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""Napoli" è una di quelle parole chiave della comunicazione, in grado di attivare nel pubblico un'attenzione talmente malevola da congedare ogni senso critico, per cui tutto risulta credibile."

Comidad
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.

Di comidad (del 29/11/2020 @ 00:41:52, in Manuale del piccolo colonialista, linkato 7325 volte)
Quando il 20 ottobre del 2019, il presidente uscente della Bolivia, vinceva con il 47.08 % dei voti contro il 36.51% del suo antagonista Carlos Mesa, l’Organizzazione degli Stati americani (OSA), braccio armato degli USA nella regione - e che Morales considerava come il “Ministero delle colonie” - , esprimeva preoccupazione perché alcune “irregolarità” avrebbero dimostrato che il governo aveva orchestrato dei brogli elettorali su vasta scala. In realtà, nei conteggi preliminari il rapporto era del 45,07% per Morales contro il 37,8% di Mesa, candidato della destra; un risultato che avrebbe portato, secondo la legge elettorale boliviana, al secondo turno. Ma l’avanzata di Morales nei risultati finali non ha niente di straordinario, visto l’arrivo in ritardo delle schede provenienti dall’Altiplano, e diversi studi dimostravano che non c’erano state irregolarità. Eppure l’OSA [un’organizzazione che dietro il consueto paravento della difesa dei diritti umani, svolge una costante opera di destabilizzazione in Sudamerica] continuava a denunciare brogli, e a quel punto la stampa e i media internazionali si sono impegnati a sostenere quella tesi. La copertura mediatica offerta dai mezzi di informazione di obbedienza occidentalista è stata impressionante per uniformità comunicativa, soprattutto perché l’ordine implicito di Washington è stato accettato supinamente, nonostante l’evidenza clamorosa della vittoria di Morales.
France Inter ironizza : “La rielezione dell’apprendista caudillo Morales è un miracolo (23 ottobre);
Charlie Hebdo: “E’ evidente che il governo boliviano ha scelto di truccare i risultati” (30 ottobre);
Washington Post : “Il presidente boliviano ha deciso di falsificare i risultati(…) per ottenere una vittoria al primo turno” (11 nov.);
New York Times : Morales “… aveva fatto ricorso a menzogne, manipolazioni e falsificazioni per assicurarsi la vittoria” in delle elezioni “fraudolente”. (5 dic.)
Le Monde: partendo dalla convinzione che Morales stava avendo una deriva autoritaria e che i leader autoritari controllano le elezioni, la frase “Morales ha vinto le elezioni presidenziali” diventa “Morales si è autoproclamato presidente”. (14 nov.)

• Dietro la pressione delle provocazioni e della propaganda dell’OSA, scoppiano disordini e sollevazioni nel paese. Persino la principale confederazione sindacale boliviana (Cob) abbandona il presidente.
• I generali dell’esercito, con un imprevisto voltafaccia, si allineano intimando al presidente di fare un passo indietro.
• Jeanine Añez, senatrice di secondo piano, ed esponente della destra Pro-life si autoproclama presidente, senza quorum in parlamento.
• Morales lascia il paese…….

La narrazione mediatica francese è piuttosto omogenea. Da Le Monde a Mediapart, da France Info a Le Figaro la linea è la stessa: Morales si è dimesso dopo tre settimane di contestazioni, sotto la pressione della piazza e a causa di una insurrezione popolare; il rovesciamento del presidente è stato accolto nelle strade di La Paz da scene di giubilo, canti, lacrime di gioia…”
Si profila quindi un colpo di Stato o l’ennesima “ rivoluzione colorata”. Eppure qualcosa non torna, nel racconto della crisi in Bolivia: in realtà il paese andino viveva un piccolo “miracolo economico” con una aspettativa di vita passata in un ventennio da 56 a 71 anni, la povertà assoluta più che dimezzata (dal 35% al 15 %), una disoccupazione al 4% e una crescita del PIL al 4,1% (il migliore del Sudamerica) Molto è frutto di sussidi, creazione di reti idriche, elettriche, e l’adozione di un programma di assicurazione sanitaria universale.
Nella stampa internazionale, tutti concordano sul fatto che non si è trattato di un colpo di Stato, e allora che cos’era? E se Morales era un leader estremamente popolare, come spiegare questa deriva e i presunti brogli?
Observer (settimanale britannico di sinistra): “L’ex presidente è stato vittima del suo rifiuto di cedere le redini del potere (…) e il suo regno ha mostrato segni di un culto della personalità sgradevole, addirittura castrista.(17 nov.)
New York Times: “A far cadere Morales non è stata la sua ideologia o qualche tipo di interferenza estera, come ha sostenuto, ma la sua arroganza, caratteristica comune a ogni populismo (…) la pretesa di essere l’arbitro ultimo della volontà del popolo e di poter schiacciare qualsiasi istituzione voglia mettersi sul suo cammino” [11nov.)

