degli Stati Uniti, ma come la guerra mondiale dei ricchi contro i poveri, nella quale gli USA costituiscono il riferimento ed il supporto ideologico-militare per gli affaristi e i reazionari di tutto il pianeta."

Comidad (2012)
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.

Di comidad (del 09/01/2020 @ 00:29:02, in Commentario 2020, linkato 11065 volte)
L’assassinio del generale iraniano Qasem Soleimani da parte degli USA è stato raccontato dai media secondo i criteri classici della disinformazione, cioè palesi menzogne ed altrettanto palesi contraddizioni. Uno degli addetti a questa disinformazione, il giornalista dei servizi segreti Maurizio Molinari, ha mescolato presunte motivazioni personali del cialtrone Trump con considerazioni pseudo-strategiche attribuite agli USA. Secondo Molinari, CialTrump non poteva subire passivamente l’assalto della folla all’ambasciata USA di Baghdad per non pagarne lo scotto in termini elettorali. Pare infatti che si preparino elezioni nell’Iowa (immaginiamoci quindi cosa succederà quando ci saranno le elezioni in Ohio).
Ammesso che l’ordine sia partito davvero dal presidente, è difficile credere che il Pentagono sia disposto ad assecondare senza un tornaconto le mire elettorali di CialTrump o di chiunque altro ed avrebbe avuto mille modi per non obbedire. La stessa motivazione elettoralistica appare poi quantomeno forzata. C’è sì il precedente di Carter non rieletto per gli ostaggi all’ambasciata di Teheran ma, se è per questo, c’è un precedente opposto anche più clamoroso, del settembre del 2012 quando, nel pieno della campagna presidenziale per la sua rielezione, Obama si vide ammazzare l’ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi. Obama però fu rieletto senza problemi ed il caso Stevens fu insabbiato con un rapporto finale che se la cavava con qualche critica molto generica alle forze armate per non aver ben difeso l’ambasciatore. Come insabbiatori gli Americani sono bravissimi anche loro.
Molinari ricorre al luogo comune dell’americano che non si fa saltare la mosca al naso, un mito funzionale sia al filoamericanismo più demenziale, sia all’antiamericanismo naif, cioè quello che si risolve nel credere che il problema degli Americani sia di essere rimasti cowboy. Il vero antiamericanismo consiste invece nel riconoscere che gli Americani sono esattamente come tutti gli altri e si atteggiano a suscettibili e vendicativi o fanno finta di nulla a seconda delle convenienze.
L’altra motivazione offerta da Molinari riguarderebbe l’esigenza degli USA di rilanciare la “deterrenza” nei confronti dell’Iran. Qui ci troviamo di fronte all’uso a sproposito di un parolone. “Deterrenza” significherebbe dimostrazione di forza per dissuadere un avversario. Nel caso dell’assassinio di Soleimani non c’è stata però alcuna dimostrazione di forza, semmai di slealtà verso il governo iracheno, presunto “alleato”, dato che l’attentato è avvenuto all’aeroporto di Baghdad, cioè mentre il bersaglio era senza protezione e non mentre se ne stava in una roccaforte dei Pasdaran iraniani.
Esattamente due anni fa Soleimani era stato avvertito dal Mossad di essere un bersaglio ed il messaggio era abbastanza chiaro: se ti attieni all’aspetto militare non ci interessa farti fuori, ma se continui a tessere relazioni diplomatiche in Medio Oriente, allora aspettati il peggio perché anche gli USA hanno dato luce verde all’esecuzione. Soleimani ha scelto di continuare i suoi giri diplomatici con i conseguenti rischi di farsi trovare allo scoperto. Al di là della retorica del coraggio e del martirio, non avrebbe potuto fare altro, perché se sei il capo gli altri vogliono trattare personalmente con te e non con un vice.
L’uccisione di un Soleimani in versione diplomatica e non militare non ha avuto alcuna incidenza sui rapporti di forza in campo, semmai crea nell’opinione pubblica mediorientale il sospetto che gli USA abbiano dovuto far fuori Soleimani col tradimento dato che non ne erano capaci con la potenza. La decisione del parlamento iracheno di allontanare le truppe straniere è solo simbolica e non ha alcun effetto pratico, ma comunque toglie agli USA l’ultima foglia di fico legale per la loro presenza in quell’area .

