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"Le decisioni del Congresso Generale saranno obbligatorie solo per le federazioni che le accettano."

Congresso Antiautoritario Internazionale di Ginevra, 1873
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.

Di comidad (del 11/05/2023 @ 00:11:35, in Commentario 2023, linkato 7921 volte)
Secondo la narrativa ufficiale, la “democrazia” ammette il dissenso, purché non ricorra alla violenza; sennonché c’è il trucco, poiché ogni dissenziente sarà sempre considerato un violento, almeno potenziale. Nel mondo dell’idillio democratico c’è una categoria di lavoratori che è particolarmente oggetto di violenza. Gli insegnanti infatti subiscono quotidianamente ogni sorta di aggressione, che può consistere in sputi, spintoni, schiaffi, pugni, calci, testate, lanci di oggetti. Spesso le aggressioni sono di gruppo e vengono commesse da studenti o dai loro genitori, che agiscono quasi sempre con la connivenza, o addirittura con l’istigazione, da parte dei cosiddetti dirigenti scolastici, i quali sperano che eventuali reazioni scomposte ed esasperate da parte dei propri dipendenti consentano di metterli in procedura di licenziamento. La “aziendalizzazione” della Scuola richiede infatti il rituale sacrificale del licenziamento per potersi sostanziare; anche le “capacità manageriali” dei dirigenti vengono valutate in base al numero di dipendenti che riescono a mettere in procedura di licenziamento. Non va trascurato l’aspetto “educativo” del far partecipare gli studenti alla caccia all’insegnante da licenziare, poiché si crea in loro l’imprinting di trattare il posto di lavoro come un’alea e come una concessione, ed anche di considerarsi la milizia di una guerra civile contro i non conformi. Secondo l’aurea regola per la quale al danno deve aggiungersi sempre la beffa, proprio in questi giorni alla Commissione Cultura del Senato si sta decidendo di istituire un Osservatorio sulla violenza nei confronti del personale scolastico; per cui ipocritamente si ammette l’esistenza di un fenomeno ormai macroscopico, facendo però finta di ignorare che esso è un effetto inevitabile degli attuali meccanismi di management scolastico. L’aspetto più beffardo di questa iniziativa dell’Osservatorio sta nel fatto che prevede anche corsi di formazione, perciò ne risulterà un aggravio di orario per il personale scolastico e la solita distribuzione di appalti ad aziende private che si occupano di formazione.
Nella loro grande maggioranza gli insegnanti subiscono le violenze tacendone spudoratamente, e talora dissimulandone i danni fisici; se non fosse stato per l’esibizionismo degli studenti che hanno cominciato a rilanciare sui social i video delle loro imprese, il fenomeno sarebbe rimasto sommerso. Denunciare infatti è sempre un atto molto rischioso, in quanto espone ad ogni genere di calunnia, che diventa credibile per il fatto stesso di essere stati aggrediti. “Se ti hanno aggredito, qualcosa hai fatto”, un mantra che è un articolo di fede non solo per i dirigenti ma anche per poliziotti e magistrati; un mantra che è condiviso soprattutto dalla gran parte dell’opinione pubblica, la quale, quando filtrano le notizie di certi episodi, le accoglie con un maligno compiacimento. L’unico effetto che può derivare dal denunciare le violenze subite è perciò di diventare bersaglio di controdenunce ed anche di procedure disciplinari che il dirigente scolastico presenta, ovviamente, come “atto dovuto”. Capita persino che si lascino privi di assistenza i docenti feriti o doloranti; eppure l’omissione di soccorso è un reato grave e, nel caso dei dirigenti scolastici, ci sarebbe anche l’aggravante del fatto che sono considerati datori di lavoro.
Altre volte accade di peggio, poiché non pochi insegnanti pensano, o si illudono, di sopravvivere e di esorcizzare la paura facendosi a loro volta complici della violenza, cercando di indirizzare il bullismo verso i colleghi o anche verso gli studenti più deboli, in modo da esserne personalmente risparmiati. Le stesse bocciature sono per lo più un’occasione di sfogo della frustrazione invece che di vera valutazione, infatti vanno a colpire quasi esclusivamente gli studenti più miti e con genitori meno aggressivi. La sorte degli insegnanti dimostra che il ruolo di vittima, quando è effettivo e autentico, non comporta affatto riceverne compassione, solidarietà o un alone di nobiltà ed eroismo; semmai il contrario, cioè ne deriva un crescendo di isolamento morale, di umiliazione, di smarrimento della dignità personale, di avvilimento e degradazione, per cui ci si riduce in modo tale da non suscitare più nessuna empatia. Insomma, le vere vittime non indossano l’aureola, semmai emanano vibrazioni negative e vapori pestilenziali.

