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"La nozione di imperialismo americano non si deve intendere come dominio tout court degli Stati Uniti, ma come la guerra mondiale dei ricchi contro i poveri, nella quale gli USA costituiscono il riferimento ed il supporto ideologico-militare per gli affaristi e i reazionari di tutto il pianeta."

Comidad (2012)
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.

Di comidad (del 20/08/2009 @ 01:55:05, in Commentario 2009, linkato 2216 volte)
La notizia riportata da alcuni giornali il 14 agosto, è che undici - secondo altri diciassette - famiglie di militari della Marina americana lasceranno le loro case in fitto a Casal di Principe, in provincia di Caserta, poiché, secondo rilevamenti effettuati dalle stesse autorità militari statunitensi, l’acqua del luogo sarebbe inquinata. Le autorità militari statunitensi non avrebbero ritenuto adeguati i controlli fatti effettuare a sua volta dal sindaco di Casal di Principe, perciò la decisione è risultata definitiva.
La notizia che alcuni militari americani se ne vadano, non è di quelle che muovono alle lacrime, ma in tutta la rappresentazione proposta dai giornali c’è qualcosa di sbagliato, che lascia intravedere qualcos’altro.
Che i militari americani eseguano in prima persona dei loro controlli sulle acque del luogo è plausibile, poiché, notoriamente, fanno il comodo loro ovunque si insedino; ma ciò che risulta strano è che il loro interlocutore in queste faccende sia un sindaco e non il governo. Ancora più strano è che su questioni militari si apra poi un confronto pubblico, quando i militari americani potevano semplicemente andarsene senza fornire spiegazioni, dato che le autorità militari non soltanto non sono tenute a dare chiarimenti sulle loro scelte, ma, in base ai loro regolamenti, non li devono proprio dare.
Si è quindi di fronte ad una vera e propria ingerenza da parte degli Stati Uniti negli affari interni di un Paese “alleato” - in realtà colonizzato -, di un Paese “ospitante” - in realtà occupato - ; ma non consiste neppure in questo l’aspetto eclatante, ma nel fatto che tale ingerenza venga operata in modo palese, chiassoso e plateale, senza che ciò susciti reazioni ufficiali da parte del governo italiano.
È evidente che ci troviamo in una di quelle situazioni in cui il colpevole si crea un alibi recitando la parte dell’accusatore, ed anche della vittima. Che in Campania ci sia un inquinamento delle falde acquifere, i militari americani non lo hanno scoperto tramite i loro controlli, ma semplicemente perché sono proprio le loro basi la principale fonte di rifiuti tossici della regione. Non a caso, il governo Berlusconi è stato costretto dalla NATO a porre sotto segreto militare, con la Legge 123/2008, tutta la gestione dei rifiuti in Campania; per cui, ora in Campania, chiunque si avvicini ad una discarica o ad un inceneritore, incorre nelle sanzioni dell’articolo 682 del Codice Penale.
In questa vicenda dell’addio a Casal di Principe, vi sono anche indizi di prove tecniche di guerra psicologica, quella che i tecnici statunitensi del settore chiamano “psywar”. Per la prima volta dopo molti anni, le autorità militari statunitensi cominciano a relazionarsi esplicitamente come una forza di occupazione, saltando la mediazione governativa e intrattenendo pubblici rapporti con le amministrazioni locali. Il tutto viene fatto passare in modo inavvertito, come normalità, in modo da creare precedenti e abitudine.
Ci sono molti segnali che lo Stato italiano così com’è, sia in via di liquidazione, in vista della balcanizzazione, cioè della formazione di repubblichette “indipendenti” - delle Basi Nato Republic -, che costituiscano la facciata per la presenza di basi militari USA, con traffici illegali annessi; ivi compresi i traffici e lo smaltimento illegale di scorie militari, nucleari e industriali. Insomma, un’Italia ridotta a tanti piccoli Kosovo.
All’opinione pubblica italiana è stato celato che in effetti un progetto del genere era già in atto da parte anglo-americana nel 1943, e fallì per l’intervento di Stalin.
Il 14 marzo 1944 - una data fatidica, che però oggi non dice niente a nessuno - pervenne al Regno del Sud il primo riconoscimento diplomatico dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, allorché il governo Badoglio aveva accettato la resa senza condizioni nei confronti degli Anglo-Americani. Questo primo riconoscimento, con tanto di scambio di ambasciatori, pervenne al Regno da parte dell’Unione Sovietica.
Sino a quel momento, in base alle clausole dell’armistizio - rimaste segrete -, l’Italia doveva considerarsi come territorio occupato, puro e semplice; perciò Stato e governo dovevano considerarsi senza più personalità giuridica propria, ma come mere cinghie di trasmissione degli occupanti.