Quando Morales annuncia dal suo esilio di volersi ricandidare alle successive elezioni presidenziali, Le Monde lo mette in guardia: “Sarebbe un altro errore. Se ha davvero a cuore l’interesse dei suoi concittadini, Morales farebbe meglio a ritirarsi, in modo tale che in Bolivia la violenza possa cessare e si possa seguire una via costituzionale. [11.nov.]
Intanto il nuovo governo boliviano decide di perseguire Morales per “terrorismo e sedizione”, un capo d’accusa perseguibile con 30 anni di reclusione e che impedisce la candidatura.
Il nuovo governo boliviano continua a ricevere riconoscimenti e, curiosamente, anche Putin si affretta a farlo. Per la maggior parte dei commentatori internazionali, la denuncia di Morales, di essere stato vittima di un golpe, appare inconsistente. Se un presidente che ha vinto con un importante scarto di voti sul suo avversario, viene poi costretto a lasciare dall’esercito, non sembrano esserci gli elementi di un colpo di Stato …
Il sociologo Hugo Suarez, intervistato, alla domanda: “Jeanine Añez è legittima?”[1] risponde “Sì, sì, sì” E l’esercito? “E’evidente che si tratta di un esercito costituzionale”
Anche l’estrema sinistra altermondialista sbanda tra chi sostiene la tesi del golpe, chi si trincera dietro un “il problema è più complesso”, e chi avversa apertamente quella tesi. La rivista altermondialista ATTAC pubblica una Lettera aperta al movimento altermondialista, redatta da Pablo Solon, ex ambasciatore boliviano all’ONU: “Il presidente Evo Morales ha dichiarato (…) che in Bolivia è in atto un colpo di Stato. Mi dispiace molto dovervi dire che quest’affermazione di Evo Morales è completamente falsa.”
Per avere un’idea, anche solo approssimativa, di cosa potrebbe significare un avvento permanente di un governo che rispetti i diritti umani delle multinazionali, basti ricordare che in meno di un anno al potere, il governo di Jeanine Añez , tra l’altro, ha favorito apertamente gli interessi dell’agrobusiness, liberalizzando le importazioni/esportazioni di prodotti agroindustriali a partire dal 2020 // incoraggiato la deforestazione // autorizzato l’ingresso degli organismi transgenici nel paese //autorizzato l’aumento dei tassi di interesse bancari // ridotto l’aliquota fiscale per le grandi imprese // a causa della pandemia, ha offerto nuovi terreni al settore agro esportatore // ha raccolto 600 milioni di dollari da fondi pubblici per pagare i debiti della grandi aziende private // La campagna di privatizzazioni delle imprese pubbliche (compagnie telefoniche ed elettriche) ha incontrato resistenze importanti // In compenso, nel giro di pochi mesi, la spesa statale boliviana per le importazioni di armi per equipaggiare la polizia è aumentata di 18 volte rispetto al 2019.