Il ruolo di vittima diviene invece redditizio, gratificante ed esaltante, addirittura glorioso, quando può essere interpretato dai potenti. Ogni volta che accade qualcosa di simile ad un attentato o ad un semplice gesto di intemperanza, i media lo enfatizzano al massimo e si scatenano in prediche contro la violenza cieca e bestiale che si indirizzerebbe contro chi cerca di realizzare il bene con lucidità e razionalità. Nel caso della mini-aggressione ricevuta dall’ex Presidente del Consiglio e leader 5 Stelle, Giuseppe Conte, c’è stata però una piccola variante al copione. Il profitto del vittimismo in questa circostanza è stato infatti interamente “sussunto”, risucchiato, dall’establishment, mentre al povero Conte non è stato lasciato quasi nulla da piluccare; anzi, come se fosse un insegnante, lo si è chiamato ad una sorta di concorso di colpa per l’aggressione ricevuta, dicendo un “ben ti sta” a chi ha voluto cavalcare e coltivare populisticamente ogni protesta ed ogni rancore contro l’establishment. Il presunto aggressore sarebbe infatti un no-vax ed un no-Zelensky, quindi il top dell’ignominia. Anche se come avversario dell’establishment Conte non è per niente credibile, in quanto si limita a stare alla pantomima, i giornalisti mainstream perdono ugualmente la misura, finendo per autosuggestionarsi e trattare i finti oppositori come se fossero realmente tali.
Ciò non toglie che qualche piccola riflessione utile anche al nostro Conte si potrebbe ricavarla da quanto gli è successo; e cioè notare come in certe vicende, apparentemente diverse, ricorra il cosiddetto “schema”, cioè un paradigma ripetitivo. Nel periodo psicopandemico, venivano bollati come “negazionisti” coloro che non negavano affatto l’esistenza della polmonite; semmai mettevano in evidenza che l’eccezionalità dell’evento consisteva nel modo in cui esso veniva trattato, cioè delegittimando e criminalizzando tutti i protocolli terapeutici adottati nei decenni precedenti. Anche nelle micidiali epidemie di influenza del 2015 e del 2017, tanti vecchietti si erano messi a tossire ed ansimare, ma erano stati, come al solito, imbottiti di antibiotici e cortisone dal medico di base, e non portati in ospedale per bruciargli i polmoni con la ventilazione forzata. Si imponevano quarantene di massa, nelle quali non venivano isolati i malati, come si faceva prima, bensì i sani. Queste ovvie osservazioni non venivano avanzate soltanto dai fessi qualsiasi, che si basavano solo sull’esperienza fatta con le vecchie zie ed i nonnetti, ma anche da illustri luminari della medicina e della ricerca. Sennonché, coloro che erano stati onorati come luminari sino a poco prima, venivano invece ridicolizzati, insultati, intimiditi, minacciati non appena ponessero dubbi su quella inedita gestione pandemica. La salvezza definitiva veniva arbitrariamente demandata all’attesa di oggetti mitici, i “vaccini”, i quali, ancora una volta, assumevano tale denominazione distaccandosi dalle precedenti procedure, tanto che saltavano i protocolli di sicurezza e venivano non solo messi in commercio, ma addirittura imposti, con autorizzazioni provvisorie. Ciò senza preoccuparsi del fatto che i vaccini costano, e costano anche i milioni di siringhe necessarie per inocularli; e inoltre i vaccini sono effimeri; però per essere acquistati comportano tagli su tutte quelle che sono le strutture sanitarie durevoli.

