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""Napoli" è una di quelle parole chiave della comunicazione, in grado di attivare nel pubblico un'attenzione talmente malevola da congedare ogni senso critico, per cui tutto risulta credibile."

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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.

Di comidad (del 20/10/2022 @ 00:03:35, in Commentario 2022, linkato 6281 volte)
Il linguaggio è considerato una caratteristica tipicamente umana ed un’attività consapevole, mentre in effetti presenta molti aspetti di automatismo. Una delle tecniche più consolidate con cui le parole impongono la loro tirannia, è la coppia semantica, cioè un accostamento di due termini che si trasferiscono significato l’uno con l’altro. La coppia semantica rende superflua la dimostrazione; anzi, argomentare diventa persino disdicevole, come se si aprisse il varco alla discussione sull’indiscutibile. Coppie semantiche storiche, ed ormai codificate e santificate, sono quelle di “libertà-Occidente” e di “dispotismo-Oriente”, attraverso le quali filtrare e banalizzare tutte le vicende dello scontro imperialistico. Un’altra coppia semantica consolidata è “giudizio-mercati”, che serve a delimitare il recinto effettivo delle libertà occidentali, poiché alla fine conta solo il “giudizio dei mercati”, ovvero di chi controlla i soldi. A differenza del giudizio elettorale, che è emotivo ed episodico, il giudizio dei mercati sovrintende costantemente alle azioni umane con l’alone del divino.
Il politicamente corretto passa quindi per una trasformazione del lessico ed un suo adattamento alle esigenze della gestione del potere. Una delle piccole ma significative varianti introdotte di recente, riguarda la composizione sociale. La coppia semantica che regna sovrana nella comunicazione corrente è: “famiglie e imprese”.
- Il nuovo governo si occuperà di famiglie e imprese;
- l’opposizione chiede più attenzione a famiglie e imprese;
- ci sono richieste che arrivano da famiglie e imprese;
Il mantra è diventato così invasivo che, se si eliminassero questi due termini dalla comunicazione televisiva, forse dovrebbe chiudere qualche canale. Ad onor del vero, va segnalato qualche tentativo sperimentale d’avanguardia (cittadini e imprese), o qualche sprazzo di fantasiosa originalità (imprese e famiglie, come dice Confindustria). La locuzione “famiglie e imprese” non fa parte soltanto del lessico politico e giornalistico, ma è assurta addirittura all’Olimpo dei “saperi” che regolano la società. Sul proprio sito la Banca d’Italia pubblica una “indagine su famiglie e imprese”. In Banca d’Italia non ci sono soltanto valenti scienziati economici e sociali, ma anche illustri poeti; infatti l’accostamento dei due termini crea suggestive catene di significati, per cui le immagini familiari di bimbi frignanti e nonnetti agonizzanti balenano nell’inconscio degli ascoltatori mentre Confindustria illustra i suoi desiderata per imprese e famiglie. Al confronto di tanta potenza evocativa e simbolica, persino Giovanni Pascoli ci farebbe la figura del poetastro dilettante.
Sono invece in seria difficoltà termini come “lavoratori”, o persino locuzioni come “ceti produttivi” (che pure una volta andava per la maggiore), a causa del loro intrinseco valore divisivo, e quindi da usare sempre meno. Davvero difficile ricorrere al termine “operaio”, che suona ormai piuttosto volgare e inopportuno, se non nel caso delle morti sul lavoro. La combattiva CGIL parla di “mondo del lavoro” (non divisivo), evitando il termine “lavoratori”, e facendo intendere che nel lavoro sono inclusi gli imprenditori. Il termine “disoccupati” va usato con estrema parsimonia, altrimenti denoterebbe un atteggiamento visceralmente negativo, ed anche corrivo nei confronti dei percettori del reddito di cittadinanza che scansano le innumerevoli offerte di lavoro che gli piovono addosso da ogni parte. Persino il compagno Fratoianni preferisce parlare di famiglie e imprese.