Inversione di rotta

A giugno 2020, cambia tutto. Il 7 giugno, il NYT svela le conclusioni di un nuovo studio che demistifica i risultati del rapporto OSA. Rivedendo i calcoli statistici dell’organizzazione, i ricercatori hanno riscontrato diversi “problemi ed errori metodologici.” L’OSA “avrebbe utilizzato un metodo statistico inadatto che ha dato l’illusione di una rottura del trend dei voti” . Il New York Times è costretto ad ammettere che il rapporto OSA era “sbagliato”. In altre parole, la Bolivia ha subito un’interruzione dell’ordine costituzionale appoggiata dall’esercito: un colpo di Stato.
Ma Le Monde insiste: il NYT non fa che “rilanciare il dibattito sui presunti brogli”. Libération giudica l’analisi dei nuovi studi troppo complessa, mentre aveva condiviso le conclusioni del rapporto OSA senza troppe difficoltà.
Le Figaro, Libération e Le Monde utilizzano lo stesso tipo di argomentazione : “Non si è trattato di un colpo di Stato, ma di un vuoto costituzionale”.
Le informazioni e le notizie di queste note sono tratte da un articolo di Le Monde diplomatique , ottobre 2020. L’articolo prende in esame la stampa francese e anglosassone, ma non sarebbe difficile trovare gli stessi orientamenti nei media degli altri paesi. Il titolo dell’articolo è “Bolivia, cronaca di un fiasco mediatico – la sconfitta di Evo Morales, una “fake news” su grande scala”. In realtà, oltre al fiasco mediatico, è molto probabile che si sia trattato di un fiasco politico militare per gli Stati Uniti e l’OSA.
Il 18 ottobre 2020, le elezioni con voto elettronico cancellano il colpo di Stato di novembre. Janine Añez, che si era autoproclamata Presidentessa provvisoria con il tacito consenso delle Forze Armate, ha messo da parte le sospette ma inevitabili lentezze della verifica ufficiale e manuale, riconoscendo pubblicamente la vittoria con il 53% dei suffragi, del candidato del Movimento per il Socialismo (MAS), Luis Arce, ex ministro dell’Economia del presidente costretto all’esilio, Evo Morales, vincitore simbolico della consultazione e destinato quanto prima a tornare un protagonista della politica nel paese andino.
E’ evidente che qualcosa non ha funzionato nella strategia dei golpisti. Non ha senso cacciare Morales dalla finestra per poi farlo rientrare dalla porta. Quel che è certo è che il blocco popolare formato dal MAS e da Morales si è rivelato molto più solido di quanto si credesse. Così come è chiaro che gli equilibri interni alle Forze Armate, non hanno consentito che si spingesse la situazione verso la guerra civile. Ma è evidente che qualcosa si è inceppato anche nella logica dei grandi interessi minerari della Bolivia, così come all’esterno, a Washington, tra l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) e il Dipartimento di Stato.