Anche nell’attuale vicenda bellica, l’eccezionalità non consiste nella guerra in sé (una delle tante dispute di confine verificatesi nella Storia), ma nel modo in cui viene affrontata. Ad esempio, non si può avviare una trattativa neppure per una tregua se l’invasore prima non se ne va. Ci si dice che non si tratta mentre si spara; ma prima si trattava per vedere anche come solo smettere di sparare, poi dopo si vedeva. A chi chiede un impegno per porre fine alla guerra, si risponde di dirlo a Putin. Che prima gli aggressori se ne vadano, poi dopo, se proprio non abbiamo nient’altro di meglio da fare, forse avviamo una trattativa. Udiamo capi della diplomazia proclamare che non è tempo di diplomazia. E allora che li pagano a fare? Nella propaganda i Russi sono i cattivi, e va bene; ma gli Ucraini non sono soltanto i buoni, sono inesauribili e vinceranno inesorabilmente, magari nelle prossime reincarnazioni.
Dopo i vaccini arrivano altri oggetti feticistici: le “armi”, entità magiche che sembrano dotate di poteri propri, che possono vivere in eterno, che vincono la guerra sparando da sole, come se non avessero un costo, non avessero bisogno di istruzione per essere usate, di manutenzione per funzionare, di munizionamento per sparare, quindi come se non richiedessero capacità produttive a lungo, lunghissimo, termine. E in quali stabilimenti? E con quali materie prime? Se cresce indefinitamente la spesa per gli armamenti, quali altre spese dovranno essere sacrificate? A chiunque cerchi di porre domande concrete, si oppone il solito repertorio sperimentato in epoca psicopandemica: insulti, ridicolizzazioni, intimidazioni, minacce.
Lo schema prevede un’emergenza inedita e inusitata ed un prodotto salvifico che la può contrastare; risulta quindi facilmente riconoscibile che si tratta di un paradigma pubblicitario, nel quale però la merce pubblicizzata non affronta i rischi e le incertezze dei meccanismi della domanda e dell’offerta ma, come una sanguisuga, trova il modo d’applicarsi ad un flusso di denaro pubblico. Le care vecchie categorie ottocentesche di politica ed economia quindi non funzionano più, dato che si tratta di lobbying. Anche la concezione dell’imperialismo che molti pacifisti stanno esibendo in questo periodo appare segnata da luoghi comuni ottocenteschi, per cui sembra che la povera Europa sia succuba della protervia statunitense che le impone i suoi interessi. In realtà due giorni prima dell’invasione russa dell’Ucraina, il Cancelliere tedesco Scholtz aveva chiuso il gasdotto North Stream come sanzione alla decisione russa di riconoscere le repubbliche indipendentiste del Donbass: Il gesto di Scholtz faceva saltare l’equilibrio dei poteri in Russia tra Gazprom e l’esercito, a favore di quest’ultimo.
L’entusiasmo dimostrato in quell’occasione dal governo tedesco nel rinunciare al gas russo, non ha alcun senso politico o economico; è invece perfettamente compatibile con un’operazione di lobbying a favore della cosiddetta transizione ecologica, che corrisponde esclusivamente alla logica delle bolle finanziarie in Borsa gonfiate dal denaro pubblico. La lobby è una mera macchina d’affari ed ha un orizzonte ristrettissimo, perciò non si pone alcun problema di equilibrio economico o di mediazione politica, ma punta solo al tornaconto immediato. Nell’attuale governo tedesco i principali ministeri (Economia ed Esteri) sono affidati ad esponenti del partito dei Verdi, i quali hanno abbandonato la concezione ambientalistica che li caratterizzava quarant’anni fa, per concentrarsi esclusivamente sulla guerra alle emissioni di CO2. Gli attuali Verdi quindi non sono un partito ma una lobby d’affari che usa slogan idealistici a scopo pubblicitario, alla maniera dei Neocon statunitensi. Del resto un lobbying palese non potrebbe essere efficace; è come la pubblicità: più è occulta e più funziona. Secondo una ricerca pubblicata dal quotidiano “The Guardian”, il partito dei Verdi è quello che ha ricevuto più finanziamenti elettorali da parte di privati, superando così il partito della Merkel per disponibilità di fondi. Il principale finanziatore dei Verdi tedeschi è un filantro-capitalista olandese, che esprime così il suo “amore per l’umanità”, ovvero il suo lobbying camuffato.
 