Stalin capì che ciò preludeva ad una suddivisione dell’Italia in staterelli minori, più gestibili dalle forze di occupazione anglo-americane. In Sicilia era già pronto un movimento indipendentista, il MIS.
Di tutto questo il CLN non aveva ancora recepito nulla, poiché non sapeva nulla neanche del contenuto del documento di armistizio, e inoltre si baloccava con la leggenda di una “Carta Atlantica”, firmata dagli Alleati; un documento mitico che, secondo le dicerie propagandistiche, avrebbe garantito l’integrità degli Stati, e dei loro confini, nei termini prebellici. Soltanto nel 1945, poco prima di morire, il presidente USA Roosevelt si decise a rivelare che, in realtà, non era mai esistito alcun documento del genere. La sconcertante rivelazione però non diminuì per nulla la popolarità di Roosevelt, e neppure incrinò il mito degli Americani “liberatori”; così come, probabilmente, oggi non creerà particolare delusione negli adoratori di Obama la sua rivelazione che la promessa dell’istituzione di una sanità pubblica negli USA fosse tutto uno scherzo.
L’episodio del riconoscimento dello Stato italiano da parte dell’URSS, venne quasi immediatamente banalizzato e occultato dalla propaganda ufficiale, presentandolo come una questione interna all’Italia, e diventò la “svolta di Salerno”, in cui il segretario comunista Togliatti accettava di collaborare col re e con Badoglio. Per come la mise Togliatti, il tutto davvero si risolse, in politica interna, in una mera svolta a destra del PCI, il quale, col solito autolesionismo, tacque sulla decisiva importanza del gesto diplomatico di Stalin. Se ne accorsero perciò, con disappunto, solo quelli della Repubblica Sociale, la quale, sino a quel momento, era l’unico Stato italiano a poter vantare dei riconoscimenti diplomatici.
In realtà Stalin aveva rotto le uova nel paniere agli Anglo-Americani, poiché, con il suo riconoscimento diplomatico, aveva resuscitato uno Stato italiano seppellito dalle clausole dell’armistizio, liquidando così i progetti separatistici nati in funzione dell’occupazione militare statunitense.
La questione delle basi militari americane costituisce il segnale che svela il carattere pretestuoso e provocatorio dei progetti separatistici tipo Lega Nord. Si vuole una Padania indipendente da Roma ladrona e dal Sud-zavorra, ma non dall’occupazione militare della NATO; cosa che suggerisce che si tratti di un indipendentismo funzionale agli interessi della stessa NATO.
Del resto basta vedere chi siano i veri ideologi del gruppo dirigente della Lega Nord. Ad esempio, dove ha preso Bossi la proposta delle gabbie salariali per il Sud?
L’ha presa da una vecchia intervista di Edward Luttwak, tecnico statunitense di psywar. In questa intervista, che circola ancora su internet, Luttwak, dopo essersi profuso in elogi sperticati e subdoli sulle mirabolanti virtù dei Meridionali e sull’eccezionale potenziale di sviluppo del Sud, alla fine arriva al sodo, cioè alla proposta di salari più bassi per i lavoratori meridionali, in modo da favorire gli investimenti.
È l’eterna storia del corvo e della volpe, narrata da Esopo; in cui la volpe riesce a far mollare al corvo il pezzo di formaggio che ha nel becco chiedendogli di ascoltare la sua bellissima voce. È segno che, per gli USA, nel Sud indigente c’è ancora qualche pezzo di formaggio da rubare.
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Di comidad (del 27/08/2009 @ 01:44:41, in Commentario 2009, linkato 2584 volte)
Dal 22 luglio la provincia di Napoli è stata coinvolta in una serie di black-out dell’energia elettrica di crescente gravità. La prima ad essere colpita è stata una delle zone più centrali della città, che comprende la Prefettura, il Municipio ed il Palazzo Reale. Sette ore che hanno paralizzato ogni attività amministrativa, commerciale e turistica.
Il 10 agosto è toccato all’isola d’Ischia di sprofondare in un black-out infinito, il 14 agosto a Capri. Nei casi di Napoli e di Ischia le giustificazioni della società Terna - un alter ego dell’ENEL - , che gestisce il sistema di linee ad alta tensione, è la stessa: una ditta (estranea alla stessa società), nell'esecuzione di lavori di scavo, ha tranciato un cavo. E’ una giustificazione ad effetto, che scarica il gestore di ogni responsabilità di fronte all’opinione pubblica, ma che non regge di fronte ad una elementare analisi della rete elettrica esistente in tutta Italia da alcuni decenni.