Brogli in USA

Se, nelle recenti elezioni americane, le accuse di brogli rivolte dal cialtrone Trump ai democratici sono state ritenute inconsistenti per la scarsa credibilità del personaggio, non bisogna dimenticare che in USA i brogli elettorali sono la regola. Il sistema elettorale, particolarmente farraginoso, dei grandi elettori e, più recentemente, il voto postale, rendono i brogli facilmente praticabili. Sia i democratici che i repubblicani hanno una lunga e consolidata tradizione di brogli elettorali. I casi più famosi e riconosciuti furono quelli di Lyndon Johnson e di Bush jr., ma anche le primarie che diedero il vantaggio a Hillary Clinton su Sanders rivelarono dei brogli clamorosi.
In realtà, la sostanziale inamovibilità del sistema gerarchico è confermata anche dagli schemi ricorrenti con cui vengono presentati e “creati” gli eventi elettorali.
Ecco cosa scrive la rivista statunitense Politico, in un articolo sugli “Ultimi pericolosi giorni di Donald Trump”:
Mentre le sue probabilità di vincere le presidenziali negli Stati Uniti si riducono, il candidato repubblicano accusa i democratici di preparare brogli e avvelena il clima politico. Nessuno sa come gestire la situazione che potrebbe crearsi dopo le elezioni presidenziali dell’8 novembre negli SU. Donald Trump sembra destinato a perdere e sembra intenzionato a non ammettere la sconfitta, e questo potrebbe scatenare una crisi di fiducia senza precedenti dei cittadini nei confronti delle istituzioni. Ora sia i repubblicani sia i democratici temono che dopo il voto le ferite causate dalla campagna elettorale possano diventare più profonde e durature. (…) temono che le sue parole [di Trump] possano far presa sui suoi sostenitori più fanatici, e che questo porti a comportamenti violenti contro i musulmani, i latinoamericani e altre minoranze che Trump ha attaccato in campagna elettorale.(…)
“Ci sarà una rivolta, sì. Siamo tutti stanchi del sistema” dicono i sostenitori di Trump nel New Jersey … dando per scontato che le elezioni saranno truccate. Il rifiuto di Trump di ammettere la sconfitta “rientra perfettamente nella sua strategia di sfruttare lo storico calo di fiducia degli elettori verso le istituzioni.
L’aspetto interessante di questo articolo, è la data. L’articolo è stato scritto nell’ottobre 2016, e riproduce non soltanto gli schemi e le linee comunicative di quanto abbiamo letto in occasione delle elezioni americane del 2020, ma persino le stesse frasi, gli stessi allarmi, le stesse espressioni di stupore, le stesse parole. Già i Padri Fondatori degli Stati Uniti, si erano premurati di creare un sistema elettorale che proteggesse l’oligarchia dominante da qualsiasi eventuale messa in discussione tramite elezioni. A questo si sono aggiunti nel tempo una serie di schermi burocratici ed escludenti tali da rendere il sistema praticamente inattaccabile per via elettorale. Parlare con sorpresa o indignazione di brogli in questo contesto è quasi surreale.
 
Di comidad (del 22/08/2021 @ 00:07:07, in Manuale del piccolo colonialista, linkato 17750 volte)
Quando la comunicazione dominante affronta questioni che riguardano paesi esterni al sacro Occidente, spesso finisce per utilizzare schemi che prediligono l’esotismo, l’orientalismo, il mistero, i barbarismi e altre fumosità inintelligibili.
Si va da Abubakar Shekau, leader di Boko Haram che leggeva il Corano mentre guidava la motocicletta, e nonostante le raccomandazioni della madre, a Gheddafi in fuga verso l’Africa profonda, braccato dalle potenze occidentali ma con un tesoro di lapislazzuli, lingotti d’oro e diamanti.
Così, per spiegare l’ascesa e l’affermazione di una entità come l’ISIS, la comunicazione mainstream ci dà una soluzione credibile: si finanziano con il contrabbando del petrolio. Come se delle formazioni armate in continuo movimento potessero avere il tempo e la capacità di ripristinare i pozzi petroliferi, di organizzare il trasporto e la vendita sottocosto (altrimenti che contrabbando è) del petrolio ad acquirenti degli stati contigui, teoricamente ostili, ricavarne denaro sufficiente e presentarsi sul mercato internazionale degli armamenti a fare shopping.
Si lascia poi a qualche noioso analista, o a qualche complottista, il compito di spiegare che le varie fazioni islamiste sarebbero state ben poca cosa senza il sostegno delle scuole coraniche come canale di finanziamento da parte dell’Arabia Saudita (con la supervisione USA); che l’eliminazione di Gheddafi era dettata da interessi geopolitici più sostanziosi dei suoi lapislazzuli; che l’ISIS non sarebbe mai esistito senza i soldi delle petromonarchie e senza un nocciolo duro costituito dalla guardia repubblicana sunnita di Saddam. Gli attacchi e gli attentati dei sunniti contro gli sciiti in Iraq sono stati utilissimi per gli USA, che avevano bisogno di destabilizzare l’intera regione, visto che il governo iracheno a maggioranza sciita avrebbe potuto stringere un’alleanza con l’Iran o con la Siria.
Non è ancora chiaro in quale tipo di strategia debba essere inquadrata la ritirata della coalizione a guida USA dall’Afghanistan. L’immagine dell’elicottero che porta via il personale americano a Kabul evoca senz’altro quella famosa di Saigon; ma in quel caso si trattò di una vera sconfitta sul campo da parte di un esercito ben equipaggiato e addestrato. Una situazione non paragonabile a quella di formazioni armate con un livello di tecnologia militare equivalente a zero, come nel caso dei talebani.