La coppia semantica “famiglie e imprese” è rassicurante e non divisiva, un tempo si sarebbe detto interclassista. Ci permette di capire che la famiglia di Benetton e quella di un immigrato hanno lo stesso bisogno di aiuto; che Amazon deve essere aiutata quanto e più di chi consegna le pizze a domicilio. L’idea che non ci sia contrasto di interessi tra ricchi e poveri, tra servi e padroni, tra sfruttati e sfruttatori, viene propagata da sempre negli USA; è lì infatti che è nata l’idea di organizzare la società intorno alla figura del “consumatore”, è lì che nascono le prime associazioni per la difesa del consumatore e le relative riviste, ormai diffusissime anche da noi. Il governo si fa carico di riconoscere e tutelare le associazioni dei consumatori, inquadrandole in appositi elenchi ufficiali.
La soggettività viene ricomposta nella capacità d’acquisto individuale; i bisogni indotti e l’istigazione al consumo, messi in atto da una pubblicità onnipresente, completano il quadro. La scomparsa o il ridimensionamento dei cosiddetti corpi intermedi come i sindacati e i partiti, rende praticamente inutilizzabile il termine classe, e quindi non ha più senso parlare di “lotta di classe”, anche se i ricchi ovviamente continuano a farla; ma si sa che quando i ricchi si fanno i fatti propri è per il bene di tutti; e se qualche povero si facesse venire dubbi a riguardo, vorrebbe dire che è afflitto da precise patologie, come il morbo dell’invidia sociale, oppure la paranoia complottista. I moralisti temevano che il consumismo facesse precipitare la società in un edonismo sregolato; invece ora scoprono con soddisfazione che è conciliabilissimo con l’etica punitiva del razionamento e dell’apartheid sanitario. Il problema è che la vituperata identità di classe a qualcosina serviva; quantomeno a farti intendere che coloro che stanno al vertice della gerarchia sociale coltivano la disuguaglianza come un valore irrinunciabile, come un invalicabile confine antropologico, per cui considerano i sottoposti meno degli insetti.
Prolifera e viene invece incoraggiato l’associazionismo “non divisivo”, e che non mette in discussione il dominio: possessori di auto d’epoca, proprietari di boa constrictor, produttori del tortello maremmano o della cipolla di Tropea. Tutti hanno il diritto di associarsi e difendere i loro diritti di consumatori, ma non di contestare le gerarchie sociali. Finalmente la class action è riuscita a sostituire la lotta di classe, configurando un idillio interclassista che sovrintende ad una folla di istanze ed aspirazioni diverse ma non contrapposte.
Finché si trattasse soltanto di contrabbandare la fiaba dell’idillio interclassista, ciò rientrerebbe nella fisiologica presa per i fondelli che ogni potere deve mettere in atto. Il problema è che la coppia semantica “famiglie e imprese” ufficializza e cronicizza lo stato di bisogno permanente nel sistema emergenzialista, per cui il “governo papà” starebbe sempre lì soccorrevole verso una società prostrata e mendicizzata, accattonizzata. Il bistrattato “assistenzialismo” diventa così un dato di natura, per cui si tratterebbe solo di meritarselo facendo i bravi bambini. Ai ricchi l’assistenzialismo e l’accattonaggio spettano di diritto, mentre più sei povero, più forche caudine devi superare.
I governi, con le lobby che li animano, combinano i loro casini come pseudo-pandemie, lockdown, aggancio dei prezzi delle materie ai titoli derivati, eccetera; si tratta di quegli stessi governi che poi sarebbero deputati a salvarci e ad indicarci la via del riscatto, con i loro mirabolanti “Decreti Aiuti” (altra coppia semantica fortunata e probabilmente in via di consolidamento), imponendo alle vittime di affidarsi ai loro carnefici. Qualcuno parlerebbe impropriamente a riguardo di “Sindrome di Stoccolma”; ma questa espressione si riferisce ad un episodio del 1973, nel quale due sbandati presero in ostaggio degli impiegati di una banca. La compassione di quegli impiegati nei confronti della tragedia umana di chi li stava sequestrando, semmai fa loro onore. Al contrario, affidarsi a chi ha fatto del sadismo un programma politico, appare meno ragionevole.
 