Di comidad (del 18/05/2023 @ 00:37:09, in Commentario 2023, linkato 7964 volte)
Neppure i media mainstream sono del tutto impermeabili al filtraggio di notizie scomode, perciò il “debunking”, la demolizione delle cosiddette “fake news”, finisce per colpire persino informazioni diffuse dagli organi di stampa che fanno da riferimento al cosiddetto mainstream.
Stavolta è toccato al quotidiano “la Repubblica”, che aveva dato conto della riottosità delle autorità francesi nell’attuare la parte loro spettante per realizzare la Tratta ad Alta Velocità tra Torino e Lione; che, come è noto, prevede un devastante traforo in Val di Susa. Il debunking operato dal solito sito “Open” in realtà non demolisce un bel nulla, in quanto non può bastare una mezza dichiarazione rassicurante da parte di una ministra francese per concludere che la notizia sia esagerata o inattendibile. Non soltanto si dà la possibilità che queste mezze smentite siano state sollecitate dai nostri politici, ma c’è anche da considerare quella prassi comunicativa di lasciar intendere che ci si sta ritirando da un’iniziativa senza però esplicitarlo troppo, in modo da stemperare le eventuali reazioni. Insomma, i soliti “poi vediamo” o “mi faccio sentire io”, che sottintendono un no. Del resto siamo il Paese dello “stai sereno” che annuncia la fregatura, perciò dovremmo essere un po’ scaltriti riguardo alla retorica delle rassicurazioni.
La cosa strana però è che esattamente un anno fa un altro quotidiano aveva dato una notizia analoga: si tratta del “Foglio”, che è un giornale senza lettori e che vive esclusivamente di fondi governativi, ma ha ugualmente un ruolo nel dettare la linea al mainstream. Secondo il “Foglio”, il sindaco di Lione s’era fatto infettare dal virus “no-TAV” e cominciava a porsi dei dubbi sull’utilità di completare il buco. Il redattore forniva la notizia corredandola col massimo dell’indignazione nei confronti del gallico fedifrago, commentando amaramente che le improvvide dichiarazioni del sindaco di Lione venivano proprio nel momento in cui il Demiurgo Draghi aveva finalmente rimesso ordine nel caos e consentito all’opera di ripartire. Anche un anno fa, dopo il primo scoop, la notizia del ritiro francese era stata ridimensionata sino a svanire man mano nell’oblio.
Sennonché trafficando un po’ su internet si scopre che le prime notizie sulla perdita di entusiasmo da parte della Francia nei confronti del buco risalgono a undici anni fa, addirittura al 2012. Ancora una volta la fonte della notizia non era il movimento “no-TAV”, bensì organi d’informazione considerati attendibili ed integrati col mainstream, come il quotidiano online il “Post”. Del resto chi non fosse proprio un ingenuo, doveva aver già compreso che il consenso francese all’affare era stato offerto a condizione che il costo dell’opera fosse interamente a carico dell’Italia e dell’Unione Europea, e questo secondo pagatore stava venendo meno.

L’alta velocità è una tecnologia di origine soprattutto francese, perciò è abbastanza ovvio che la multinazionale bancaria BNP Paribas ne sia stata la maggiore promotrice in Italia. Mentre le autorità francesi cominciavano la loro ritirata strategica dall’affare TAV, BNP Paribas continuava a sbolognare con successo l’alta velocità all’acquirente italico, il quale è aduso a certe retoriche di progresso tecnologico senza far caso alle differenze geografiche; per cui una tecnologia che può risultare conveniente in un contesto pianeggiante, comporta invece costi insostenibili allorché occorre sventrare montagne ad ogni piè sospinto; dato che in Italia non ci sono soltanto le Alpi, ma purtroppo anche gli Appennini. D’altra parte se si tenesse sempre conto del rapporto tra costi e benefici, il 99% degli affari andrebbe a farsi benedire. Al buco in Val di Susa corrisponde una voragine nella spesa pubblica, ed è proprio nella voragine che vogliono attingere le lobby d’affari. Economia e affari sono cose diverse e spesso divergenti, ma questo è un dato di fatto che il mainstream si guarda bene dal rendere accessibile all’opinione pubblica.
Nel 2012 già risultava troppo dubbia non soltanto l’utilità del buco in Val di Susa ma persino la sua realizzabilità, perciò, in base a valutazioni economiche, ci si sarebbe dovuti ritirare a propria volta da un affare troppo gravido di incognite. Si aggiungevano altri sospetti, basati su vari precedenti, tra cui quello della nuova autostrada “Brebemi” (Brescia-Bergamo-Milano), i cui cantieri sono diventati depositi di rifiuti tossici. Nonostante varie evidenze, il nesso tra opere pubbliche e rifiuti tossici è un filone giudiziario che non riscuote grande interesse; forse perché i rifiuti tossici sono una cosa oggettiva e precisa, quindi non lasciano spazio alla creatività giudiziaria.

