Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Settanta, anzi settantun anni, di anarchismo organizzato si sono sviluppati all’ombra del sospetto che l’organizzazione costituisse una forma di deroga dall’identità anarchica. Pirandellianamente ognuno percepisce se stesso in base a come viene percepito dall’opinione pubblica, perciò se l’anarchia viene considerata dai più come disorganizzazione, l’organizzazione a sua volta non può essere ritenuta anarchica, e tale opinione finisce per influenzare indirettamente anche chi non la condivida sul piano teorico. L’ombra del sospetto perciò ha oscurato la visuale anche degli stessi anarchici organizzati, i quali spesso non si sono resi conto che i rischi di degenerazione autoritaria derivano soprattutto da una colonizzazione ideologica dall’esterno da parte di reclamizzate dottrine pseudo-eco-utopistiche che si spacciano come eredi dell’anarchismo storico.
Il fatto è che persino chi si identifica in un progetto di anarchismo organizzato, non considera l’organizzazione stessa come una mera “conditio sine qua non” per un’azione collettiva, bensì come una risorsa in termini di potenza. La Piattaforma dei Comunisti Anarchici del 1926 arrivava ad attribuire il prevalere dei bolscevichi sulle altre correnti del socialismo russo alla loro superiore organizzazione. Questo luogo comune gode ancora di una sua indiscutibilità, persino tra i critici della Piattaforma. Nella sua autobiografia il regista spagnolo Luis Buñuel, militante della CNT-FAI, riconfermò questo luogo comune, attribuendo la sconfitta dell’anarchismo spagnolo alla sua mancanza di organizzazione a fronte della rigorosa disciplina dei comunisti di fedeltà sovietica.
Per la verità oggi si sa con certezza che le cose non stanno proprio così. Documenti dell’archivio di Stato tedesco de-segretati una decina di anni fa, hanno confermato quanto si poteva già supporre a lume di buonsenso, e cioè che l’aiuto tedesco nei confronti di Lenin non si limitò a fornirgli un treno per tornare in patria, ma si concretizzò in versamenti di milioni di marchi, con una tranche di cinque milioni nell’aprile del 1917. Nel 2007 il settimanale tedesco “Der Spiegel” ha banalizzato queste informazioni parlando di “rivoluzione comprata”. In realtà Lenin non era né un fantoccio né un venduto ma, dal suo punto di vista, poteva ritenere di aver sfruttato una contraddizione interna all’imperialismo. Ma il punto non è questo. Non era infatti l’organizzazione, o il mitico centralismo democratico, il punto di forza dei bolscevichi, ma il fatto di avvantaggiarsi di un’ingerenza esterna al territorio russo. Da questa posizione di forza dei bolscevichi si svilupparono tutta una serie di rendite di posizione, come il fatto che una cordata di lobby di affari di import di materie prime si andasse ad agganciare al carro del probabile vincitore. Si tratta con tutta evidenza delle stesse lobby che hanno corroso dall’interno l’esperienza del cosiddetto “socialismo reale” e lo hanno condotto alla fine misera che sappiamo.
Lo stesso discorso vale per la Spagna del 1936, dove i comunisti poterono avvantaggiarsi dei finanziamenti sovietici, magari non particolarmente generosi, ma sufficienti a far acquisire una posizione di forza che consentisse di agganciare lobby massoniche interessate a bloccare le collettivizzazioni operate dalla CNT-FAI.
Il potere quindi non è una ramificazione o un radicamento sociale, non è organizzazione, ma è una rendita di posizione che si esprime a partire da una posizione di forza acquisita a causa di un’ingerenza esterna. In questo senso il colonialismo non è soltanto una forma del potere, ma è il paradigma del potere.
L’idea comune è che il potere si sviluppi per spinte endogene, cioè per contraddizioni economiche interne ad una società, contraddizioni che favoriscono la discriminazione sociale e quindi l’instaurarsi di un dominio di classe; ma questa idea non ha un riscontro storico. Nell’antichità un popolo ne conquistava un altro e ne diventava la casta dominante, e persino la divinità: gli Spartiati sopra e gli Iloti sotto. Ma del resto anche l’imperialismo americano vanta le sue divinizzazioni, basti pensare a Steve Jobs. L’imperialismo contemporaneo preferisce il colonialismo indiretto dell’imposizione di trattati militari e commerciali alla pratica dell’occupazione diretta di un territorio, ma non si rinuncia mai del tutto a qualsiasi opzione. Nella ex Jugoslavia i rancori etnici avrebbero potuto rimanere latenti in eterno se non fossero arrivati il denaro tedesco ed il denaro saudita a far saltare gli equilibri di forze; ma ad un certo punto nel 1999 la NATO ha ritenuto di intervenire direttamente per strappare un pezzo di territorio alla Serbia in modo da insediarvi lo Stato fantoccio del Kosovo.