Di comidad (del 13/10/2022 @ 00:20:30, in Commentario 2022, linkato 6493 volte)
Michel Foucault oggi non avrebbe nessuna difficoltà a spiegare che il potere non va affrontato con concetti antidiluviani come la sovranità o la legittimità, bensì analizzandolo in base alla rete dei cosiddetti “saperi” che regolano la società. Anzi, forse lo stesso Foucault sarebbe sconcertato dai toni troppo vistosi, di auto-parodia, che il fenomeno ha assunto. Ad esempio in Italia una Presidentessa del Consiglio in pectore prende a calci i propri collaboratori ed alleati, per andare a caccia di “competenti”, di “tecnici di alto profilo” da nominare ministri nel suo governo. Andando poi a vedere in cosa effettivamente consiste il crisma dei detentori di “saperi”, ci si accorge che si tratta di conflitti di interesse: sei “competente” perché hai le mani in pasta sia nel pubblico, sia nel privato. I “saperi” sono l’ideologia, la falsa coscienza, ma anche la mappa, di questo intreccio di interessi e di porte girevoli tra potere accademico, potere politico e potere finanziario. Insomma, la parola “tecnico” si traduce in linguaggio concreto come “lobbista”.
Certo, la Meloni è soggetta alla “democrazia del preside”, come i rappresentanti degli studenti nei Consigli di Istituto. Lo scrittore Kurt Vonnegut fu il primo a notare che la democrazia scolastica mostra risvolti inquietanti in grado di illustrarci i meccanismi della  democrazia tout court. Vediamo così il “preside” Mattarella che protegge la Meloni ed incarica il “vicepreside” (Bruno Vespa) di accreditarla e darle importanza davanti agli studenti/elettori. Ecco perciò una Meloni allevata dai potenti che, al tempo stesso, euforizza le masse con i suoi toni da esaltata. Ma, volendo essere realistici, siamo certi che un governo tutto politico cambierebbe qualcosa?
Il ruolo della politica dovrebbe essere quello di scongiurare le emergenze, evitando anzitutto di alimentarle e ponendo invece le basi di un riequilibrio sociale ed istituzionale. In termini pratici oggi ciò significherebbe non imporre razionamenti e nazionalizzare nuovamente l’ENI e l’ENEL. Le scelte da assumere non sono difficili da capire, anche se sarebbero difficilissime da attuare. Già si rischiano scie di cadaveri poiché si approssimano le nomine dei CEO e dei presidenti delle aziende a partecipazione statale, come ENI; ENEL e Finmeccanica/Leonardo; figuriamoci cosa potrebbe accadere se si ventilasse un’ipotesi di nazionalizzazione. D’altra parte ormai i rischi sono ovunque e lo stesso razionamento potrebbe rivelarsi un’avventura senza ritorno persino per chi se lo augura per specularci. Il problema è che negli anni scorsi abbiamo visto politici come Conte o Speranza assumere il ruolo di lobbisti, magari improvvisati e “amatoriali”, ma molto più attivi ed entusiasti dei lobbisti di mestiere. Nell’epoca della lobbycrazia predatoria (o cleptocrazia lobbistica) la politica non è un luogo decisionale autonomo, bensì una sponda ed un acceleratore del lobbying, ed in questa opera di rilancio e rimbalzo si dimostra persino più creativa e zelante dei lobbisti col regolare pedigree della carriera nel Fondo Monetario Internazionale.