Fortunatamente è arrivata in soccorso del buco in Val di Susa la grande risorsa ideologica degli affari, cioè la caccia ai “violenti”. Uno storico idolo dei forcaioli è Giancarlo Caselli, mitico magistrato antiterrorismo e antimafia, che nel 2012 era il Procuratore della Repubblica di Torino. Caselli definì il movimento no-TAV come un “laboratorio della violenza”. Cosa possano aver fatto i no-TAV per meritarsi un simile epiteto non è affatto chiaro, mentre è evidente l’effetto pubblicitario dello slogan, per il quale opporsi al buco diviene una manifestazione di primitiva e furiosa barbarie. Come al solito la dichiarazione venne stemperata dagli estimatori di Caselli, il quale non avrebbe voluto dire che proprio tutti i no-TAV sono dei violenti. Lo slogan però prevale sulle precisazioni, per cui, ad esempio, della pubblicità di un farmaco ti rimangono impressi i suoi presunti effetti mirabolanti e non il “può avere effetti collaterali, leggere attentamente le avvertenze”. Insomma, in democrazia dissentire è lecito finché rimane un’ipotesi del tutto astratta, ma in concreto chi dissente è sempre considerato un violento e un terrorista; tanto se il tafferuglista non c’è, ce lo si può sempre infiltrare. Gli affari potranno sempre rivendicare una superiorità morale e civile nei confronti di chi si oppone ad essi.
Il termine inglese “establishment” può essere reso adeguatamente, e concretamente, in lingua italiana con la locuzione “sistema degli affari”, perché il potere si sostanzia negli affari. Comunque lo si chiami, esso non può reggersi senza la collaborazione del potere giudiziario, a cui spetta di criminalizzare l’opposizione scoprendo ogni volta i suoi risvolti loschi, i suoi legami più o meno diretti con la violenza ed il terrorismo. Secondo la concezione costituzionalista, esisterebbero tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) che, in astratto, si dovrebbero tenere separati. Da alcuni decenni però si è andati ben oltre la vecchia fiaba della separazione e bilanciamento dei poteri; infatti è passata un’altra narrativa che ha spacciato la magistratura come un qualcosa di estraneo al potere, una specie di anti-potere, di anti-establishment. Si tratta del mito della magistratura vendicatrice degli oppressi, che ci fu propinato con successo all’epoca di Mani Pulite. Secondo l’inghippo logico caro ai forcaioli, la facoltà di mettere in carcere le persone non è un potere, anzi, sarebbe un modo di combattere il potere. Peccato che questa narrativa sia soltanto lo psicodramma allestito dal vittimismo dei potenti, complemento ideologico alla loro pratica impunità. Matteo Renzi è un noto esperto in fatto di impunità e vittimismo, e adesso ha pensato di andare a dirigere un giornale per raccontarci quotidianamente come viene perseguitato dai PM. Nelle carceri italiane ci sono circa cinquantamila detenuti, tra i quali, in base alla narrativa vittimistica dei potenti, dovrebbero esserci quasi tutti i CEO delle principali multinazionali.
Giancarlo Caselli è rimasto uno zelota pro-TAV persino da pensionato, come risulta da una sua apparizione televisiva del 2019. Anche senza risvolti dietrologici o processi alle intenzioni, risulta abbastanza sconcertante la passione da lui manifestata nel cercare di dimostrare che l’opposizione al buco in Val di Susa sia dettata soltanto da irrazionalismo e da “tabù”. Non potendo più incarcerare i no-TAV, Caselli si è dovuto limitare a psichiatrizzarli.
 
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


01/05/2024 @ 15:07:49
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