La fiaba che di solito ci viene raccontata è quella degli ideali che vengono irreggimentati dall’organizzazione, dell’organizzazione che poi diventa burocrazia, e della burocrazia che alla fine spegne gli ideali. Giuseppe De Rita ha raccontato persino la storia dell’Unione Europea in base ai canoni di questa fiaba, dimenticandosi quindi di dettagli come l’imperialismo della NATO, che imponeva l’europeismo già nell’articolo 2 del Patto Atlantico del 1949, oltre che dell’ingerenza costante delle lobby finanziarie multinazionali. Robetta.
La cosiddetta “globalizzazione”, cioè il potere che si costituisce come “bolla” oligarchica e irresponsabile al di fuori e al di sopra dei territori, non costituisce quindi un inedito storico, ma è la forma normale di funzionamento del potere stesso. Il fatto che un’opposizione si radichi in un territorio non costituisce di per sé un elemento che possa mettere in crisi le bolle oligarchiche, poiché anche queste a loro volta possono comprarsi delle complicità nei territori. Basti pensare alla saldatura storica tra le mafie e la NATO.
La risorsa dell’anarchismo non è il territorio in sé, ma l’anarchismo stesso, cioè la possibilità di demistificare il potere. Lo scontro di classe non è un mai un fatto interno ad un Paese : lo sa l’operaio che vive sotto il ricatto della delocalizzazione, come dovrebbe saperlo l’insegnante che ha di fronte un Dirigente Scolastico addestrato al “management” dalla multinazionale IBM.
Prefazione di Alessandro De Cesaris
Dal Farmaco alla Bibita
Del Rimedio in Filosofia
You spend your whole life thinking you’re not getting it, people aren’t giving it to you.
Then you realize they’re trying, and you don’t even know what it is.
Mad Men, episodio 92. That’s it.
Coca-Cola
Non una sete qualsiasi.
Nell’episodio finale della serie americana Mad Men il protagonista, Donald Draper, riesce a risolvere il conflitto che aveva dominato la sua intera esistenza: non c’è infatti alcuna contraddizione tra verità e menzogna, o tra giustizia e felicità, se la verità non è altro che un prodotto, e la giustizia non è che il diritto di scegliere costantemente questo prodotto, di dirigerne la fabbricazione e il confezionamento, in accordo con uno dei miti fondanti dell’immaginario statunitense e occidentale, quello dell’uomo che sa cosa vuole.
E allora Draper – un pubblicitario di successo della celebre agenzia McCann Erickson – torna a Madison Avenue e crea lo spot più famoso della storia: su una collina italiana centinaia di giovani di tutte le nazionalità guardano verso l’orizzonte con in mano una bottiglia di Coca-Cola, intonando un motivetto i cui versi inneggiano all’amore universale. È uno spot rivoluzionario, se si considera che le istanze del multiculturalismo erano in quegli anni ancora fortemente osteggiate. Eppure, in questa celebrazione delle differenze di pelle, di abbigliamento e addirittura di linguaggio – come si nota dalle diverse etichette della bibita, stampate in tutti gli alfabeti –, ciò che emerge è l’unità più profonda ottenuta grazie alla magia della Coca-Cola. Lo stesso ricorso all’estetica hippie non stride, se si considera che – anche se solo a un primo sguardo – le istanze del capitalismo sembrano essere le stesse della contestazione: l’abbattimento delle barriere politiche e la liberazione del desiderio. Nello spot, dunque, la Coca-Cola si propone al tempo stesso come artefice di questa nuova fratellanza universale – uniti nella sete – e oggetto del desiderio collettivo: “It’s the real thing / What the world wants today”.