Tutte le stazioni elettriche ad alta e media tensione fanno parte di una rete a maglie per cui, se viene meno l’alimentazione da un lato della maglia, immediatamente viene attivata l’alimentazione da uno degli altri lati. Non ci vogliono sette ore per ovviare ad un guasto come quello descritto dalla società Terna; se si fosse trattato di un guasto diverso (fuori servizio simultaneo di uno o più trasformatori o altro) sarebbe stato comprensibile, ma non giustificabile.
Potrebbe anche darsi che, per difetto di manutenzione - magari voluto -, alcuni lati delle maglie non siano pronti a garantire l’alternativa e, in tal caso, si cadrebbe nell’emergenza. Un fatto di questo genere, in un sistema tecnologico pubblico come quello gestito dall’ENEL, sarebbe inammissibile; solo in un sistema in cui i servizi pubblici essenziali siano privatizzati costituisce la norma, perché l’emergenza è molto più remunerativa. Quindi è difficile pensare ad un caso fortuito.
L’importante è saper gestire l’emergenza con un efficiente programma di relazioni pubbliche e di controllo dei media, come ha dimostrato di saper fare la californiana Enron, la quale usava i black-out, con le relative emergenze, per estorcere finanziamenti pubblici che, in più, consentivano alle sue azioni di schizzare in alto non appena giungeva la notizia del finanziamento pubblico.
È ancora nella memoria di molti il megablack-out del 28 settembre 2003, che colpì tutta l’Italia, da Nord a Sud. Anche per quell’incredibile episodio non vi fu alcuna spiegazione decente, e i media arrivarono a raccontare della caduta di un albero su un traliccio dell’energia elettrica, come se i tralicci fossero dei semplici pali di legno, piuttosto che, come minimo, delle strutture di cemento armato; ma nella generalità dei casi si tratta oggi di strutture di acciaio zincato, tecnologicamente molto complesse, studiate e progettate, caso per caso, da pool di architetti ed ingegneri per rispondere in condizioni estreme a sforzi eccezionali, altro che caduta di alberi.
L’omertà mediatica non fu sufficiente al governo Berlusconi di allora per trarre dall’emergenza i risultati sperati. Si farfugliò di ritorno al nucleare, ma poi l’ipotesi cadde, in attesa di tempi migliori, che sono poi quelli attuali, dato che la decisione di costruire delle nuove centrali nucleari è stata presa dal Parlamento poche settimane fa. Il fiasco di allora fu evidente quando nessun impulso efficace alla ulteriore privatizzazione dell’ENEL riuscì a sortire dal pretesto dell’emergenza.
Sono quattordici anni che i governi, sia di centro-destra che di centro-sinistra, cercano di privatizzare sul serio l’ENEL. Nel 1999 il governo Amato - il terzo della legislatura, dopo quelli di Prodi e di D’Alema -, sembrò riuscire finalmente a fare il colpo, e l’ENEL venne trasformata in una SPA. Nel luglio del 2001 la Corte dei Conti dovette però constatare che la privatizzazione non procedeva, poiché non c’erano investitori in grado di comprare le azioni ENEL al loro valore effettivo. La Corte dei Conti concludeva che, visti i profitti giganteschi ottenuti dall’ENEL e la modernità dei suoi impianti, occorresse evitare di operare delle svendite.
La strada imboccata dal privatizzatore per eccellenza - il finto socialista e vero sicario delle multinazionali, Giuliano Amato, colui che nel 1993 aveva operato la prima privatizzazione del Pubblico Impiego - si era rivelata senza sbocco, frutto di inesperienza.
Nessun investitore privato disponeva infatti delle cifre necessarie per avvicinarsi al valore effettivo dell’azienda elettrica. Neppure le multinazionali del settore pensarono seriamente di sborsare cifre del genere, perché se si fossero regolate acquistando regolarmente ciò che possiedono, oggi non lo possiederebbero affatto.
Occorre anche considerare che la parte del gruppo dirigente dell’ENEL ostile alla privatizzazione, dispone di risorse finanziarie immense, in grado di inceppare con argomenti molto concreti il processo di privatizzazione, spegnendo l’entusiasmo dei privatizzatori ed assottigliando le loro file, grazie a tangenti di proporzioni rispettabili. ENEL ed ENI sono oggi i gruppi industriali che producono i maggiori profitti in Italia, sono delle SPA solo di nome - dato che la maggioranza delle loro azioni è ancora nelle mani dello Stato -, e inoltre rappresentano due enti complementari, facce della stessa medaglia. L’attuale Amministratore Delegato dell’ENI, Scaroni, aveva già ricoperto lo stesso incarico nell’ENEL e, prima ancora, era stato rieducato nelle patrie galere ai tempi di Mani Pulite.