Il punto è che il lobbying non è un’attività distinta e separata, il lobbying siamo noi, siamo lobbisti in quanto “occidentali”, per noi fare lobbying è come respirare, non ce ne rendiamo più nemmeno conto. Cos’è il Sacro Occidente? È una fabbrica di pericoli che ci minacciano, di dittatori che vogliono distruggerci, di catastrofi che incombono, cioè una macchina emergenziale, un grande “war business” basato su guerre reali o metaforiche, come la guerra ai virus. Dire che sei “occidentale” è come dire che sei un drogato di emergenza. Il mondo oscuro e mostruoso che alligna al di fuori del Sacro Occidente, è il luogo dove si generano le minacce. Ma anche all’interno del Sacro Occidente possono aprirsi oscure voragini da cui emergono mostruose creature come i no-vax o i tassisti. Invariabilmente però le minacce veicolano affari e gonfiano titoli in Borsa. Magari ci arriva su WhatsApp un video che narra della tale emergenza o della nefandezza di questo o quel regime, e subito lo rilanciamo; crediamo che il nostro sia impegno civile, mentre in effetti stiamo facendo lobbying anche noi. Federico Rampini ammonisce gli “occidentali” di non farsi venire sensi di colpa, ma in effetti qui non si tratta di sentirsi colpevoli, semmai di sentirsi presi per i fondelli da lobbisti che ti derubano e, al tempo stesso, ti fanno lavorare gratis per loro.
Lo status di “occidentali” ci fornisce però il privilegio di un piedistallo morale dall’alto del quale giudicare gli altri, ed anche questa è una droga a cui sarebbe arduo rinunciare. C’è poi l’imbecille professionista che cerca di ricondurre il miscredente al politicamente corretto, ed è pronto ad ammonirci di non essere indulgenti con i nemici del Sacro Occidente, di non cadere nella tentazione di considerare il nemico del mio nemico come nostro amico. Si tratta di capire però se questi nemici esistono davvero, cioè se la paranoia occidentalista abbia un riscontro oppure sia del tutto strumentale. Dove sarebbero infatti queste sfide ideologiche ed alternative di sistema nei confronti del Sacro Occidente?

Anche nei Paesi più oscurantisti splende infatti il lume del business, e questo lume è tenuto acceso dal Sacro Occidente. Tra gli azionisti della multinazionale russa Gazprom ci sono non soltanto i soliti Blackrock e Vanguard Group, ma anche il fondo di investimento del governo norvegese, Norges Bank. La Norvegia è il Paese che ha espresso l’attuale segretario della NATO Stoltenberg, quello che, secondo il generale Tricarico, straparla e butta benzina sul fuoco senza che ci siano state consultazioni o decisioni comuni tra gli “alleati”. La Norvegia è il Paese europeo che oggi trae i maggiori vantaggi dalla crisi del gas, ma non ha mai cessato di trarre profitti anche dai rapporti con la Russia, persino nel periodo dell’inasprimento delle sanzioni dal 2014 in poi.
Un altro “nemico” che è fatto oggetto di ossessiva narrativa mediatica è l’Iran. Ma davvero è un progresso credere ad Enrico Mentana invece che a Maometto? Potremmo pensare che gli eventi narrati ed i relativi tafferugli siano autentici, se davvero l’Iran fosse questo regime puro, duro e tradizionalista che ci viene presentato. Le “rivoluzioni arancioni” sono fabbricate dalle ONG, ed altre ONG dei diritti umani si fanno carico della narrativa a riguardo; ma l’Iran continua ad essere un paradiso di queste organizzazioni, che sono un notevole veicolo del traffico internazionale di capitali. ONG e fondazioni non profit sono un modo per fare business all’ombra degli ideali e, dovunque si insediano creano una rete di interessi; inoltre reclutano manovalanza e quindi creano dipendenza economica in settori poveri della popolazione. Secondo uno studio (peraltro dai toni entusiastici e promozionali) elaborato dall’Università di Teheran la crisi del Covid è stata affrontata attraverso la collaborazione del governo con le ONG. C’è persino tutta una “sinergia” tra ONG iraniane e straniere. Insomma, anche se i vaccini sono stati pochi in Iran, i business legati al Covid non sono mancati.
Le ONG occidentali sono presenti in Iran da decenni. Già all’inizio degli anni 2000 se ne calcolavano novantadue soltanto tra quelle del Regno Unito, un Paese che ufficialmente è uno dei più ostili all’Iran. In altri termini, il Sacro Occidente può permettersi di essere così aggressivo proprio perché non deve temere sfide ideologiche e modelli alternativi al sistema lobbistico/cleptocratico.
 
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


05/12/2024 @ 08:25:14
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