Eppure, il paradosso della Coca-Cola è noto: più la si beve, più si ha sete. Slavoj Žižek lo associa ad altri due paradossi: più si è ricchi, più si è avidi, e più si obbedisce alla propria coscienza, più ci si sente in colpa. In questo meccanismo si fa strada un’inversione fondamentale: la CocaCola è una bibita la cui funzione non è placare la sete, ma produrla , anzi produrre una sete che nessun’altra bevanda può estinguere, dal momento che è sete di Coca-Cola. Nella bevanda statunitense, nota ancora Žižek, si manifesta al massimo grado l’enigmatica natura di “surplus spirituale” propria della merce , eppure, potremmo dire, anche una caratteristica essenziale della dinamica capitalista, ossia la necessità che il bisogno sia un prodotto allo stesso modo di ciò che deve soddisfarlo. Come lo spot del 1971 suggerisce, il desiderio deve essere uniforme affinché si dia il mondo prospettato dalla Coca-Cola: eppure, ironicamente, si tratta di un mondo in cui è la sete stessa a essere venduta sotto forma di bibita.
La metafora della sete, dunque, tradisce la natura autoreferenziale, circolare della società capitalista del secondo dopoguerra: è la condizione dello stesso Don Draper, che trascorre gli anni migliori della sua vita affermandosi come self made man – scegliendo addirittura la propria identità – ma al tempo stesso ignorando ciò che desidera. La mancanza di un obiettivo, di un vero oggetto del desiderio, il suo bere e masturbarsi attraverso i corpi di innumerevoli donne gli sembra un’inevitabile caduta nella menzogna. Il suo lavoro non gli offre una soluzione, finché egli non accetta che la menzogna non esiste, perché non esiste la verità: il mondo può unirsi sotto lo stendardo di una bibita gassata – United Colors of Coca-Cola – perché in fondo la felicità coincide con il desiderio, e l’unica differenza è tra coloro che lo creano e coloro che lo ricevono già confezionato attraverso i canali pubblicitari.
In questo scenario, la risposta dei situazionisti appare dirompente: vogliamo tutto. Ciò significa il rifiuto di omologarsi ai desideri imposti dall’industria e dai media, ma ancora più radicalmente, il tentativo di disancorarsi dal modo in cui quella società aveva inteso il desiderio stesso. Di fronte alla seduzione circolare della Coca-Cola, la contestazione tenta di ripensare la sete.
In questo tentativo, d’altronde, viene rimessa in gioco l’essenza della filosofia stessa. Il filosofo non dovrebbe mai, almeno non in primo luogo, dare un giudizio di valore sui fenomeni individuali esperibili nella società e nel mondo, ma piuttosto interrogarsi sulle condizioni di possibilità del darsi di quei fenomeni stessi. La critica viene così condotta su un terreno più radicale, in cui si cerca di trovare nuove risposte alla domanda sull’essenza del desiderio e della felicità, ma al tempo stesso ci si interroga sul ruolo della filosofia. Che tipo di bibita deve essere la filosofia, al fine di rispondere alla nuova sete? Ma soprattutto, occorre chiedersi, si dà il caso che la filosofia sia una semplice bibita?
Aporia del rimedio.
Il pensiero filosofico ha sempre intrattenuto uno stretto rapporto con la medicina. Il filosofo è innanzitutto un terapeuta, un uomo capace di fornire un rimedio contro uno specifico tipo di mali: la paura, il dubbio, l’inganno. Il rimedio filosofico è innanzitutto un pharmakon: eppure già nel Fedro di Platone traspare in filigrana la natura ancipite della medicina filosofica. La scrittura, quello strumento che Platone condanna, ma cui fa al tempo stesso costantemente ricorso, appare come un pharmakon per la memoria, ma ne causa in realtà l’indebolimento. Schleiermacher tradurrà l’espressione con la parola tedesca Mittel, dando il via a una riflessione sui media che spesso sottolineerà la natura ambigua di ogni strumento. Nel linguaggio di McLuhan: ogni estensione è al tempo stesso una amputazione. La scrittura è male perché non estende realmente la nostra memoria, ma si limita a fornirci una protesi esterna di essa; nel far ricorso alla parola scritta rimaniamo dipendenti da qualcosa al di fuori di noi. Ciò fa della scrittura un falso pharmakon: la vera medicina filosofica è quella che ci libera dalla nostra dipendenza dall’altro.
È proprio per questa ragione che la filosofia è spesso stata nemica del desiderio: come nota Judith Butler, il desiderio ha sempre costituito un oggetto scabroso per la filosofia, ciò che sembra mantenere l’uomo ancorato alla propria condizione animale, terrena, finita. La filosofia, invece, viene interpretata come un’operazione che libera l’individuo da queste catene, e lo rende finalmente autonomo, compiuto. Se il desiderio incarna la nostra apertura verso l’esterno, il nostro inarrestabile tendere verso l’altro, allora la medicina filosofica deve essere innanzitutto una forma di sedativo, un rimedio che ci aiuti ad amministrare, diminuire, estinguere il desiderio stesso. Senz’altro a questa operazione si accompagna il battesimo di un nuovo tipo di desiderio, l’amore per il sapere, il desiderio di conoscenza. Purtroppo questo nuovo desiderio può solo aggiungersi al vecchio, mai sostituirlo.