D’altro canto è inevitabile pensare a un bilancio. Se gli Stati Uniti, con la solita faccia di bronzo, parlano di missione compiuta, bisogna comunque ricordare che la missione è costata 2300 miliardi di dollari agli USA; che le vittime afgane sono state 160mila e quelle della coalizione 3600; che dopo decenni di addestramento, le forze armate afgane create dall’occidente, si sono liquefatte in pochi giorni (fra l’altro, Bin Laden, saudita, è stato ucciso in Pakistan), e che dopo 20 anni si ricomincia da capo.
Spetta alla comunicazione ufficiale l’ingrato compito di raccontare balle per distrarre da un bilancio che sembrerebbe anche politicamente catastrofico. Molte testate si lanciano sul classico “timore di un nuovo medioevo”, altre preferiscono “una possibile ripresa del terrorismo islamico”. C’è chi invece teme “la nascita di un nuovo Narco-Stato”, visto che i talebani si finanzierebbero con i proventi dell’oppio. Nel racconto favolistico tutto sembra plausibile, e ogni rovesciamento della realtà trova un suo fondamento.

In realtà, nella classifica dei Narco-Stati, gli USA non sono secondi a nessuno. Gli Stati Uniti consumano circa il 50% della produzione mondiale di droga, ma controllano i traffici illegali in modo diretto o indiretto in ogni parte del mondo. Il totale fallimento della cosiddetta “guerra alla droga” è stato in realtà un formidabile successo. In un libro del 1973, [La politica dell’eroina, oggi difficile da reperire] Alfred W. McCoy spiegava con un’ampia documentazione come la diffusione delle droghe sia stata sempre gestita dai vari servizi segreti, come ad esempio dalla Cia. In effetti i benefici dal punto di vista del dominio sono enormi. McCoy sottolinea, ad esempio, l’importanza del traffico di droga per le imprese coloniali. Prima i Portoghesi, poi i Francesi in Indocina, quindi gli Inglesi in India, infine gli USA nel Vietnam e in Afghanistan hanno cercato di compensare gli enormi costi di imprese coloniali non sempre redditizie, con i proventi della droga.
L’industria afgana dell’oppio, che i talebani avevano messo in ginocchio, è stata ripristinata, organizzata e sviluppata dagli Stati Uniti passando dal 6% del 2001 al 93 % del mercato mondiale del 2007. I dati del 2017 segnalano un record della produzione annua di 9000 tonnellate di oppio; mentre nel 2020, nonostante la crisi Covid, le tonnellate prodotte sarebbero solo (!) 6300. I vantaggi della politica della droga sono noti: rendere più docili e sottomesse le popolazioni colonizzate (come fecero gli Inglesi diffondendo a livello di massa l’uso dell’oppio in India)(1), organizzare sistemi di controllo poliziesco specifici per la “guerra alla droga”, mettere le mani su una parte degli introiti dei traffici illeciti, ottenere la complicità di governi e organizzazioni criminali locali, e così via. Fra l’altro, un paese destabilizzato in permanenza come l’Afghanistan offre ampie possibilità di triangolazioni finanziarie per il money laundering, lavaggio di denaro sporco, come segnalava Assange già 10 anni fa.
Che i talebani abbiano deciso di racimolare un gruzzoletto con il traffico di droga, è possibile. Ma senza l’esperienza criminale degli USA non farebbero molta strada. Bisogna piuttosto chiedersi come faranno gli USA senza il mare di droga che producevano in Afghanistan. Vedremo.

(1) Il romanzo di Amitav Ghosh, Mare di papaveri, offre uno straordinario affresco del periodo delle “guerre dell’oppio”, con riferimenti storici molto precisi.
 
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


25/04/2024 @ 04:18:51
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