Oggi Amato e i suoi discepoli hanno studiato meglio l’argomento, hanno messo da parte la mitologia del capitalismo e i libri di fiabe sul libero mercato, con quei leggendari personaggi chiamati “imprenditori”, meno realistici di elfi, folletti e gnomi. Amato ha scoperto così che le privatizzazioni non sono il risultato di vendite, e neppure di svendite, ma di furti. Furti non solo in senso morale, ma in senso tecnico-giuridico, cioè una somma di illegalità di Stato e di atti terroristici compiuti sotto il ricatto di emergenze provocate ad arte.
L’atteggiamento indifferente di una parte dell’opposizione sociale di fronte al tema delle privatizzazioni, si alimenta di una visione in cui si confrontano i modelli astratti del capitalismo privato da una parte e del capitalismo di Stato dall’altro; una visione che non tiene conto del fatto che è proprio lo Stato a pagare le privatizzazioni, attraverso la rapina ai danni del contribuente. È la spesa pubblica a finanziare le privatizzazioni, ed è la spesa pubblica a sostenerle, dato che il privato, appena supera la dimensione artigianale, è in realtà un sussidiato dallo Stato.
Privatizzazioni e nazionalizzazioni hanno seguito storicamente un percorso pendolare: alla fine dell’800 lo Stato italiano ha finanziato la nascita dei settori industriali e delle infrastrutture fondamentali (energia elettrica, siderurgia, ferrovie, ecc.), poi ne ha attuato la privatizzazione, spesso a vantaggio di compagnie con partecipazione straniera; successivamente si sono rese necessarie le nazionalizzazioni per salvare le infrastrutture dal decadimento, e i privati hanno intascato i proventi del risarcimento statale. Una volta che le infrastrutture siano state risanate e rimodernate, si ripropone l’urgenza di privatizzare di nuovo, ovviamente senza che i privati ci rimettano un soldo, perché sarà sempre la spesa pubblica a pagare le privatizzazioni.
Paradossalmente, le tasse e la spesa pubblica vanno a vantaggio proprio di quel settore della società che esprime il maggior numero di evasori fiscali. La propaganda ufficiale alimenta la menzogna secondo cui le tasse e la spesa pubblica servono a sostenere la spesa sociale, i pubblici servizi; mentre, in effetti, solo una minima parte della spesa pubblica diventa spesa sociale, e il pubblico denaro viene impiegato soprattutto per sostenere l’artificio della proprietà privata dei grandi mezzi di produzione e delle banche.
La sedicente “democrazia occidentale” ricorre anche alle armi del raggiro pur di nascondere all’opinione pubblica la presenza degli artigli privati sulla spesa pubblica. È, ad esempio, appena dell’altro ieri la sceneggiata mediatica del presidente USA Obama, che avrebbe “riconfermato” Bernanke per altri quattro anni alla presidenza della Federal Reserve.
In realtà la Federal Reserve, a dispetto del suo nome, è una banca privata, di proprietà di altre banche private, e il Presidente degli Stati Uniti non ha nessun ruolo nelle nomine al suo interno. Sta di fatto che, a questa banca privata, il Congresso USA ha completamente delegato, nel 1913, la gestione monetaria nazionale; ed il presidente-fantoccio degli Stati Uniti viene chiamato oggi a plaudire pubblicamente, con frasi equivoche, alla riconferma di Bernanke, in modo da far credere a tutti che si tratti proprio di una decisione di Obama in persona.
Senza un gioco sporco, senza cortine fumogene, senza una serie di attacchi terroristici che colpiscano sia alla periferia che al cuore del bersaglio prescelto, le privatizzazioni delle risorse pubbliche non possono essere effettuate. Nel caso dell’ENEL, serviranno anche contenziosi giudiziari - come quello che i Comuni capresi, esasperati, hanno già avviato -, e persino sospetti di infiltrazione della malavita organizzata, con relative inchieste giudiziarie. Insomma qualcosa che offra il pretesto al governo per dei commissariamenti, dapprima su base locale, poi nazionale.
Dai commissariamenti si potrà poi procedere allo smembramento, alla spartizione dell’ENEL tra i privati; per la felicità dell’Anti-trust, che, manco a dirlo, è una creatura di Giuliano Amato.
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FEDERALISTI ANARCHICI:
il gruppo ed il relativo bollettino di collegamento nazionale si é formato a Napoli nel 1978, nell'ambito di una esperienza anarco-sindacalista.
Successivamente si é evoluto nel senso di gruppo di discussione in una linea di demistificazione ideologica.
Aderisce alla Federazione Anarchica Italiana dal 1984.


05/12/2024 @ 07:40:23
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