E tuttavia, se il desiderio costituisce la nostra essenza, se questa finitezza, questo Streben è l’elemento costitutivo del nostro essere al mondo, allora questo modo di interpretare la filosofia non può non apparire come una strana violenza: il pharmakon è medicina che cura, ma al tempo stesso veleno che stravolge. La stessa pretesa che l’uomo sia davvero se stesso solo nel perseguimento di una vita contemplativa non può non apparire come una curiosa mutilazione – una amputazione, appunto – della natura umana. Soprattutto, si tratta di un’operazione che sopraggiunge dall’esterno, un intervento invasivo che non scaturisce da ciò che siamo, ma da un’imposizione aliena e – per ciò stesso – artificiosa. Come si accenna nello scritto sull’Illuminismo di Kant, nell’obbedire all’imperativo di mortificare la nostra natura desiderante rimaniamo dipendenti dal filosofo come il paziente dal medico.
In questo senso, che la Coca-Cola sia nata come una medicina è al tempo stesso opportuno e paradossale. Il meccanismo circolare da essa innescato, infatti, è identico alla dinamica farmacologica classica: da un lato la relazione dell’individuo con il prodotto diventa necessaria, dall’altro questa relazione sembra restituire autonomia, escludendo qualsiasi altro rapporto in una dinamica fagocitante ben nota a chi acquisisce una dipendenza: si smette di bere acqua, si bevono solo bollicine. La circolarità della nuova società capitalista è bulimica, nel produrre bisogni interni oblitera qualsiasi minaccia esterna, come Žižek spiega molto bene parlando del nuovo mercato culturale e della sua capacità di assorbire lo shock come un elemento propulsivo, in cui si produce un corto circuito dialettico tra esterno e interno .
Questa dinamica è la stessa che Guy Debord denuncia nel suo La Società dello Spettacolo. Non si può dire che il desiderio sia uno dei temi fondamentali dell’opera, eppure alcune affermazioni debordiane confermano il discorso sviluppato in queste pagine: l’alienazione propria della società dello spettacolo consiste infatti nell’atto con cui lo spettatore si riconosce nell’immagine, la introietta pur essendo quest’ultima qualcosa di esterno . La dinamica propria dello spettacolo conduce al raggiungimento di una falsa autonomia, di una falsa liberazione dal desiderio. A quest’ultimo, infatti, si contrappone lo pseudo-bisogno , motore pulsante di una società in cui «la merce contempla se stessa in un mondo che essa stessa ha creato».
È così che Debord può dire che a questa dinamica si contrappongono «la coscienza del desiderio» e «il desiderio della coscienza», una società in cui lo sviluppo dei bisogni e dei desideri segua il corso naturale della vita animale e spirituale dell’uomo, senza che quest’ultimo sia mortificato dalla ipertrofia di un sistema in cui il desiderio stesso viene accresciuto fino a farsi colossale.
Una nuova idea di felicità.
Sulla base di tutto ciò la proposta di Gianfranco Marelli non può più essere considerata un semplice orpello retorico. L’immagine della bibita, che segna le prime battute del testo e lo accompagna fino alla fine, non ha l’obiettivo di rendere il discorso più accattivante o evocativo, ma piuttosto di segnalare la principale novità del Situazionismo in relazione ai temi che abbiamo appena considerato: il pensiero della rivoluzione non può essere una medicina amara, imposta da uno specialista autoritario; è una bibita, scelta liberamente da chi possiede la giusta sete, quella sete che solo il «gusto aspro» della svolta situazionista poteva placare.
Placare, scrive Marelli, non estinguere. Nella sua presentazione, infatti, il Situazionismo procede nel costante tentativo di disancorarsi da due prospettive opposte, ma ugualmente fatali. Da un lato il capitalismo produttore di bisogni, che inibisce il desiderio e lo incatena in questo eterno circolo autoreferenziale; dall’altro il pensiero filosofico tradizionale, che intende la felicità come estinzione del desiderio, sia ciò nel senso della sua soddisfazione o del suo superamento. Il problema, invece, non è l’estinzione del desiderio, ma piuttosto il rifiuto di un paradigma in cui il desiderio stesso è ridotto alla vuota forma di se stesso.