Lo stesso Molinari contraddice l’ipotesi della deterrenza affermando che ci si attendono reazioni iraniane anche nel Golfo Persico. Allora non si trattava di dissuasione, era una provocazione. Non si capisce però che interesse abbia l’Iran ad incendiare il Golfo Persico, visto che dipende da quella via per le sue esportazioni di petrolio. Pare che l’Iran sia salito al tredicesimo posto nel mondo per potenza militare, quindi per gli USA si tratterebbe di un avversario ostico, tanto più se assistito da Russia e Cina sul piano missilistico (e la pioggia di missili di martedì notte sulle basi USA in Iraq pare un avviso in tal senso).
D’altra parte gli stessi dirigenti iraniani sono i primi a cogliere i propri limiti ed a comprendere che la cosiddetta “Mezzaluna sciita" dall’Iran allo Yemen passando per Siria e Libano, è in realtà una “bolla” provocata dagli stessi USA. Sono stati gli USA ad eliminare il contrappeso sunnita all’Iran, cioè Saddam Hussein, come sono stati gli USA (con i loro “alleati” europei) a trasformare quell’alleato alla pari dell’Iran che era Bashar al-Assad in un suo cliente; allo stesso modo sono stati gli USA, con la loro assistenza all’aggressione saudita, a far entrare i ribelli dello Yemen, di un’altra setta islamica, nell’orbita sciita. L’attuale “potenza” dell’Iran è quindi un prodotto della destabilizzazione operata dagli USA. Molti commentatori hanno parlato a riguardo di “errori”, mentre in effetti c’era una precisa volontà di far saltare gli equilibri nell’area. Il vero problema per l’Iran è che una guerra rappresenterebbe di per sé una sconfitta a causa dello strozzamento economico e commerciale che comporterebbe. L’Iran ha quindi un oggettivo interesse a non far salire la tensione nel Golfo Persico.

Chi invece si trova nel Golfo Persico in una posizione a dir poco ambigua è proprio la flotta statunitense. Gli Stati Uniti infatti hanno raggiunto non solo l’autosufficienza energetica ma sono diventati addirittura esportatori netti di petrolio, cioè esportano più petrolio di quanto ne importano. Il petrolio statunitense però è molto costoso, poiché è ricavato dalle rocce di scisto, perciò non può competere alla pari con l’offerta dei tradizionali tipi di petrolio.
Nonostante le tensioni crescenti, il prezzo del petrolio non riesce a sfondare quella soglia dei settanta dollari che renderebbe remunerativo il petrolio di scisto, dato che la recessione mondiale fa cadere la domanda di idrocarburi. L’antieconomico ed antiecologico petrolio di scisto perciò può diventare competitivo solo se per gli altri produttori risulta impossibile vendere il proprio petrolio a causa dell’aumento dei costi assicurativi dovuti al crescente rischio del trasporto. Si può comprare petrolio a prezzi stracciati, ma poi il vantaggio del prezzo viene rimangiato da quanto devi versare alle compagnie assicurative perché ti coprano i rischi sul carico.
Se quindi c’è qualcuno che ha un preciso interesse commerciale a sabotare il Golfo Persico come via d’accesso, questo qualcuno è gli USA. Come guardiani del Golfo Persico, gli USA si trovano in evidente conflitto di interessi e le prudenze dei governi europei nella circostanza indicano che a loro questo aspetto è chiaro. In effetti l’unico politico europeo a fare i salti di gioia per l’attentato a Soleimani, è stato Matteo Salvini. Prima dell’ultima provocazione statunitense, Arabia Saudita ed Iran stavano negoziando una tregua per garantirsi reciprocamente la possibilità di esportare il proprio petrolio. Non è detto perciò che la provocazione statunitense riesca a sabotare l’accordo, tanto più che è sin troppo evidente che lo scopo degli USA fosse proprio quello.
Quel che è certo è che gli USA dovranno per forza insistere nella loro tattica provocatoria, poiché ormai non è più soltanto questione di avidità dei loro petrolieri. Gli investimenti nel petrolio di scisto sono stati enormi e varie aziende hanno cominciato a fallire. La produzione non è scesa perché tutti gli impianti sono ora utilizzati al massimo grazie alle tensioni nel Golfo Persico che rendono incerti i trasporti. Se nel Golfo Persico la situazione si stabilizzasse, la catena dei fallimenti delle aziende del petrolio di scisto si trascinerebbe dietro l’intera economia americana.
 