Nello smarcarsi da questa alternativa, tuttavia, non si intende nemmeno accettare il desiderio come sigillo ineliminabile della finitezza dell’uomo, come destino che ne decreta il fallimento; al contrario, il desiderio è ciò che libera l’uomo e lo caratterizza nel suo vivere disalienato. È questo il significato fondamentale del binomio menzionato poco più sopra, quello tra la coscienza del desiderio e il desiderio della coscienza: il nostro bisogno di soggettività, di ritrovare la nostra umanità più autentica, può essere soddisfatto solo nel nostro comprenderci come enti costitutivamente desideranti, aperti al mondo e all’altro in una relazione che produce la possibilità stessa della nostra libertà e della nostra felicità.
In tutto questo, bisogna precisare, il Situazionismo non viene affatto descritto come una riflessione teorica sul desiderio. In quegli stessi anni altri pensatori stavano muovendosi su questo terreno, tentando di ripensare il desiderio in senso produttivo e positivo. Su tutti Gilles Deleuze, la cui filosofia – forte di una brillante lettura di Spinoza e Nietzsche – intendeva rivalutare il desiderio contro il pensiero hegeliano, o almeno contro una certa lettura di esso. I situazionisti, al contrario, associano alla riflessione critica sulla società contemporanea una serie di pratiche di vita, in cui la «distruzione dell’idea borghese di felicità» non si costituiva come polemica teorica, ma come alternativa esistenziale concreta. Quella situazionista appare dunque come una forma di iperpolitica, ossia una forma di superamento della normale dimensione dello scontro pubblico, in cui un ruolo di primo piano è riservato alla vita quotidiana.
È qui che il procedere dei situazionisti rivela il proprio sospetto nei confronti del modello socialista, in cui – usando un’espressione benjaminiana – la risposta all’estetizzazione del politico di marca fascista era stata la politicizzazione dell’arte. Anche qui, sembra che il rimedio sia peggiore del male: la risposta situazionista, ancora una volta, è quella di smarcarsi dalla morsa dell’alternativa concependo, da un lato, l’esigenza di un’arte di vivere in cui è l’essere umano stesso, nella sua quotidianità, a riprodursi creativamente, e dall’altro l’esigenza di superare l’arte, la cui natura stessa la esponeva costantemente al pericolo di essere inglobata nel meccanismo fagocitante dello spettacolo, sostituendo così alla rivoluzione lo spettacolo della rivoluzione.
Mantenere un equilibrio tra queste tre anime complementari del Situazionismo – l’arte, la sperimentazione pratica di nuove forme di vita e la teoria politica – era ovviamente quasi impossibile. Come verrà più volte ricordato, il progetto situazionista non si è realizzato.
Eppure, se nel suo primo testo sull’Internazionale Situazionista Gianfranco Marelli si dedicava approfonditamente a un’analisi del movimento, della sua genesi, della sua storia e della sua amara sconfitta, mi sembra che lo spirito di questo suo nuovo testo sia di segno opposto, quasi alla ricerca di una complementarità: pur raccontando i tratti essenziali di un percorso storico, questo saggio sembra voler ricordare al lettore di oggi che altre strade rimangono praticabili, che un’alternativa è possibile. Un saggio scritto per il giorno e l’ora, in risposta all’allarmante piattezza di una società digitale in cui i tratti denunciati dai Situazionisti hanno trovato non solo conferma, ma anche terreno per mettere radici profonde. Ancora più a fondo, sembra che l’intento sia riaffermare la possibilità del possibile stesso, ossia la possibilità del futuro, della liberazione dal circolo vizioso in cui la sete di Coca-Cola ci ha gettati, e in cui è il tempo stesso a piegarsi su se stesso in un presente sempre uguale a se stesso10. È a causa di questa condizione che la riflessione teorica – presente nelle opere di filosofi come Slavoj Žižek o Byung-Chul Han – non può essere sufficiente: accanto alla teoria critica abbiamo bisogno di una pratica critica. In questo senso, allora, il titolo del libro descrive con precisione la sua natura: attraverso il racconto dell’esperienza passata del Situazionismo ci viene offerta una nuova bibita, dal sapore certamente aspro, ma capace di ricordarci di una sete diversa. Gianfranco Marelli ci mostra – con le sue parole, ma non solo – che un altro agire è possibile, che ogni vita può essere una rivoluzione.
Alessandro De Cesaris
Gianfranco Marelli – Una bibita mescolata alla sete – BFS Edizioni
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