Di comidad (del 02/01/2020 @ 01:30:19, in Commentario 2020, linkato 10117 volte)
Il fatto apparentemente nuovo nella crisi libica è l’ingresso plateale della Turchia di Erdogan nel ruolo di salvatore del governo Sarraj minacciato dalle milizie del generale Haftar. È improbabile che Erdogan non fosse già coinvolto da tempo nella vicenda del caos libico; ora però il dato assume il tono di una rivalsa storica, poiché la Tripolitania e la Cirenaica, prima di diventare colonie italiane nel 1911 col nome romano di Libia, erano province dell’impero turco Ottomano.
In Italia uno dei mestieri più futili e frustranti è quello di ministro degli Esteri e, non a caso, l’incarico è stato affidato ad un personaggio come Luigi di Maio, che ha la vocazione del parafulmine, del colpevole di professione. Adesso che avrebbe il compito di preservare gli interessi dell’ENI in Libia dall’offensiva turca, Di Maio si trova esposto ai mordaci commenti degli analisti di politica estera che si divertono a prenderlo per i fondelli. Prima gli si consiglia di agire di concerto con la mitica Europa, poi lo si ridicolizza dicendo che ha perso il suo tempo, visto che l’Europa non conta nulla; gli si contesta di puntare su un cavallo sbagliato come Sarraj e dopo gli si rimprovera di far politiche dei “due forni” prendendo contatti con Haftar; e via di questo passo, a furia di consigli e sfottò.
Ciò che manca nei commenti mediatici è un minimo di valutazione realistica sui moventi dei principali attori. Se dopo otto anni dalla caduta di Gheddafi, la destabilizzazione in Libia non vede pause, c’è da sospettare che il caos faccia comodo a qualcuno.
I colossali investimenti statunitensi nel costosissimo petrolio ricavato dalla frantumazione delle rocce di scisto, potevano apparire del tutto antieconomici; ed in effetti, in condizioni di mercato stabili, lo sarebbero stati. La destabilizzazione delle tradizionali aree petrolifere come il Vicino-Medio Oriente e il Venezuela, con la conseguente incertezza cronica delle forniture, ha invece spalancato la strada al business statunitense del petrolio di scisto. Quest’anno per la prima volta dopo molti decenni, gli USA sono diventati esportatori netti di petrolio. Si tratta del primo vero segnale positivo per la bilancia commerciale USA, il cui gigantesco passivo non era stato scalfito dalla pioggia di dazi del cialtrone Trump. Ovviamente i media ci raccontano che, essendo diventati energeticamente indipendenti, gli USA non sono più tanto interessati al Vicino e Medio Oriente. La realtà è l’opposto: gli USA hanno uno specifico interesse commerciale a destabilizzare tutte le aree petrolifere tradizionali.

C’è persino da avanzare qualche dubbio sulla sincerità delle preoccupazioni dei media italiani per le sorti dell’ENI in Libia. Nel 2011 i media nostrani furono compatti nel sostenere la destabilizzazione del regime di Gheddafi. Con la modesta eccezione di Vittorio Feltri (che pure negli anni precedenti aveva condotto una campagna di odio contro il “beduino” Gheddafi), l’appoggio alla guerra umanitaria in Libia fu unanime. Per mettere a tacere le “sinistre” e i “pacifisti” di ogni sfumatura fu sufficiente allestire un “dibattito” su MicroMega (se c’è stato il “dibattito”, allora si può digerire tutto). La neonata creatura di Corradino Mineo, Rainews24, si distinse per zelo nella propaganda anti-Gheddafi. Per aver espresso un’opinione dissonante, il povero Oliviero Beha si trovò ad essere ostracizzato dagli schermi Rai per tutti gli anni che gli restavano da vivere. In quel contesto di disinformazione anti-Gheddafi, ogni accenno agli interessi dell’ENI evocava semmai un passato di osceni e colpevoli compromessi col tiranno.
Il problema è che sebbene l’ENI, con i suoi oltre settanta miliardi di fatturato, sia la prima azienda italiana, è comunque per dimensioni di tre volte inferiore alla multinazionale francese Total. Rispetto alla britannica BP, l’Eni è addirittura più piccolo di cinque volte. Ciò spiega la mancanza di “soft power” dell’ENI, dato che è il potere dei soldi ad affascinare i media ed a condizionarne i giudizi, senza neppure bisogno che arrivino ordini dall’alto. Il concetto di “legge del più forte” è di solito frainteso nel senso che il più forte si imponga di forza, mentre invece il fattore da considerare è il conformismo. Ogni posizione di forza comporta una rendita di posizione, che consiste nel riscuotere gli spontanei consensi di chi ritiene suo interesse o suo dovere morale adeguarsi al volere dei potenti di turno.

Si è detto giustamente che è sempre stato l’ENI a dettare la politica estera italiana sulle questioni energetiche e, in effetti, gli accordi con la Russia e con la Libia furono condotti sia dai governi di Prodi che dai governi del Buffone di Arcore. Il punto è che davanti ad una pressione internazionale, l’ENI non è assolutamente in grado di allineare la politica, le burocrazie, la magistratura, le forze armate e i servizi segreti ai propri interessi. Dove la prepotenza ed il bullismo dell’Eni possono invece esercitarsi senza ostacoli è all’interno, come nel caso della povera Basilicata, depredata del suo petrolio senza nemmeno potersi avvantaggiare delle briciole. C’è da dubitare perciò che la vera priorità degli ultimi governi italiani sia stata davvero quella di tutelare gli interessi dell’ENI e non sia sempre quella di barcamenarsi tra le pressioni divergenti dei vari “alleati”. Anche nel 2011 tra le giustificazioni della partecipazione diretta dell’Italia all’aggressione contro la Libia, una delle giustificazioni fu la necessità di sedersi al tavolo dei vincitori per salvare gli impianti ENI; ma è molto più probabile che il vero movente di Napolitano e del Buffone fosse di non contraddire la NATO e gli USA. Il barcamenarsi tra spinte coloniali diverse può dare a volte la falsa impressione di scelte autonome da parte dei governi italiani; ma comunque si tratta di ingerenze esterne.
Si parla molto della competizione tra ENI e Total per la Libia; si parla meno invece del ruolo della BP. Sta di fatto che la presenza di truppe speciali britanniche delle SAS era stata segnalata in Libia ai primi di marzo del 2011. La vicenda fu minimizzata dai media per la buffa circostanza che gli uomini delle SAS erano stati catturati da miliziani di Bengasi che li sospettavano di essere al servizio di Gheddafi; ma, al di là del piccolo incidente, questa presenza di truppe britanniche anticipava ciò che sarebbe avvenuto pochi giorni dopo, cioè l’avvio delle operazioni militari di Regno Unito e Francia contro Gheddafi.
A questo punto non ci si stupirà di scoprire che la BP è una delle multinazionali più addentro al business del petrolio di scisto negli USA. Dopo l’acquisizione dell’azienda petrolifera statunitense Amoco nel 1998, la BP è largamente presente nella produzione americana. Quest’anno la BP deve il suo incremento nei profitti proprio al petrolio di scisto.
 
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


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